Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21154 del 13/10/2011

Cassazione civile sez. I, 13/10/2011, (ud. 06/06/2011, dep. 13/10/2011), n.21154

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Grazia – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – rel. Consigliere –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25594-2007 proposto da:

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

A.K. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA LUIGI LUCIANI 1, presso l’avvocato CARLEO ROBERTO, che lo

rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2583/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/06/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/06/2011 dal Consigliere Dott. SALVATORE DI PALMA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

1. – Con citazione del 25 marzo 2004, K.A., nato a (OMISSIS), convenne dinanzi al Tribunale di Roma il Ministro dell’interno, esponendo che: a) egli era figlio di C. V. – cittadina italiana, nata ad (OMISSIS) – e di A.B.A., cittadino (OMISSIS); b) i suoi genitori avevano contratto matrimonio il (OMISSIS), con la conseguenza che la madre aveva perduto la cittadinanza italiana, per avere acquistato quella egiziana jure matrimonii, ai sensi della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 10, comma 3, sulla cittadinanza italiana; c) egli poteva reclamare lo status di cittadino italiano, jure sanguinis, quale figlio di madre cittadina, in forza delle sentenze della Corte costituzionale n. 87 del 1975 – con la quale era stata dichiarata “l’illegittimità costituzionale della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 10, comma 3, (Disposizioni sulla cittadinanza italiana), nella parte in cui prevede la perdita della cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna” – e L. n. 30 del 1983, con la quale la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale: “a) della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 1, n. 1, nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina; b) dell’art. 2, comma 2, Legge predetta”, ed aveva dichiarato, “in applicazione della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27 l’illegittimità costituzionale della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 1, n. 2″.

Tanto esposto, l’ A. chiese che fosse accertato il proprio status di cittadino italiano jure sanguinis.

In contraddittorio con il Ministro dell’interno -il quale instò per la reiezione della domanda, il Tribunale di Roma, con la sentenza n. 24068/05 dell’11 novembre 2005, respinse la domanda, in quanto l’attore non aveva dato la prova, mediante le prescritte certificazioni anagrafiche, della propria data di nascita, del rapporto di filiazione e della pregressa cittadinanza italiana della madre.

2. – A seguito di appello dell’ A. con citazione del 3 ottobre 2006 – il quale insistette per l’accoglimento della domanda – ed in contumacia del Ministro dell’interno, la Corte d’Appello di Roma, con la sentenza n. 2583/07 del 6 giugno 2007, dichiarò che ” A. K., nato a (OMISSIS), da A.A. H. e C.W. (aut V.), è cittadino italiano con i diritti conseguenti alla cittadinanza italiana”.

Per quanto in questa sede rileva, la Corte:

A) ha “premesso che la decisione del Tribunale è stata adottata sulla base di un corredo documentale diverso e più ridotto rispetto a quello integrato solo nella presente sede d’appello con la produzione di nuovi documenti che il collegio ritiene di ammettere, siccome indispensabili ai fini della decisione, a norma dell’art. 34 5 c.p.c., comma 3, primo periodo”;

B) al riguardo, ha precisato che dinanzi al Tribunale l’attore – mentre non aveva prodotto il proprio certificato di nascita, con la specificazione del rapporto di filiazione con C.V. – aveva invece prodotto: il certificato di nascita della Corbò, con l’indicazione della paternità e della maternità della stessa; la dichiarazione resa dalla stessa C. in data 3 novembre 1975 dinanzi al Console generale d’Italia, ai sensi della L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 219 (Riforma del diritto di famiglia), “con attestazione da parte dello stesso pubblico ufficiale della veridicità dei fatti esposti dalla C., figlia di padre e madre italiani”; copia della raccomandata in data 2 novembre 2003 del Commissario aggiunto del Consolato d’Italia a Il Cairo, nella quale “si presuppone che l’ A. sia figlio di C.V.” e si afferma che la C. aveva perduto la cittadinanza italiana, a seguito del matrimonio contratto il (OMISSIS) con il cittadino (OMISSIS) A.A.H., ai sensi della L. n. 555 del 1912, art. 10, comma 3, senza che potesse essere invocata la dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale disposizione, pronunciata con la sentenza n. 87 del 1975, i cui effetti non potevano retroagire oltre la data del 1 gennaio 1948, di entrata in vigore della Costituzione italiana;

