Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21132 del 02/10/2020

Cassazione civile sez. II, 02/10/2020, (ud. 27/01/2020, dep. 02/10/2020), n.21132

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25839/2016 proposto da:

B.P.G., rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE

PIERFRANCESCO MUSSUMECI;

– ricorrente –

contro

BANCO POPOLARE SOCIETA’ COOPERATIVA, ORA BANCO BPM SPA, in persona

del Procuratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

TOMMASO SALVINI 55, presso lo studio dell’avvocato CARLO D’ERRICO,

che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati GIUSEPPE

MERCANTI, MATTEO SIMEONE DEBONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1291/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/04/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/01/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DE MARZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MISTRI Corrado, che ha concluso per l’inammissibilità, in

subordine, il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Carlo D’Errico, difensore del resistente, che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 4 aprile 2016 la Corte d’appello di Milano, in riforma della decisione di primo grado, ha confermato il decreto con il quale il Tribunale di Lodi aveva ingiunto a B.P.G. il pagamento, in favore della Banca Popolare di Lodi s.p.a. (d’ora innanzi, BPL), della somma di 361.192,22 Euro, richieste dalla seconda attraverso l’esercizio dell’azione di regresso prevista dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 195, comma 9 (d’ora innanzi, t.u.f.), nei confronti del primo, sindaco effettivo della banca, dopo avere provveduto al pagamento delle sanzioni che le erano state irrogate quale responsabile solidale.

2. Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale ha osservato: a) che non era condivisibile il rilievo del giudice di primo grado, a proposito della tardività della produzione dell’atto di conferimento dell’azienda dal 26 giugno 2007 dalla Banca Popolare di Lodi soc. coop. (d’ora innanzi, BPI) alla BPL; b) che, nella fase successiva all’opposizione a decreto ingiuntivo, ben può il creditore opposto integrare la documentazione prodotta con il ricorso; c) che, peraltro, l’atto di conferimento era già stato prodotto nella fase monitoria, mentre, con la comparsa di costituzione nel giudizio di opposizione, era stato prodotto solo l’allegato M; d) che la ratio della speciale disciplina dettata dall’art. 195, comma 9, t.u.f. – derogatoria delle previsioni dell’art. 1299 c.c. e art. 1203 c.c., comma 1, n. 3 – è quella, da un lato, di assicurare il pagamento della sanzione da parte di un soggetto finanziariamente solido e, dall’altro, di porre in via definitiva la stessa a carico dell’autore materiale della violazione; e) che la non applicabilità delle citate disposizioni codicistiche esclude che il diritto di credito oggetto dell’obbligatoria azione di regresso possa essere considerato strettamente personale e, quindi, incedibile, ai sensi dell’art. 1260 c.c.; f) che, d’altra parte, il credito era stato ceduto nel quadro di un generale trasferimento di una parte unitaria del complesso aziendale; g) che, oltre alla disciplina dettata dall’art. 2559 c.c., occorreva considerare il menzionato allegato M (“ulteriori contenziosi pendenti”) all’atto di trasferimento del ramo d’azienda, che espressamente includeva i procedimenti derivanti dalla Delib. Consob n. 15677 e dai procedimenti sanzionatori n. (OMISSIS) e (OMISSIS); h) che il giudizio introdotto dall’azione di regresso di cui all’art. 195, comma 9, t.u.f. non può essere esteso sino a ricomprendere l’accertamento dei presupposti di applicazione della sanzione, che invece dovevano essere ed erano stati posti in discussione nel giudizio di opposizione proposto dinanzi alla Corte d’appello dal B.; i) che siffatto procedimento si era concluso con il rigetto dell’opposizione; l) che le censure concernenti l’estensione del diritto di regresso non potevano essere accolte, in quanto la presunzione di cui all’art. 1298 c.c., comma 2, è inapplicabile, dal momento che l’azione di cui all’art. 195, comma 9, t.u.f. non si ricollega propriamente ad una responsabilità diretta della banca, che, al contrario, è il soggetto danneggiato dalle altrui violazioni; m) che l’asserito riconoscimento dell’inesistenza del debito da parte della banca, ove pure documentato, era irrilevante, attesa l’obbligatorietà del regresso; n) che assertiva era la doglianza concernente la duplicazione di vantaggi che la banca avrebbe conseguito, alla luce delle domande proposte nei confronti dell’ex-amministratore delegato, Dott. F.; o) che, in ogni caso, eventuali pagamenti di terzi avrebbero assunto rilievo in sede esecutiva; p) che la domanda di condanna della banca al risarcimento, ai sensi dell’art. 2049 c.c., dei danni sofferti dal B., a causa del comportamento assunto dal F., era inammissibile, in quanto non basata sul titolo sul titolo introdotto in causa, ma sui comportamenti tenuti da un soggetto rimasto del tutto estraneo al procedimento, e, comunque, infondata, dal momento che proprio la banca doveva essere considerata la vera danneggiata dal mancato assolvimento dei doveri imposti dalla legge al sindaco.

