Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2114 del 29/01/2018


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Civile Sent. Sez. 2 Num. 2114 Anno 2018
Presidente: MAZZACANE VINCENZO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA

impugnazione
delibera
assembleare

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 14215/’13) proposto da:
SAVO SILVIA (C.F.: SVA SLV 82C52 L049U), MOLA ANTONIO (C.F.: MLO NTN
47H12 F0270) E CAFORIO PASQUALINA (C.F.: CFR PQL 49P58 G252M), tutti
rappresentati e difesi, in forza di procura speciale a margine del ricorso,
dall’Avv. Bernardino Pasanisi e domiciliati ex lege presso la Cancelleria della
Corte di cassazione, in Roma, p.zza Cavour; – ricorrenti

contro
CHIEF/A LORENZO (C.F.: CHF LNZ 39R24 F027L), SURLI MARIA FONTE (C.F.:
SRLMFN 46L62 F027W), SICILIANO PRUDENZA (C.F.: SCL PDN 46A54 F027E),
ABATANGELO ROSARIA (C.F.: BTN RSR 31S52 F027K), ALBANESE ANTONIO
(C.F.: LBN NTN 67C15 F027B), ALBANESE CONCETTA (C.F.: LBN CCT 68D66
F027X) e ALBANESE GIUSEPPE (C.F.: LBN GPP 70009 F027N), tutti
rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale in calce al controricorso,
unitamente e disgiuntamente, dagli Avv.ti Mila Milazzo e Giuseppe De Giorgio
ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Arcangelo Bruno, in
Roma, v. Gregorio VI, n. 154; – controricorrenti
e

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Data pubblicazione: 29/01/2018

LA COMUNIONE DEI COMPROPRIETARI DELL’IMMOBILE SITO IN AGRO DI
MASSAFRA, Loc. “Contrada Fumarola”, in persona dell’amministratore p.t.
Albanese Giuseppe; – intimata Avverso la sentenza della Corte di appello di Lecce – Sez. dist. di Taranto n.
690/2012, depositata il 14 dicembre 2012;
Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 5 dicembre

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale
Alberto Celeste, che ha concluso, in via principale, per l’inammissibilità del
ricorso e, in linea subordinata, per il suo rigetto;
udito l’Avv. Bernardino Pasanisi per i ricorrenti.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza depositata il 17 ottobre 2010 il Tribunale di Taranto rigettava la
domanda proposta dai sigg. Mola Antonio e Caforio Pasqualina nei confronti
della sig.ra Savo Silvia e della Comunione dei comproprietari di un immobile
sito in Massafra (contrada “Fumarola”) nonché la domanda formulata in via
autonoma dalla predetta Savo Silvia (quale acquirente dagli indicati sigg. Mola
Antonio e Caforio Pasqualina della quota di 1/8 della menzionata Comunione),
poi riunite, entrambe dirette all’ottenimento dell’annullamento delle delibere
adottate il 28 febbraio 2007 in sede assembleare dalla maggioranza dei
comproprietari, sul presupposto dell’omessa tempestiva produzione in giudizio
delle delibere stesse ritenuta insanabile per effetto della sopravvenuta
ingiustificata decadenza.
Contro tale decisione formulavano – con un unico atto – appello Savo Silvia,
Mola Antonio e Caforio Pasqualina e la Corte di appello di Lecce – sez.
distaccata di Taranto, nella costituzione delle parti appellate, con sentenza n.
690 del 2012 (depositata il 14 dicembre 2012), respingeva l’avanzato
gravame, regolando le spese del grado in virtù del principio della soccombenza.
A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte tarantina, dopo aver – in via
preliminare – ravvisato la fondatezza della prima censura prospettata dagli
appellanti in ordine all’erroneità della decisione del primo giudice circa il
contenuto del fascicolo delle stesse parti attrici e la mancata tempestiva
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2017 dal Consigliere relatore Aldo Carrato;

produzione delle delibere impugnate, nell’esaminare il merito della doglianza
ritenuto precluso dal giudice di prime cure, valutava il relativo motivo come
infondato in considerazione della circostanza che le prescrizioni contenute nel
regolamento della comunione – tese a consentire un equo e migliore godimento
dei beni in comune – non violavano i due limiti fondamentali consistenti nel
divieto di alterare la destinazione della cosa comune (migliorandone, anzi, il