C) ha inoltre precisato che, nel giudizio d’appello, detta documentazione, tempestivamente prodotta nel giudizio di primo grado, “è stata integrata, in questa sede d’appello, con la produzione di copia autentica del certificato di nascita dell’appellante, dal quale egli risulta figlio di C.W. (figlia di M.) e del cittadino egiziano A.A.H.”;

D) sulla base di tale documentazione, ha affermato non esservi dubbio che: K.A. è figlio di C.V., figlia a sua volta di genitori cittadini italiani; la C. ha perduto la cittadinanza italiana per effetto del proprio matrimonio contratto il 1 dicembre 1946 con cittadino egiziano, ai sensi della L. n. 555 del 1912, art. 10, comma 3; la stessa C. ha tuttavia riacquistato la cittadinanza italiana per effetto della dichiarazione resa in data 3 novembre 1975, ai sensi della L. n. 151 del 1975, art. 219;

E) dopo aver richiamato il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 3331 del 2004 – secondo cui, in tema di cittadinanza, gli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 87 del 1975 non retroagiscono oltre la data del primo gennaio 1948, in tal senso dovendosi normalmente intendere il limite temporale di efficacia delle pronunce di incostituzionalità di leggi anteriori alla Costituzione, sicchè, ove un matrimonio sia stato contratto dalla donna cittadina italiana prima di tale data, è destinato a rimanere fermo l’effetto, fino ad allora legittimamente prodottosi, estintivo dello stato di cittadinanza, essendo questo frutto di una vicenda ormai esaurita, salva per la donna la possibilità, concessa dall’art. 219, comma 1, della legge di riforma del diritto di famiglia 19 maggio 1975, n. 151, di riacquistare la cittadinanza perduta mediante un’apposita dichiarazione, avente in tal caso effetti costitutivi, resa all’autorità competente, con la conseguenza che, in mancanza di tale dichiarazione, non può essere considerato cittadino italiano jure sanguinis (a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 1983, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma, della citata L. n. 555 del 1912, art. 1, comma 1, n. 1, che poneva la regola del – jus sanguinis a patre) il figlio (nato nella specie dopo il (OMISSIS)) di donna la quale, a seguito di matrimonio con uno straniero contratto prima dell’entrata in vigore della Costituzione, abbia perduto, sotto la previgente disciplina (poi dichiarata incostituzionale), l’originario status di cittadina italiana e acquisito quella del marito – ha affermato: “Ne consegue che, in presenza della dichiarazione di cui al citato art. 219, comma 1, può essere considerato cittadino italiano jure sanguinis (a seguito dell’ulteriore sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 1983 … ) il figlio (nato nella fattispecie dopo il 1 gennaio 1948) di donna la quale, a seguito di matrimonio con uno straniero contratto prima dell’entrata in vigore della Costituzione, abbia perduto, sotto la previgente disciplina (poi dichiarata incostituzionale), l’originario status di cittadina italiana e acquisito la cittadinanza del marito”.

3. – Avverso tale sentenza il Ministro dell’interno, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura.

Resiste, con controricorso illustrato da memoria, K.A..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo (con cui deduce: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 101 e c.p.c., art. 345 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”), il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata, sostenendo che la Corte ha fondato la propria decisione su un documento decisivo – la “copia autentica del certificato di nascita dell’appellante K.A., dal quale egli risulta figlio di C.W. (figlia di M.) e del cittadino egiziano A.A.H.” – irritualmente prodotto sia perchè, trattandosi di prova documentale precostituita, la produzione di tale documento non è stata specificamente indicata nell’atto d’appello, sia perchè lo stesso documento non è stato depositato contestualmente all’atto di appello, sia perchè la produzione del documento medesimo avrebbe dovuto essere notificata all’appellato Ministro dell’interno, con la conseguenza che la Corte romana, rilevata d’ufficio la decadenza dell’ A. dal diritto di produrre il documento, non avrebbe potuto tenerne conto ai fini della decisione.

1.1. – Il motivo è infondato.

La Corte romana – dopo aver premesso che “la decisione del Tribunale di reiezione della domanda è stata adottata sulla base di un corredo documentale diverso e più ridotto rispetto a quello integrato solo nella presente sede d’appello con la produzione di nuovi documenti che il collegio ritiene di ammettere, siccome indispensabili ai fini della decisione, a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 3, primo periodo” – ha precisato che, nel giudizio d’appello, detta documentazione, tempestivamente prodotta nel giudizio di primo grado, “è stata integrata, in questa sede d’appello, con la produzione di copia autentica del certificato di nascita dell’appellante, dal quale egli risulta figlio di C.W. (figlia di M.) e del cittadino egiziano A.A.H.”.