3. Avverso tale sentenza il B. ha proposto ricorso per cassazione affidato a otto motivi, ai quali ha resistito con controricorso il Banco Popolare società cooperativa, che aveva incorporato BPL prima della pubblicazione della sentenza di primo grado e nei confronti della quale è stata emessa la sentenza impugnata. La controricorrente ha depositato documentazione attestante la sua fusione con la Banca Popolare di Milano soc. coop. a r.l., mediante la costituzione della Banco BPM società per azioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, un vizio argomentativo, per avere la Corte d’appello minimizzato il rilievo della tardività della produzione dell’atto di conferimento, che dimostrava la consapevolezza, da parte della banca delle carenze e dei vizi dell’atto, che non identifica i debiti per le sanzioni, come pure i crediti verso gli esponenti aziendali.

La doglianza è inammissibile, dal momento che è completamente estranea al perimetro applicativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b) conv. con L. 7 agosto 2012, n. 134.

Essa, peraltro, neppure denuncia una violazione di legge, per effetto della ritenuta tempestività della produzione degli atti ai quali BPL aveva affidato la dimostrazione di essere subentrata a BPI nel credito esercitato, ma si limita, in termini di assoluta genericità, a criticare l’idoneità di tale documentazione a fornire la prova che la Corte distrettuale ha, invece, ritenuto sussistente.

2. Con il secondo motivo si lamenta “vizio di motivazione dell’impugnata sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento agli artt. 1260,1299 e 1203 c.c.”, rilevando che il carattere imperativo dell’art. 195, comma 9, t.u.f. e le finalità pubblicistiche perseguite confermano il carattere personale del credito e la sua conseguente incedibilità, in coerenza con la disciplina dettata dall’art. 1203 c.c..

La doglianza, esaminata prescindendo dall’inesatto richiamo al vizio motivazionale, è infondata e richiede una puntualizzazione di carattere generale, utile ad orientare anche l’analisi delle censure successivamente sviluppate.

Innanzi tutto, occorre osservare che l’art. 195, comma 9, t.u. disponeva: Le società e gli enti ai quali appartengono gli autori delle violazioni rispondono, in solido con questi, del pagamento della sanzione e delle spese di pubblicità previste dal secondo periodo del comma 3 e sono tenuti ad esercitare il diritto di regresso verso i responsabili.

Il D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, art. 4, comma 15, lett. i), ha abrogato il comma 9 suindicato.

Il medesimo D.Lgs. n. 72 del 2015, successivo art. 6, comma 8, dispone: Le modifiche al D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 195, commi 4, 5, 6, 7, 7-bis, e 8 e 9, si applicano ai giudizi proposti a decorrere dall’entrata in vigore del presente D.Lgs..

L’art. 6, citato comma 8, non è peraltro stato travolto dalla dichiarazione di illegittimità di cui alla sentenza n. 63 del 21 marzo 2019 della Corte costituzionale, che concerne le modifiche normative in tema di entità delle sanzioni e sulla quale si avrà modo di tornare nel prosieguo.

