Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21180 del 08/08/2019

Cassazione civile sez. II, 08/08/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 08/08/2019), n.21180

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27634-2015 proposto da:

C. EDILIZIA SRL, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA R. GRAZIOLI LANTE 9,

presso lo studio dell’avvocato PIETRO CARLO PUCCI, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CH.MA., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTOPOLI

4, presso lo studio dell’avvocato RAFI KORN, che lo rappresenta e

difende unitamente agli avvocati FRANCESCO TURCO, THOMAS LAYNE;

– controricorrente –

e contro

EREDI CH.SA., CH.AL.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 401/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/04/2019 dal Consigliere ANTONIO ORICCHIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

CONSIDERATO IN FATTO

La C. Edilizia S.r.l. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Tivoli il locale Istituto Interdiocesano per il sostentamento del clero al fine di sentir accertare l’inesistenza o, in subordine, l’estinzione del livello o, in via ulteriormente gradata, l’inesigibilità della prestazione fondiaria relativamente a terreno seminativo di 27mila metri quadrati in (OMISSIS).

La Società attrice esponeva di aver acquistato detto terreno, più specificamente in atti individuato, dal succitata Istituto Interdiocesano con atto pubblico in data 29 maggio 1997 e che Ch.Ma., quale erede di B.M. e Ch.Vi., aveva stragiudizialmente richiesto ad essa società il pagamento, per il medesimo succitato terreno, di Euro 21.782,20 a titolo di canoni enfiteutici per il periodo 1999/2005. Tanto, più in particolare, quale erede avente causa di B.M. e Ch.Vi., già titolari di dominio diretto sul citato terreno e, quindi, creditori di canone enfiteutico.

La Società attrice deduceva, in particolare, che i “diretti dominii” ceduti con atto pubblico del 20.3.1947 da B.A.M. a Ch.Vi. (ai quali subentravano mortis causa M. e Ch.Sa.) non comprendevano anche il terreno in questione.

Esponeva, altresì, la Società attrice che il livello catastalmente iscritto a favore dei B. non era un canone enfiteutico, bensì un “censo riservativo” come tale esposto alla prescrizione decennale ai sensi dell’art. 2946 c.c. ovvero alla prescrizione biennale prevista dalla L. n. 3 del 1974, artt. 1 e 2 con riguardo ai crediti derivati dalla disposta conversione delle prestazioni fondiarie perpetue, prestazioni in ogni caso – secondo la Società stessa- comunque non esigibili in difetto di previa commutazione in canone pecuniario ai sensi della L. n. 4727 del 1887, art. 3.

I convenuti Ch.Ma. e Sa. contestavano la fondatezza dell’avversa domanda attorea.

L’adito Tribunale, con sentenza n. 992/2008 dichiarava l’inammissibilità della proposta domanda per carenza di interesse ad agire sul presupposto che l’esistenza del livello e della relativa dovuta prestazione pecuniaria era attestato dal medesimo titolo allegato dalla società attrice per affermare il suo pieno diritto sul fondo.

Interposto appello, resistito dal solo C.M., da parte dalla Società attrice avverso la suddetta decisione del Tribunale di prima istanza, l’adita Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 401/2015, respingeva – in parziale riforma dell’impugnata sentenza – la domanda nei confronti di Ma. e Ch.Sa..

Per quanto rileva va evidenziato che la Corte territoriale, ritenuta l’ammissibilità della domanda (esclusa in primo grado), rigettava la stessa – esaminata la stessa nel merito – in base all’esame dell’atto pubblico di compravendita ed al ritenuto fatto che la Società C. aveva con esso atto acquistato solo “l’utile dominio” sul terreno de quo con espressa indicazione dei “livelli” sul medesimo fondo gravanti.

Avverso la decisione della Corte territoriale e per la cassazione della stessa ricorre la C. Edilizia S.r.l. con atto affidato a diciotto motivi e resistito con controricorso dal C.M..