degli spazi comuni) e non impedivano ai partecipanti tutti di farne un uso
promiscuo, in conformità di quanto sancito dall’art. 1102 c.c., senza, perciò,
arrecare pregiudizio ai comunisti. Il giudice di appello riteneva, inoltre,
infondate anche le censure relative all’incarico tecnico di fattibilità edilizia e alla
regolazione delle spese del giudizio di primo grado.
Avverso la suddetta sentenza (non notificata) hanno proposto ricorso per
cassazione i sigg. Savo Silvia, Mola Antonio e Caforio Pasqualina, articolato in
otto motivi, al quale hanno resistito con controricorso gli intimati Chiefa
Lorenzo, Surli Maria Fonte, Siciliano Prudenza, Abatangelo Rosaria, Albanese
Antonio, Albanese Concetta e Albanese Giuseppe, mentre le altre parti in
questa fase evocate non hanno svolto attività difensiva.
I difensori di entrambe le parti costituite hanno anche depositato memoria
illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto – in relazione all’art. 360,
comma 1, n. 3, c.p.c. – la supposta violazione dell’art. 1102 c.c. con
riferimento al capo dell’impugnata sentenza con cui era stata ritenuta legittima
la delibera di approvazione della clausola del regolamento atta a vietare
l’utilizzo dell’area da parte dei singoli comunisti. In particolar modo la difesa
dei ricorrenti ha inteso censurare la pronuncia del giudice di appello nella parte
in cui ha rilevato che la clausola del regolamento della comunione del suolo
agricolo incolto e di un’area adibita a parcheggio e deposito, volta a precludere
ai singoli comunisti di poter utilizzare, anche solo temporaneamente, le
suddette aree depositandovi beni mobili, fosse legittima in quanto diretta a
consentire un equo e migliore godimento dei beni in comune.
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godimento ) favorendo il transito dei veicoli e non l’occupazione permanente

1.1. Rileva il collegio che occorre farsi carico, in via pregiudiziale, dell’eccezione
di inammissibilità formulata nell’interesse dei controricorrenti in ordine al
prospettato difetto di autosufficienza del motivo avuto riguardo al non
esaustivo richiamo delle clausole regolamentari assunte come violate e alla
proposta sollecitazione di riesame nel merito delle valutazioni compiute dalla
Corte territoriale.

complessivo del ricorso (ancorché nella premessa in fatto riguardante lo
svolgimento del processo nei gradi di merito) è desumibile il richiamo testuale
delle clausole del regolamento correlate al contenuto delle delibere impugnate
e, per altro verso, la doglianza pone una precisa questione di diritto intorno
alla correttezza o meno dell’applicazione (e della correlata interpretazione)
dell’art. 1102 c.c. e non tende a voler indurre questa Corte ad operare una
rivalutazione delle circostanze fattuali già sufficientemente accertate dal
giudice di appello.
Ciò posto, il motivo implicante la deduzione dell’assunta violazione dell’art.
1102 c.c. – in relazione al capo della sentenza di appello con la quale è stato
ritenuto legittimo il regolamento di utilizzo della cosa comune – è, tuttavia, da
dichiararsi infondato.
In primo luogo, deve rilevarsi che la domanda originaria formulata dai
ricorrenti riguardava le delibere assembleari e non direttamente il regolamento
(quale atto presupposto in conseguenza del quale erano state adottate le
controverse delibere) che risultava regolarmente approvato ed efficace.
Ad ogni modo, la Corte tarantina ha correttamente accertato – con motivazione
logica ed adeguata, oltre che congruamente rispondente ai principi giuridici
disciplinanti la materia – che il regolamento in questione era stato
legittimamente approvato per “consentire un equo e migliore godimento dei
beni in comune”, senza, perciò, che ne potesse conseguire la violazione dei due
limiti propriamente previsti dal richiamato art. 1102 c.c., non incorrendo,
invero, le relative clausole regolamentari nel divieto di alterazione della
destinazione della cosa comune e non impedendo ai partecipanti alla comunione
di farne uso promiscuo.
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L’eccezione non coglie nel segno perché, per un verso, dal contenuto