E’ noto che, secondo diritto vivente (cfr. la sentenza, pronunciata a sezioni unite, n. 8203 del 2005, nonchè, tra quelle successive conformi, le sentenze nn. 622 del 2006, 3644 del 2007, 21561 del 2010) – che il Collegio condivide -, nel rito ordinario, con riferimento alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c., comma 3 va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” – la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola e stabilendo, in via alternativa, i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame, requisiti consistenti nella dimostrazione che la parte non abbia potuto proporli prima per causa ad essa non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione; ciò, sempre che tali documenti siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo.

Nella specie, dall’esame diretto degli atti consentito a questa Corte in ragione della natura processuale del vizio denunciato – risulta, con riferimento ai tre profili di censura in cui si articola il motivo in esame, che l’atto di nascita di K.A. ritenuto decisivo dai Giudici a quibus e la cui produzione è stata, perciò, ammessa come “nuovo” documento ritenuto “indispensabile” ai fini dell’accoglimento della domanda: a) è stato prodotto – per la prima volta – unitamente all’atto di appello ritualmente notificato in data 3 ottobre 2006r come emerge dal suo materiale inserimento nel fascicolo di parte appellante insieme ad altri documenti, il cui “indice” reca in calce il timbro di deposito, in data 11 ottobre 2006, del cancelliere della Corte d’Appello di Roma, dallo stesso sottoscritto; h) non è stato “indicato” nell’atto di impugnazione;

c) non è stato notificato al Ministro dell’interno, rimasto contumace in grado di appello.

Ciò posto, quanto al primo profilo di censura – con il quale il ricorrente denuncia l’omessa produzione di detto documento unitamente all’atto di appello, esso è smentito dall’accertamento sub a), che attesta il rispetto, da parte dell’appellante, dell’onere richiesto dalla su richiamata pronuncia delle sezioni unite.

Quanto poi al profilo di censura, con il quale si denuncia l’omessa notificazione dello stesso documento al Ministro contumace ai sensi dell’art. 292 cod. proc. civ., è sufficiente ribadire il costante orientamento di questa Corte circa il carattere tassativo dell’elencazione degli atti, di cui all’art. 292 c.p.c., comma 1, , che debbono essere notificati o comunicati al contumace (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 21829 del 2010, 4440 del 2007, 7849 del 1986, con la quale è stato anche affermato il principio secondo cui nel processo d’appello secondo il rito del lavoro, nessuna notizia è dovuta alla parte contumace del provvedimento di acquisizione di nuovi documenti ritenuti dal giudice indispensabili ai fini della decisione).

Quanto, infine, al profilo di censura, con il quale il ricorrente denuncia l’omessa indicazione, nell’atto di appello – evidentemente ai sensi del combinato disposto dell’art. 342, comma 1, e art. 163 c.p.c., comma 3, n. 5, nonchè della richiamata pronuncia delle sezioni unite – del più volte menzionato atto di nascita, esso è inammissibile: infatti – posto che; anche il profilo di censura in esame, come del resto gli altri, è sostanzialmente volto a denunciare la pretesa violazione del diritto di difesa del ricorrente, in quanto l’omessa indicazione del nuovo documento nell’atto di appello avrebbe impedito l’instaurazione del contraddittorio su di esso – sarebbe stato preciso onere del ricorrente specificare in questa sede i termini esatti in cui l’esercizio del proprio diritto di difesa sarebbe stato impedito.

Vale, al riguardo, il costante orientamento di questa Corte, secondo il quale, in materia di impugnazioni civili, dai principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire si desume quello per cui la denunzia di vizi dell’attività del giudice, che comportino la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, non tutela l’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma garantisce soltanto l’eliminazione del pregiudizio del diritto di difesa concretamente subito dalla parte che denuncia il vizio, con la conseguenza che l’annullamento della sentenza impugnata si rende necessario solo allorchè nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente possa ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella cassata, con l’ulteriore conseguenza che, ove la parte proponga ricorso per cassazione deducendo la nullità della sentenza impugnata, essa ha l’onere di indicare in concreto il pregiudizio derivato da siffatta carenza di attività processuale (cfr., ex plurimis e tra le ultime, le sentenze nn. 4340 del 2010 e 3024 del 2011). Nella specie, tale orientamento vale tanto più, in quanto la Corte romana ha puntualmente osservato che un principio di prova del rapporto di filiazione K.A. – C.V. emergeva già da un documento ritualmente prodotto in prime cure (raccomandata 2 novembre 2003, n. 4030, del Commissario aggiunto del Consolato d’Italia a Il Cairo, ignorata del Tribunale), principio di prova che l’atto di nascita dell’ A. ha soltanto “integrato”.

