Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21133 del 07/08/2019

Cassazione civile sez. I, 07/08/2019, (ud. 21/06/2019, dep. 07/08/2019), n.21133

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25096/2018 proposto da:

S.B., domiciliato in Roma, presso (Ndr: testo originale non

comprensibile) la cancelleria della Corte di cassazione,

rappresentato e difeso dall’avvocato Cerulli Berardo giusta procura

in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

Avverso sentenza della CORTE D’APPELLO DELL’AQUILA, depositata il

10/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/06/2019 dal cons. Dott. MAURO DI MARZIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – S.B., cittadino gambiano, ricorre per tre mezzi, nei confronti del Ministero dell’interno, contro la sentenza del 10 marzo 2018 con cui la Corte d’appello dell’Aquila ha respinto il suo appello avverso la decisione del locale Tribunale che aveva disatteso l’opposizione al diniego, da parte della competente Commissione territoriale, della sua domanda di protezione internazionale o umanitaria.

2. – L’amministrazione non spiega difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il ricorso contiene tre motivi.

Il primo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione della legge e in articolare dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 – Violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2 3 7 e art. 8, lett. B) – Vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”. Secondo il ricorrente: “La Sentenza impugnata ha erroneamente escluso l’applicabilità delle disposizioni normative avanti citate, sulla scorta di una superficiale ed erronea valutazione della situazione denunciata dal ricorrente, non tenendo conto delle persecuzioni di matrice religiosa subite dal medesimo che l’hanno costretto ad allontanarsi, per motivi di incolumità, dal Gambia. La Corte di Appello di L’Aquila ha errato non applicando, nella disamina della domanda di protezione internazionale proposta dal richiedente asilo, i criteri tassativamente imposti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Nella pronuncia impugnata, inoltre, pur avendo riferito il richiedente asilo eventi efferati che avevano determinato la morte del padre e del fratello nonchè il ferimento dell’istante, a seguito degli scontri tra la comunità islamica di appartenenza del deducente e fondamentalisti cristiani, la Corte territoriale ha esercitato in maniera criticabile quei poteri-doveri officiosi di indagine e di acquisizione documentale che la normativa le demanda, non riconoscendo, in maniera censurabile, che S.B. abbia subito atti persecutori che per gravità, natura e frequenza rappresentano una violazione dei diritti umani fondamentali”.

Il secondo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione della legge: D.Lgs. n. 251 del 2007: art. 3, commi 1 2 3 4 e 5. Violazione o falsa applicazione della legge: D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3; Violazione e falsa applicazione della legge; D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 Vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”. Si sostiene: “La Sentenza gravata ha erroneamente escluso l’applicabilità delle disposizioni normative avanti menzionate, disattendendo non solo la rappresentazione degli accadimenti resa da S.B. in maniera lineare e coerente, ma in special modo trascurando la situazione destabilizzante di violenza pervasiva e di confliggenza tra opposte fazioni, che sconvolgeva il Gambia al momento dell’emanazione della pronuncia in parola. La decisione impugnata va altresì censurata per non aver tenuto conto, nella valutazione della domanda, dei criteri tassativamente imposti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Uno scrutinio, invero, da espletare alla luce delle informazioni aggiornate sulla nazione in discorso, avrebbe attestato la condizione destabilizzante nel predetto Stato, dove è in atto un conflitto armato tra gruppi antagonisti che rappresenta una minaccia e un danno grave per i civili tanto da integrare l’ipotesi normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14”.

Il terzo motivo denuncia: “Violazione e falsa applicazione della legge: D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19. Vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.”. Si sostiene: “La sentenza impugnata non ha riscontrato erroneamente, nel caso di specie, la sussistenza di elementi idonei atti a giustificare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, malgrado la situazione di estrema vulnerabilità che inferisce il richiedente asilo, come dalla difesa del medesimo ampiamente comprovato in relazione non solo alla situazione di oggettiva instabilità politica e sociale esistente in Gambia, ma anche in considerazione che il medesimo, ormai lontano da anni dalla sua nazione, incontrerebbe non solo le difficoltà tipiche di un nuovo radicamento territoriale ma si troverebbe nella condizione di essere esposti a gravi rischi per la sua incolumità”.

2. – Il ricorso è inammissibile.

2.1. – L’inammissibilità discende anzitutto dalla complessiva fattura del ricorso ed in particolare dalla violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

Stabilisce tale disposizione che il ricorso per cassazione deve contenere a pena di inammissibilità la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda. Questa Corte ha in più occasioni avuto modo di chiarire che la norma, oltre a richiedere l’indicazione degli atti e dei documenti, nonchè dei contratti o accordi collettivi, posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale tali fatti o documenti risultino prodotti, prescrizione, questa, che va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. Il precetto di cui al combinato disposto delle richiamate norme deve allora ritenersi soddisfatto:

a) qualora l’atto o il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purchè nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile;

b) qualora il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l’indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di controparte, pur se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per il caso in cui la controparte non partecipi al giudizio di legittimità o non depositi il fascicolo o lo depositi senza quell’atto o documento (Cass., Sez. Un., 25 marzo 2010, n. 7161; Cass. 20 novembre 2017, n. 27475; Cass. 11 gennaio, n. 195, chiarisce altresì che, ove si tratti di atti e documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, il requisito di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 è soddisfatto mediante il deposito della richiesta di trasmissione presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, ferma, beninteso, l’esigenza di specifica indicazione degli atti e documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi).