A tal proposito, la giurisprudenza di questa Corte (v., ad es., Cass. n.
27233/2013) ha chiarito che il citato art 1102 c.c., nel prescrivere che ciascun
partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione
e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso, non pone una
norma inderogabile, con la conseguenza che i suddetti limiti possono essere resi
più rigorosi dal regolamento condominiale, o da delibere assembleari adottate

l’introduzione di un divieto di utilizzazione generalizzato delle parti comuni.
Comunque, ai sensi dell’art. 1102 c.c., in generale, la facoltà del singolo
comproprietario di servirsi della cosa comune è subordinata alla duplice
condizione che non venga alterata la destinazione della cosa e non sia impedito
agli altri comproprietari di fare uso di essa secondo i loro diritti.
Orbene, nella fattispecie, il giudice di appello ha – in conformità ai riportati
principi accertato che la contestata clausola regolamentare (con la quale era
stato stabilito che le parti in comune non potessero essere normalmente
occupate od ingombrate dai singoli proprietari con opere di carattere
provvisorio e che gli accessi e cortili avrebbero dovuto essere riservati al
passaggio dei comproprietari, con la precisazione che il transito dei veicoli
doveva ritenersi consentito per il solo tempo strettamente necessario al carico e
scarico di persone e bagagli, con la conseguenza che – in caso di inosservanza
della stessa complessiva disposizione – si sarebbe provveduto alla rimozione
degli impedimenti, anche in via coatta, a spese del contravventore) era
addirittura migliorativa del godimento da parte dei comunisti favorendo il libero
transito dei veicoli.
2. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno prospettato – sempre in ordine al
citato art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. – la violazione dello stesso art. 1102 c.c.
con riferimento alla delibera di rimozione dei beni di proprietà di Vincenzo
Savo, detenuti da Silvia Savo, che era comproprietaria dell’area ricadente in
comunione per 1/8 e a cui era stato inibito di utilizzarla per mantenervi alcuni
mobili del genitore che altrimenti non avrebbe saputo dove depositarli.
2.1. Anche questa doglianza è priva di fondamento e deve, perciò, essere
respinta.
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con i “quorum” prescritti dalla legge, fermo restando che non è consentita

E’ agevole, infatti, affermare che la delibera impugnata, nell’imporre la

rimozione dei beni illegittimamente depositati per conto di Savo Vincenzo da
parte della comproprietaria Savo Silvia, era da ritenersi – in relazione
all’evocato art. 1102 c.c. – valida e legittimamente adottata, avendo, con essa,
la comunione inteso attuare proprio il suddetto regolamento, favorendo
l’eliminazione degli impedimenti permanenti (nella specie, peraltro, riferibili a

comproprietari comunisti.
3. Con la terza doglianza i ricorrenti hanno denunciato – con riguardo all’art.
360, comma 1, n. 5, c.p.c. – l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio
che era stato oggetto di discussione tra le parti in relazione alla mancata
valutazione

circa

l’accoglimento

delle

richieste

istruttorie

avanzate

nell’interesse di Savo Silvia riguardanti la prova volta a sostenere l’opzione
interpretativa secondo cui la delibera di rimozione dei beni mobili dal suolo
comune si poneva in aperta violazione dei principi sulla comunione dal
momento che gli atti di possesso della predetta non impedivano il pari utilizzo
del bene da parte dei restanti comproprietari.
3.1. Pure questa censura è destituita di fondamento e va, quindi, rigettata.
Osserva, al riguardo, il collegio che l’esame delle circostanze dedotte non
atteneva ad un fatto decisivo della controversia, vertendo la delibera impugnata
sull’occupazione della proprietà comune con beni rientranti nella titolarità di
Savo Vincenzo e non di Savo Silvia, ragion per cui deve ritenersi che la prova
orale dedotta sia stata implicitamente rigettata con la sentenza impugnata
perché correlata a fatti irrilevanti o, comunque, già ritenuti dalla Corte di merito
sufficientemente emergenti “ex actis” alla stregua dell’adeguata motivazione
svolta sulle circostanze fattuali accertate ed effettivamente rilevanti per la
conferente risoluzione della controversia in punto di diritto.
4. Con la quarta censura i ricorrenti hanno censurato l’impugnata sentenza
deducendo – in rapporto all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – il vizio di nullità
del procedimento in relazione all’art. 112 e 132 c.p.c. e all’art. 118 disp. att.
c.p.c., assumendo che la Corte di secondo grado non aveva assolutamente
motivato in ordine alla legittimità della delibera di rimozione dei beni di Savo
6