2. – Con il secondo motivo (con cui deduce: “Violazione e falsa applicazione della L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 219 della L. 21 aprile 1983, n. 123, art. 5 e della L. 5 febbraio 1992, n. 91, art. 14 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”), il ricorrente critica la sentenza impugnata e – richiamato il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 3331 del 2004 – sostiene che: a) la dichiarazione prevista dalla L. n. 151 del 1975, art. 219 ha natura costitutiva del “riacquisto” della cittadinanza, con ovvia efficacia ex nunc, per le fattispecie estintive della cittadinanza in riferimento a vincoli coniugali contratti in epoca anteriore al 1 gennaio 1948, come nel caso di specie nel quale il matrimonio è stato celebrato in data (OMISSIS); b) inoltre, K.A., essendo nato in data (OMISSIS), non può acquistare la cittadinanza italiana neppure per effetto dell’abrogata L. 21 aprile 1983, n. 123, art. 5, comma 1, – secondo cui “E’ cittadino italiano il figlio minorenne, anche adottivo, di padre cittadino o di madre cittadina” -, in quanto egli, al momento dell’entrata in vigore di questa legge, era già maggiorenne.

2.1. – Anche tale motivo è infondato e, pertanto, deve essere respinto, previa correzione – tuttavia -, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 5, della motivazione in diritto, essendo il dispositivo conforme al diritto.

La fattispecie sottostante alla questione in esame può essere ricostruita nei termini che seguono: a) C.V. – cittadina italiana jure sanguinis a patre, ai sensi della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 1, comma 1, n. 1, (Disposizioni sulla cittadinanza italiana), dichiarato poi costituzionalmente illegittimo con la sentenza n. 30 del 1983 – contrasse matrimonio, in data (OMISSIS), con il cittadino (OMISSIS) A.H.A. e, per effetto di tale matrimonio, perdette la cittadinanza italiana, ai sensi della stessa L. n. 555 del 1912, art. 10, comma 3, primo periodo, dichiarato poi costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 29 Cost., con la sentenza n. 87 del 1975 con la quale è stata dichiarata appunto “l’illegittimità costituzionale della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 10, comma terzo, …, nella parte in cui prevede la perdita della cittadinanza italiana indipendentemente dalla volontà della donna”; b) dal matrimonio nacque K.A. – odierno controricorrente – in data (OMISSIS); c) con dichiarazione resa dalla C. in data 3 novembre 1975 dinanzi al Console generale d’Italia a Il Cairo, ai sensi e per gli effetti della L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 219, comma 1, (Riforma del diritto di famiglia), la stessa C. “riacquistò” la cittadinanza italiana; d) la Corte costituzionale, con la menzionata sentenza n. 30 del 1983, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale: “a) della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 1, n. 1, nella parte in cui non prevede che sia cittadino per nascita anche il figlio di madre cittadina; b) dell’art. 2, comma 2, della Legge predetta”, ed ha dichiarato, “in applicazione della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27 l’illegittimità costituzionale della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 1, n. 2”.

La specifica questione posta dal motivo in esame, in riferimento a tale fattispecie, consiste nello stabilire se K.A.: a) possa reclamare lo status di cittadino italiano per nascita, jure sanguinis a matre, per l’efficacia retroattiva dispiegata dalle più volte richiamate sentenze della Corte costituzionale n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983; b) oppure – come sostiene il ricorrente – non possa reclamare tale status, sia perchè la perdita della cittadinanza italiana da parte della madre del controricorrente, determinata dal matrimonio contratto con cittadino egiziano ai sensi della predetta norma dichiarata incostituzionale è avvenuta in una data (1 dicembre 1946) anteriore all’entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948), oltre la quale la dichiarazione di illegittimità costituzionale non esplica efficacia retroattiva, sia perchè detta perdita della cittadinanza integra comunque una situazione giuridica cosiddetta “esaurita” e, quindi, insensibile agli effetti retroattivi della pronuncia di incostituzionalità, sia perchè la dichiarazione della C., di cui alla cit. L. n. 151 del 1975, art. 219, comma 1, in data 3 novembre 1975, avendo efficacia costitutiva ex nunc, ha determinato il “riacquisto” della cittadinanza italiana da parte della stessa a decorrere da tale data, con la conseguenza che, al momento della nascita del controricorrente, in data (OMISSIS), la cittadinanza italiana non ancora “riacquistata” dalla madre non ha potuto trasmettersi al figlio.