Col controricorso viene eccepita l’inammissibilità del proposto ricorso sotto un duplice profilo: “violazione del dovere di sinteticità espositiva” e, quanto ai motivi dal settimo all’ultimo (pp. da 19 a 67 del ricorso stesso), perchè con gli stessi motivi -in uno ad all’allegazione di mere riproduzioni di atti- si tenta, in sostanza, di imporre inammissibilmente “una diversa valutazione ed interpretazione di atti che attengono squisitamente alla fase di merito”.

Nell’approssimarsi dell’udienza ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la C. Edilizia S.r.l..

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

1.- In via preliminare deve evidenziarsi che la sentenza oggi impugnata innanzi a questa Corte risulta – testualmente – data anche nei confronti di ” Ch.Sa. (contumace)”.

Il ricorso andava, quindi, regolarmente notificato anche a tale parte o, verosimilmente, agli eredi di Ch.Sa. inclusa la Ch.Al. indicata in rubrica nel ricorso stesso qui in esame.

Senonchè entrambe le suddette necessarie notifiche, allo stato degli atti ed a differenza di quella relativa alla sola parte intimata costituita, non risultano perfezionate.

La Corte, tuttavia, uniformandosi al noto principio che privilegia la celerità del processo e la sua ragionevole durata, ritiene di soprassedere ad ogni decisione interlocutoria in ordine alla regolarità dell’instaurazione ed alla integrità del contraddittorio del presente giudizio stante il tipo di decisione che andrà adottata.

2.- Il Collegio ritiene, poi, di non dover accogliere le sollevate eccezioni relative all’inammissibilità, nel suo complesso, del ricorso.

Condividendo, in punto, le conclusioni rassegnate in udienza dal P.G. va, infatti, rilevato che la violazione del principio di “sinteticità espositiva”, seppur sancito dal noto Protocollo di intesa.

Non può, tuttavia, condurre – in assenza a tutt’oggi di apposita opportuna disposizione legislativa primaria – alla declaratoria di inammissibilità.

Nè sussiste, a tal fine, altra ragione rinvenibile nella pur prospettata finalità, ascritta alla parte ricorrente, di voler imporre “una diversa valutazione ed interpretazione di atti che attengono squisitamente alla fase di merito”.

Infatti una pur ricorrente pretesa di diversa valutazione nel senso anzidetto comporta l’inammissibilità, in primis, del singolo o dei singoli motivi e non direttamente del ricorso nel suo complesso. Tanto, a maggior ragione, nell’ipotesi per cui è giudizio di certo non contrassegnata dalla assenza di prospettazioni (giuste o errate che siano), da parte della ricorrente, di “specifiche argomentazioni intese a dimostrare” il contrasto della decisione gravata “con norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 635/2015).

3.- Per ragione di opportunità e connessione i motivi del ricorso dal numero uno al numero sei possono essere trattati congiuntamente.

Essi, in estrema dovuta sintesi, vanno così riepilogati.

3.1.- Con il primo motivo del ricorso si censura il vizio di violazione di legge ovvero dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1.

3.2.- Il secondo motivo del ricorso, con cui viene dedotta la violazione di legge, è così rubricato: “violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

3.3.- Con il terzo motivo parte ricorrente lamenta la “violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

3.4.- Con il quarto motivo del ricorso si prospetta il vizio di “violazione dell’art. 949 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″.

3.5.- Con il quinto motivo del ricorso si censura il vizio di violazione degli artt. 948 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

3.6.- Con il sesto motivo del ricorso, proposto in subordine rispetto ai primi precedenti cinque, si deduce il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 2727 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Al di là di ogni aspetto relativo alla novità o meno – per come desumibile dalla sentenza impugnata – delle questioni oggi sollevate con i suddetti motivi innanzi a questa Corte dalla ricorrente (in assenza di completa specificazione di come e quando tali questioni siano state poste in precedenza), la Corte ritiene di dover affermare comunque l’infondatezza dei motivi stessi.

Con essi viene, nella sostanza, posta la complessiva questione della pretesa erroneità della gravata decisione della Corte territoriale quanto ad un presunto invertito onere probatorio ritenuto incombente alla parte attrice-appellante.

La doglianza, nelle sue particolari e ripetute enunciazione dei singoli riassunti motivi, è del tutto infondata.