beni mobili di proprietà di un terzo) al pari uso del bene comune da parte dei

Vincenzo (dante causa di Savo Silvia), non adottando, peraltro, alcuna
statuizione sulla questione relativa all’assunto eccesso di potere della
maggioranza come causa dì illiceità e nullità della delibera di rimozione dei beni
abbandonati dal predetto Savo Vincenzo sulla proprietà appartenente alla
comunione.
4.1. Questa doglianza è da considerarsi inammissibile sia perché – per quanto

della sentenza circa la ravvisata legittimità della delibera impugnata sia perché
– con specifico riguardo alla dedotta invalidità della delibera stessa per il
supposto abuso della regola della maggioranza – nel ricorso manca, in
relazione al necessario rispetto del requisito di cui all’art. 366, comma 1, n. 6),
c.p.c., ogni conferente riferimento agli atti processuali dai quali poter evincere
l’effettiva proposizione di siffatta domanda o questione e il preciso contenuto di
essa, sulla quale il giudice di merito avrebbe avuto l’obbligo di pronunciarsi in
relazione all’art. 112 c.p.c. (v. Cass. n. 978/2007 e Cass. Sez. U. n.
11730/2010).
5. Con il quinto motivo i ricorrenti hanno contestato la sentenza d’appello
prospettando un ulteriore vizio – rilevante ai sensi dell’art. 360, comma 1, n.
5, c.p.c. – di omesso esame circa il fatto decisivo di cui alla precedente censura
concernente la dedotta doglianza relativa all’abuso della volontà della
maggioranza in danno della Savo Silvia.
5.1. Anche questa censura incorre nella sanzione dell’inammissibilità poiché alla stregua della nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.
(applicabile – ai sensi dell’art. 54, comma 3, del d.l. n. 82/2012, conv., con
modif., dalla legge n. 134/2012 – alle sentenze pronunciate dopo 1’11 settembre
2012 e, quindi, anche nel caso di specie in cui la sentenza impugnata risulta
depositata il 14 dicembre 2012) – la Corte di appello, nella sentenza oggetto del
ricorso, non ha omesso di valutare le circostanze decisive della controversia
avuto riguardo alla conformità delle delibere impugnate rispetto al regolamento
vigente in seno alla comunione, dal che non sarebbe potuta derivare alcuna
forma di abuso in danno della Savo Silvia, ribadendosi, peraltro, che i ricorrenti

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già evidenziato – non sussiste alcun vizio di omessa o apparente motivazione

non hanno nemmeno adeguatamente riscontrato di aver effettivamente
introdotto siffatta questione nell’ambito del thema decidendum.
Vale la pena, anzi, di rimarcare come la giurisprudenza di questa Corte (v., per
tutte, Cass. n. 3640/2004) abbia – contrariamente a quanto prospettato dalla
difesa dei ricorrenti – già condivisibilmente statuito che, in tema di condominio
negli edifici, l’uso della cosa comune da parte di ciascun condomino è soggetto,