In tale prospettiva va altresì ribadito che l’adempimento dell’obbligo di specifica indicazione degli atti e dei documenti posti a fondamento del ricorso di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, previsto a pena d’inammissibilità, impone quanto meno che gli stessi risultino da un’elencazione contenuta nell’atto, non essendo a tal fine sufficiente la presenza di un indice nel fascicolo di parte (Cass. 6 ottobre 2017, n. 23452).

In breve, il ricorrente per cassazione, nel fondare uno o più motivi di ricorso su determinati atti o documenti, deve porre la Corte di cassazione in condizione di individuare ciascun atto o documento, senza effettuare soverchie ricerche.

Nel caso in esame i motivi trovano fondamento anzitutto sulla narrazione compiuta dal richiedente in sede di audizione dinanzi alla Commissione territoriale, ma il relativo verbale non risulta localizzato.

2.2. – Tutti e tre i motivi sono poi inammissibili, laddove denunciano il vizio di violazione di legge, giacchè non sono riconducibili alla censura di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Vale difatti osservare che il vizio di violazione di legge (quanto alla violazione di legge in senso proprio) ricorre in ipotesi di erronea negazione o affermazione dell’esistenza o inesistenza di una norma, nonchè di attribuzione ad essa di un significato non appropriato, ovvero (quanto alla falsa applicazione), alternativamente, nella sussunzione della fattispecie concreta entro una norma non pertinente, perchè, rettamente individuata ed interpretata, si riferisce ad altro, od altresì nella deduzione dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, di conseguenze giuridiche che contraddicano la sua pur corretta interpretazione (Cass. 26 settembre 2005, n. 18782).

Nel caso in esame nessuno dei motivi pone in discussione il significato e la portata applicativa delle norme di volta in volta richiamate in rubrica, ma, come meglio si vedrà di seguito, ciascuno di essi è volto a denunciare l’asseritamente erronea ricognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n. 8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass., Sez. Un., 5 maggio 2006, n. 10313).

Per il resto, è agevole evidenziare che il ricorso contiene la non pertinente, alla stregua dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., denuncia di “vizio di motivazione”, per di più “in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, il che, a dimostrazione che non di un mero refuso si tratta, è ripetuto alle pagine 2, 3, 13, 15 e 18 del ricorso: ed è dunque necessario ricordare che il vizio di motivazione non è disciplinato dall’art. 360 c.p.c., n. 3 il quale si riferisce invece alla “violazione o falsa applicazione di norme di diritto”, e non è più disciplinato neppure dal numero 5 della stessa disposizione, che ormai da anni contempla l'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, fatto non esaminato – da intendersi come è noto come fatto storico principale o secondario: Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053 – di cui in ricorso non vi è alcuna traccia, avendo piuttosto esso ad oggetto critiche, per altro particolarmente generiche, del governo del materiale probatorio da parte del giudice di merito.

2.3. – In ogni caso, ciascun motivo è inammissibile.

2.3.1. – E’ paradigmaticamente inammissibile il primo motivo.

2.3.1.1. – Esso si disinteressa della principale ratio decidendi posta dal giudice di merito a fondamento della decisione.

Difatti la Corte d’appello si è ampiamente soffermata, alle pagine 2-4, sulla credibilità del richiedente, che con ampia motivazione è stata esclusa in applicazione dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 sia per aspetti di incompletezza e di incoerenza interna, sia per l’incoerenza della narrazione – consistente in breve in ciò, che componenti della sua famiglia, musulmani, sarebbero stati uccisi da cristiani, ed egli stesso ferito – rispetto alla situazione generale del Gambia, paese caratterizzato da una nettissima prevalenza di musulmani, circa il 90%, rispetto ai cristiani, meno del 9%, comunque da una consuetudine di buoni rapporti tra gli esponenti delle due religioni.

A fronte di ciò, il ricorrente assume anzitutto che la Corte d’appello avrebbe “riconosciuto la sussistenza di uno scontro tra la comunità cristiana e quella islamica che ha determinato la morte del padre e del germano del richiedente”: riconoscimento che nella sentenza non c’è affatto, giacchè, dopo essere stata affermata l’inattendibilità – non credibilità del richiedente, vi viene aggiunto che, ove pure la sua narrazione fosse stata “ritenuta del tutto credibile, la vicenda narrata dall’appellante non consentirebbe comunque di pervenire” all’accoglimento della domanda, non potendosi ravvisare nel paese di provenienza del S.B. un pericolo di persecuzione per motivi religiosi, e comunque non in danno della comunità musulmana.