I Giudici a quibus – i quali, nell’accogliere la domanda di K. A., hanno esplicitamente affermato di fondarsi sul principio di diritto enunciato dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 3331 del 2004 – hanno, in realtà, erroneamente applicato tale principio, in quanto, valorizzando la dichiarazione resa dalla madre dell’ A., ai sensi della L. n. 151 del 1975, art. 219, comma 1, in data 3 novembre 1975, hanno però omesso di considerare che, secondo lo stesso principio, tale dichiarazione ha natura costitutiva e, quindi, efficacia ex nunc, con conseguente sua irretroattività alla data anteriore ((OMISSIS)) della nascita del figlio.

Tuttavia, successivamente al ricorso in esame, le stesse sezioni unite di questa Corte, con la recente sentenza n. 4466 del 2009 hanno affermato il diverso principio – costantemente seguito dalle successive pronunce della prima sezione civile nn. 17548 e 18089 del 2009 e 3175 del 2010 e che il Collegio condivide -, secondo il quale, per effetto delle sentenze della Corte costituzionale n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983, la cittadinanza italiana deve essere riconosciuta in sede giudiziaria alla donna che l’abbia perduta ai sensi della L. 13 giugno 1912, n. 555, art. 10, comma 3, – per aver contratto matrimonio con cittadino straniero in data anteriore al 1 gennaio 1948 -, indipendentemente dalla dichiarazione resa ai sensi della L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 219, comma 1, in quanto la illegittimità della perdita della cittadinanza, determinata dalla norma poi dichiarata incostituzionale, non si esaurisce con la privazione non volontaria di tale status, dovuta al sorgere del vincolo coniugale con cittadino straniero, ma continua a produrre effetti anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione (1 gennaio 1948) in violazione dei principi fondamentali della parità tra i sessi e dell’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, affermati dagli artt. 3 e 29 Cost., con la conseguenza che la limitazione temporale dell’efficacia retroattiva della dichiarazione d’incostituzionalità al 1 gennaio del 1948 non impedisce al soggetto, il quale ne sia stato illegittimamente privato, il riconoscimento dello status di cittadino, che ha natura permanente ed imprescrittibile ed è giustiziabile in ogni tempo, salva la sua estinzione per effetto di rinuncia, con le ulteriori conseguenze che, in applicazione di tali principi, acquista la cittadinanza italiana, per nascita da madre cittadina (jure sanguinis a matre), anche il figlio della donna che si trovi nella situazione su descritta – dal 1 gennaio 1948, se nato prima di tale data e nel vigore della L. n. 555 del 1912, ovvero dalla data della nascita, se successiva a quella di entrata in vigore della Costituzione -, e che tale diritto si trasmette ai suoi figli, determinando il rapporto di filiazione, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la trasmissione dello status di cittadino italiano che sarebbe spettato di diritto in assenza della legge discriminatoria.

In definitiva, le sezioni unite di questa Corte, pur ribadendo che l’efficacia retroattiva delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale di norme anteriori all’entrata in vigore della Costituzione non può dispiegarsi oltre il 1 gennaio 1948, hanno però affermato che, in ragione dell’illegittima privazione dello status di cittadino italiano – illegittima, perchè fondata su norma incostituzionale – la “naturale” efficacia retroattiva delle sentenze di incostituzionalità n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983 non incontra il generale limite della “situazione esaurita”, per la decisiva ragione che esse incidono sulla disciplina legislativa (quella appunto dettata dalla previgente L. n. 555 del 1912, in partibus quibus) dello status civitatis che, per sua natura giuridica, è sempre “giustiziatale” e quindi, in tal senso, “inesauribile”, almeno fintantochè su di esso non sia intervenuto un accertamento contenuto in una sentenza passata in giudicato, certamente ostativo alla efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale.

3. – La circostanza che la presente decisione è stata assunta sulla base di una pronuncia delle sezioni unite successiva al ricorso ed inoltre modificativa di precedenti orientamenti giurisprudenziali delle stesse sezioni unite costituisce giusto motivo per dichiarare compensate per intero tra le parti le spese del presente grado del giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Prima Sezione Civile, il 6 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2011

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