In effetti è stato rispettato il principio dell’onere probatorio senza alcun delle violazione ipotizzate, in particolare con il terzo, quarto e sesto motivo.

I suddetti motivi, nel loro complesso non si confrontano, nè scalfiscono l’esatta (pur se sinteticamente esposta) ratio della decisione gravata.

Tale ratio è imperniata tutta sulla valutazione del rogito di acquisto del 29 maggio 1997 per notaio P..

Con tale atto già espressamente risultava “non alienata la piena proprietà del terreno, bensì solo “l’utile dominio su” tale appezzamento, con espressa indicazione dei livelli sul medesimo fondo gravanti”.

Al cospetto di tale lapalissiana risultanza dell’atto notarile di acquisto spettava alla società odierna ricorrente l’onere probatorio, non assolto, di dimostrare con adeguato eventuale altro titolo una estensione del diritto reale acquistato tale d escludere del tutto l’affermata esistenza degli indicati livelli. Tale esistenza, per di più, non può – al cospetto, si ripete, della palese risultanza dell’atto di acquisto del 1997 – ritenersi esclusa sulla base di una pretesa infondata ricostruzione soggettiva, operata dalla ricorrente, dell’inesistenza di un rapporto enfiteutico di cui proprio gli affermati e riconosciuti i canoni rappresentano indubbio elemento costitutivo ai sensi dell’art. 960 c.c…

In conclusione i motivi congiuntamente esaminati nel loro complesso sono del tutto infondati e vanno respinti.

4.- Per ragione di opportunità e connessione i motivi del ricorso dal numero sette al numero diciotto (tutti proposti in subordine rispetto ai primi cinque motivi ad eccezione del settimo, sedicesimo e diciassettesimo) possono essere trattati congiuntamente.

Essi, in estrema dovuta sintesi, vanno così riepilogati.

4.1.- Con il settimo motivo del ricorso si deduce l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

4.2.- L’ottavo motivo del ricorso è così rubricato: “violazione dell’art. 2729 c.c., comma 2, artt. 2721 e 2727 c.c. e dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

4.3.- Con il nono motivo si deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 2730,2733 e 2697 c.c. e art. 116 c.p.c.”.

4..4.- Il decimo motivo è così rubricato: “violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, artt. 2697 e 116 c.p.c.e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4”.

5.- Con l’undicesimo motivo si deduce il vizio di “violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1 e art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4”.

4.6.- Con il dodicesimo motivo si censura la “violazione dell’art. 2697 c.c. (nonchè) la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c.”.

4.7.- Il tredicesimo motivo è così rubricato: “violazione e falsa applicazione degli artt. 969 e 2697 c.c. e dell’art. 116 c.p.c.”.

4.8.- Con il quattordicesimo motivo si deduce il vizio di “violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2720 e 1988 c.c. e art. 116 c.p.c.”.

4.9.- Il quindicesimo motivo è così rubricato: ” violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2720 e 1988 c.c., artt. 112 e 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4).

4.10.- Il sedicesimo motivo del ricorso consta nella deduzione di un omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti” ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4.11.- Con diciassettesimo motivo si deduce la “violazione e falsa applicazione degli artt. 957 e 960 c.c. e la violazione delle disposizioni transitorie del c.c. del 1865 (e la) violazione della normativa disciplinante in epoca preunitaria la colonia perpetua”. 4.12.- Il diciottesimo motivo verte sulla denuncia del vizio di “violazione e falsa applicazione degli artt. 2700 e 2697 c.c.”. 4.13.- Tutti i motivi innanzi riportati in estrema dovuta sintesi sono, nel loro complesso, inammissibili.

Essi, in parte, non risultano riproporre questioni già affrontate e sollevate nei precedenti gradi del giudizio di merito, nè addotte come tali e con adeguata allegazione dalla parte ricorrente.

Al riguardo non può che richiamarsi il noto orientamento di questa Corte alla cui stregua ogni doglianza posta coi motivi di ricorso per cassazione costituisce questione nuova quando non risulta come già svolta nei pregressi gradi del giudizio e che comunque, come tale, va ritenuta in difetto di ogni altra dovuta opportuna allegazione.