Ciò posto, quanto alla ricostruzione dell’azione di regresso, Cass., Sez. Un., 30 settembre 2009, n. 20929, dopo avere ricordato che l’azione di regresso ha carattere obbligatorio, ha aggiunto, occupandosi della legittimazione dell’autore della condotta ad opporsi all’irrogazione della sanzione, che “il giudizio di regresso, dal suo canto, nel caso in esame, non può estendersi ad accertare ex novo i presupposti di applicazione della sanzione al fatto illecito, non risultando oggi seriamente sostenibile, anche alla luce dei nuovi principi costituzionali sul giusto processo, che il responsabile, convenuto in rivalsa obbligatoria, possa porre nuovamente e interamente in discussione (sia pur con riferimento alla, propria posizione processuale) gli accertamenti del primo procedimento”.

Nella medesima sentenza si legge ancora che la persona giuridica “nei rapporti interni, è obbligata per legge a non lasciare a carico del proprio patrimonio la sanzione pecuniaria ed a chiedere il rimborso al suo dipendente (od organo) che il decreto sanzionatorio abbia ormai individuato come responsabile di una condotta applicando una conseguente sanzione; in capo alla persona giuridica nasce, dunque, un’obbligazione accessoria ex lege, che presuppone quella principale ma che, all’esito dell’accertamento, deve gravare per intero sul singolo responsabile”.

All’esito di una articolata disamina che è qui sufficiente richiamare, le Sezioni Unite hanno concluso nel senso che “nell’ambito del meccanismo comune delle obbligazioni solidali di cui agli artt. 1292 c.c. e segg., l’orientamento tuttora prevalente è nel senso che il condebitore, convenuto con l’azione di regresso, potrà opporre le sue eccezioni personali, mentre la sentenza pronunciata fra creditore e condebitore non ha effetto per gli altri condebitori, salvo che siano essi stessi a volerla opporre al creditore e purchè non sia fondata su eccezioni personali al condebitore escusso (art. 1306 c.c.). E’ convincimento di queste sezioni unite che tale meccanismo non appaia legittimamente esportabile alla fattispecie D.Lgs. n.. 58 del 1998, ex art. 195. Ritiene la Corte che, comminata la sanzione ai soggetti ritenuti autori delle violazioni, e però ingiunto il pagamento soltanto alla persona giuridica solidalmente responsabile con essi, allorchè questa, esaurite le proprie difese nel corso del procedimento amministrativo e poi del giudizio di opposizione, abbia pagato la sanzione (ovvero abbia deciso addirittura di pagare senza opporsi), all’autore materiale del fatto non resterà che pagare in rimborso l’intero (salve limitate eccezioni personali che abbia da opporre alla società, ad esempio di compensazione), senza che egli possa più far valere alcun argomento circa l’illegittimità della sanzione nel corso del giudizio che lo veda convenuto dall’ente con l’azione di regresso”.

Da quanto sopra detto, discende che tutto il sistema dell’azione di regresso mira, come osservato dalla sentenza impugnata, a far ricadere obbligatoriamente sull’autore il peso della sanzione, nonostante la scelta di responsabilizzare l’ente e individuare, nell’interesse pubblico all’esazione della sanzione stessa, un soggetto maggiormente solvibile.

In ciò esaurendosi le esigenze pubblicistiche della disciplina (ed escluso che venga in rilievo una ipotesi di surrogazione), non s’intende su quale fondamento riposerebbe il carattere personale ed incedibile del credito che viene solo assertivamente ribadito da parte ricorrente.