impedire agli altri partecipanti di fare parimenti uso della cosa stessa secondo il
loro diritto, onde deve ritenersi che la condotta del condomino, consistente
nella stabile occupazione di una porzione dell’area comune, configuri un abuso,
poiché impedisce agli altri condomini di partecipare all’utilizzo dello spazio
comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento ed alterando l’equilibrio
tra le concorrenti ed analoghe facoltà.
6. Con il sesto motivo le parti ricorrenti hanno lamentato la supposta violazione
dell’art. 1102 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) con riguardo al capo della
sentenza con cui era stata respinta la domanda di nullità della delibera che
aveva impegnato la spesa per l’incarico ad un tecnico di redazione di un
progetto di fattibilità edilizia.
6.1. La censura è manifestamente infondata poiché la Corte di merito ha, del
tutto legittimamente, ritenuto la validità della delibera, riconoscendo che il
conferimento dell’incarico tecnico di verifica della fattibilità edilizia aveva la
sola finalità esplorativa di constatare le potenzialità economiche del fondo
dedotto in controversia, senza, perciò, che lo stesso avesse potuto comportare
alcuna modificazione della cosa comune od arrecare pregiudizio a qualcuno dei
comproprietari.
7. Con il settimo motivo i ricorrenti hanno censurato la sentenza di appello
sostenendo – in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. – la sussistenza
del vizio di nullità del procedimento in ordine agli artt. 112 e 132 c.p.c., oltre
che all’art. 118 disp. att. c.p.c., con riferimento alla doglianza sollevata in
appello sulla regolazione delle spese del giudizio di primo grado, avuto
riguardo alla dedotta duplicità della condanna alle spese stesse in favore delle
parti vittoriose distintamente costituite (la Comunione, da un lato, e alcuni
8

ai sensi dell’art. 1102 c.c., al duplice divieto di alterarne la destinazione e di

singoli comproprietari dall’altro), malgrado le medesime avessero impostato la
loro linea difensiva su uguali argomentazioni giuridiche.
8. Con l’ottava ed ultima censura i ricorrenti hanno dedotto anche il vizio di cui
all’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. in relazione alla stessa doglianza da ultimo
riportata (sub 7).
8.1. Anche queste due finali censure – da esaminare congiuntamente siccome

ritenuto (in tal senso provvedendo specificamente) giustificata la (suddivisa)
condanna alle spese sia all’esito del giudizio di primo grado poiché gli attuali
ricorrenti, impugnando con due distinte domande (poi riunite) la stessa
delibera assembleare, erano risultati soccombenti nei confronti delle parti
convenute costituite partitamente e in modo autonomo (la Comunione, da un
lato, e un gruppo di altri resistenti, quali singoli comunisti in proprio, dall’altro,
in tal senso configurandosi come due centri di imputazione di distinti – anche
se convergenti nella soluzione prospettata – interessi giuridici), che a
conclusione del grado di appello in virtù dello stesso principio di cui all’art. 91
c.p.c., essendo stato il gravame proposto dalla Savo Silvia, da Mola Antonio e
Caforio Pasqualina integralmente rigettato. A quest’ultimo proposito il giudice
di secondo grado ha correttamente applicato il suddetto principio generale
poiché, pur modificando la ragione della decisione rispetto a quella adottata dal
giudice di prime cure (comunque di rigetto), è pervenuta, in ogni caso, all’esito
della valutazione, in termini oggettivi, dell’infondatezza nel merito delle comuni
domande proposte dai ricorrenti quali appellanti.
9. In definitiva, sulla scorta delle argomentazioni complessivamente esposte, il
ricorso deve essere integralmente rigettato, con la conseguente condanna dei
soccombenti ricorrenti al pagamento, con vincolo solidale, delle spese del
presente giudizio, liquidate nella misura di cui in dispositivo in favore delle
costituite parti controricorrenti.
Ricorrono, infine, le condizioni per dare atto della sussistenza dei presupposti
per il versamento, da parte dei ricorrenti, in via solidale, del raddoppio del
contributo unificato ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio
2002, n. 115.
9

all’evidenza connesse – sono prive di fondamento, avendo la Corte di appello

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, con vincolo
solidale, delle spese del presente giudizio in favore dei costituiti
controricorrenti, liquidate in complessivi euro 4.200,00, di cui euro 200,00 per
esborsi, oltre accessori come per legge.
Ai sensi dell’articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, si dà atto

solidale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis del citato art. 13.

Così deciso nella camera di consiglio della 2″ Sezione civile in data 5 dicembre
2017.
Il Consigliere estensore

Il Presidente
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Giudizifule
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DEPOSITATO IN CANCELLERIA
Roma,

29 GEN,2018

della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti in via

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