Infatti “i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito nè rilevabili d’ufficio.” (Cass. civ., Sez. Prima, Sent. 30 marzo 2007, n. 7981 ed, ancora e più di recente, Sez. 6 – 1, Ordinanza, 9 luglio 2013, n. 17041).

Inoltre, in particolare e par quanto decisivamente rilevante, parte ricorrente solleva (specie col settimo motivo) la questione della valutazione e, quindi, degli effetti dell’atto originario per notaio S. del 1812 con il quale il terreno per cui oggi si controverte veniva già individuato come “di proprietà dei B. e (con altri appezzamenti) gravati da enfiteusi”.

Lo stesso terreno, come già innanzi evidenziato, veniva poi – col succitato atto pubblico del 20.3.1947 – ceduto da B.A.M. al dante causa dei convenuti Ch.Vi., ma come fondo ancora gravato da enfiteusi e non come “diretto dominio”.

Pertanto gli originari danti causa dell’odierna acquirente parte ricorrente erano, quindi, proprietari utilisti di terreno gravato da enfiteusi e relativo canone e come tale espressamente acquistato dall’odierna società ricorrente con l’atto intervenuto per notaio P. in data 29 maggio 1997.

Peraltro, ancora, sebbene il primo catasto terreni della zona interessata venne istituto nel 1835 ovvero ben ventitrè anni dopo il predetto atto per notaio S. è significativa la circostanza che, come pure nei successivi secoli fino ad oggi, il terreno per cui oggi si controverte risultava sempre indicato come gravato da enfiteusi.

Tanto doverosamente esposto deve, comunque, rilevarsi il carattere di assoluta inammissibilità delle censure in punto ripetutamente svolte dalla parte ricorrente giacchè le stesse presuppongono in ogni caso una non più possibile rivalutazione nel merito dell’interpretazione degli atti comunque considerati, sia pur con la sua stringata esposizione, dalla Corte territoriale.

In proposito non può che rinviarsi al noto e consolidato orientamento di questa Corte (da ultimo ribadito da Cass. 30 settembre 2014, n. 20589) per cui deve ritenersi impedito al Giudice di legittimità “il potere di riesaminare nel merito la vicenda processuale e di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie” e, quindi, dell’interpretazione di atti. Più specificamente, ancora, deve ritenersi l’inammissibilità delle doglianze svolte in subordine e relative al ripetuto richiamo, effettuato in ricorso, alla decisione di questa Corte n. 3361/1957. Esso non appare pertinente.

L’invocazione di un preteso generale principio per cui “la dichiarazione relativa all’esistenza di un canone in occasione di un trasferimento di un fondo…. non equivale affatto ad un atto di ricognizione di un rapporto di enfiteusi ex art. 969 c.c.” non si confronta con la decisiva ratio della sentenza impugnata che è imperniata tutta sulla valutazione del rogito di acquisto del 29 maggio 1997, col quale già risultava “non alienata la piena proprietà del terreno, bensì solo “l’utile dominio su” tale appezzamento, con espressa indicazione dei livelli sul medesimo fondo gravanti”.

Ed, anzi, col medesimo atto si prevedeva addirittura un impegno ad affrancare entro il maggio 1998 il terreno “limitatamente al livello ” B. Sa.”.

Al cospetto evidenza dell’atto di acquisto, congruamente oggetto corretta valutazione nel giudizio di merito, appaiono ulteriormente del tutto inammissibili le ripetute doglianze dei motivi qui congiuntamente esaminati, che finiscono tutte – così come in particolare quella di cui al sedicesimo motivo sui rogiti di computazione, per sostanziare questioni che -in uno col costituire sostanziali innovazioni rispetto al risultante svolto dibattito processuale- attengono tutte all’esame nel merito degli atti ed alla loro interpretazione, così da essere inammissibili.

5.- Alla stregua di tutto quanto innanzi esposto, affermato e ritenuto, il ricorso deve, dunque, essere rigettato.

6.- Le spese seguono la soccombenza e si determinano così come in dispositivo.

7.- Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

LA CORTE

rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del giudizio, determinate in Euro 2.500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2019

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