Dopodichè il ricorso sostiene essere “plausibili le dichiarazioni rese alla Commissione dall’esponente”, ma dimentica di spiegare il perchè, limitandosi a contrapporre la propria apodittica affermazione di credibilità del proprio racconto, alla stregua dei criteri normativi applicabili, alla motivata affermazione, di segno opposto, contenuta in sentenza.

Sicchè, in definitiva, quanto al primo motivo, la sentenza impugnata non può che rimanere ferma in dipendenza della ratio decidendi non censurata.

2.3.1.1. – Pur tralasciando l’omessa censura della menzionata ratio decidendi, il motivo è evidentemente formulato in violazione delle strette regole che disciplinano il ricorso per cassazione, quale mezzo di impugnazione a critica limitata che non attinge mai e in nessun caso il merito della controversia, ma ha ad oggetto il provvedimento impugnato.

Va allora ripetuto che il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico formale, nei limiti in cui detto sindacato è tuttora consentito dal vigente art. 360 c.p.c., n. 5 delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cass. 4 agosto 2017, n. 19547; Cass. 4 novembre 2013 n. 24679; Cass. 16 novembre 2011, n. 27197; Cass. 6 aprile 2011, n. 7921; Cass. 21 settembre 2006, n. 20455; Cass. 4 aprile 2006, n. 7846; Cass. 9 settembre 2004, n. 18134; Cass. 7 febbraio 2004, n. 2357). Nè il giudice del merito, che attinga il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, è tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (ad es.: Cass. 7 gennaio 2009, n. 42; Cass. 17 luglio 2001, n. 9662). Oltretutto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base (ex plurimis: Cass. 24 ottobre 2013, n. 24092; Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 21 aprile 2006, n. 9368).

Nel caso in esame, ciò che si imputa alla Corte d’appello è una “superficiale e censurabile valutazione della situazione denunciata dal ricorrente” (così a pagina 14 del ricorso): e cioè si critica apertamente la valutazione di merito compiuta dal giudice, il che, come si sa, non è consentito al ricorrente per cassazione.

2.3. – Il secondo motivo è inammissibile.

Vi si dice che la Corte d’appello non avrebbe “svolto un ruolo attivo nell’istruzione della domanda”: il che, se fosse vero, integrerebbe un’affermazione errata in iure, dal momento che il dovere di cooperazione istruttoria non sorge nell’ipotesi in cui il richiedente non sia soggettivamente credibile (Cass. 31 maggio 2018, n. 14006; Cass. 31 maggio 2018, n. 13858).

Ma l’affermazione è errata in facto: ed infatti la sentenza impugnata ha richiamato specifica documentazione posta a sostegno dell’affermazione secondo cui sussiste in Gambia una consuetudine di buoni rapporti tra il mondo musulmano e quello cristiano, sicchè le principali festività cristiane, come la Pasqua e il Venerdì Santo vengono celebrate allo stesso modo di quelle islamiche, neppure rilevando un intervallo temporale di aggravamento della situazione, peraltro, non dei musulmani ma dei cristiani, trattandosi di situazione successivamente superata: citando le fonti la Corte d’appello ha ricordato che “il nuovo presidente del Gambia ha dichiarato che durante il suo mandato la promozione e la protezione dei diritti umani saranno al centro della sua politica e delle riforme… Si tratta di una conquista storica per i Gambiani… Per contrassegnare le sue azioni verso una nuova era rispettosa dei diritti umani, il governo ha ordinato il rilascio di tutte le persone detenute senza processo”. In tale contesto, ha concluso il giudice di merito, “la vicenda personale dell’appellante è ancora meno indicativa di una sua esposizione, in caso di ritorno in patria, ad un effettivo rischio non solo di poter esercitare i propri diritti fondamentali…, ma anche di subire arresti illegali e/o di essere sottoposto a forme di pena o trattamento inumano o degradante o altre forme di compromissione della sua incolumità”.

Nuovamente, il ricorso di tale motivazione si disinteressa.

2.4. – Il terzo motivo è inammissibile.

E’ cosa nota che la valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrario, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (Cass. 3 aprile 2019, n. 9304).

Ora, la Corte d’appello, ha per l’appunto evidenziato, in conformità al principio così riassunto, che il richiedente non aveva allegato specifiche condizioni individuali di vulnerabilità, quanto la situazione complessiva del proprio Paese di origine, e che “anche l’asserita, ma indimostrata, integrazione dell’appellante in Italia è di per sè insufficiente a consentire l’accesso dello stesso alla protezione umanitaria”.

Dinanzi a tale argomento, il motivo è nuovamente versato integralmente in fatto, giacchè volto a denunciare “un vizio palese di motivazione” (così a pagina 19 della sentenza).

3. – Nulla per le spese. Non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dichiara che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 21 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2019

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