3. Con il terzo motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2259 c.c. (recte: art. 2559) e art. 2560 c.c., in relazione all’art. 2555 c.c., agli artt. 12 e 14, preleggi, all’art. 1372 c.c., nonchè dell’art. 195 t.u.f.; infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5, carenza di motivazione, rilevando: a) che l’art. 2559 c.c., ha riguardo ai debiti e ai crediti inerenti l’azienda ceduta iscritti nella situazione patrimoniale di riferimento delle attività operative bancarie trasferite; b) che la Corte territoriale aveva incluso i crediti per l’azione di regresso e i debiti per le sanzioni Consob degli esponenti aziendali tra i rapporti giuridici oggetto di conferimento, mentre la Banca d’Italia, nelle sue istruzioni, ne richiede una specifica indicazione; c) che, alla luce di tali indicazioni e della giurisprudenza di questa Corte, la cessionaria BPL non avrebbe potuto rispondere di un debito sorto in capo alla cedente prima del conferimento e da questa non iscritto nei libri contabili obbligatori (la quota di sanzioni pari ad 167.256,22 Euro, corrisposta da BPI il 13 luglio 2007) nè della quota di sanzioni (193.936,00 Euro) corrisposta dalla cedente prima del conferimento del ramo d’azienda e non compresa nelle scritture contabili; d) che nell’allegato M si fa riferimento ai rapporti contenziosi, attivi e passivi, ivi inclusi quelli derivanti dai procedimenti sanzionatori con le Autorità di Vigilanza, talchè, “se si vuole intendere correttamente quanto pattuito”, la conferente aveva trattenuto per sè l’esercizio del diritto di regresso, trasferendo alla conferitaria la mera gestione del rapporto contenzioso; e) che inconferente è il D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 58, che, derogando all’art. 2560 c.c., prevede il trasferimento dei debiti della banca cedente inclusi nella cessione, ossia rientranti nelle poste contabili debitorie specificamente indicate nella situazione patrimoniale del conferimento.

La doglianza è inammissibile.

Chiarito, nell’esame del secondo motivo, che il credito derivante dal pagamento della sanzione è cedibile, è evidente che l’esame della censura deve confrontarsi con le considerazioni dedicate dal ricorrente alla mancata inclusione dello stesso nelle situazioni oggetto del conferimento di ramo d’azienda.

Ora, la Corte territoriale, all’esito di una puntuale valutazione dell’atto di conferimento e, in particolare, del suo allegato M, ha ritenuto di fornire risposta positiva al quesito.

I rinvii del ricorrente alle Istruzioni della Banca d’Italia sono privi di pertinenza, una volta che il giudice di merito abbia accertato l’inclusione del credito del quale si discute nella cessione.

In siffatta cornice di riferimento, si osserva, in primo luogo, che la distinzione tra una parte della sanzione pagata da BPI e altra parte pagata da BPL è del tutto assertiva, nel senso che non è correlata all’indicazione di atti dai quali emerga che la questione fattuale è stata sottoposta all’esame del giudice di merito.

In secondo luogo, come denunciano le stesse espressioni adoperate dal ricorrente (“se si vuole intendere correttamente quanto pattuito”), la critica aspira ad una rivalutazione del significato attribuito dalla Corte territoriale all’accordo tra BPI e BPL.

E, tuttavia, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (v., ad es., 15 novembre 2017, n. 27136).

Nel ricorso, al contrario, non si coglie alcuno di tali approfondimenti.

4. Con il quarto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del principio del ne bis in idem convenzionale (art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), alla luce delle due sentenze di patteggiamento del Tribunale di Milano e di Lodi che avevano riguardato il ricorrente.

Il motivo, oltre a presentare aspetti di inammissibilità, nella parte in cui presuppone, per la sua delibazione, l’esame di profili fattuali che non risultano essere stati discussi dinanzi ai giudici di merito, è infondato, per le ragioni sviluppate supra sub 2, con riferimento all’ambito oggettivo del presente giudizio.

5. Con il quinto motivo si lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contraddittoria motivazione, per avere la Corte territoriale sottolineato che le uniche doglianze proponibili, nel giudizio introdotto dall’azione di regresso, sono quelle collegate alla insussistenza della pretesa della banca, ossia la non riferibilità della sanzione al B. e il mancato pagamento della sanzione.

Obietta il ricorrente che egli non aveva mai posto in discussione tali profili, ma solo contestato la legittimazione di BPL.

La doglianza è inammissibile, laddove denuncia una contraddittorietà motivazionale che è del tutto insussistente, giacchè la puntualizzazione della Corte territoriale non aspirava a confrontarsi con doglianze mai prospettate dal B., ma solo a chiarire l’oggetto del giudizio introdotto dall’azione di cui all’art. 195, comma 9, t.u.f..

6. Con il sesto motivo si lamenta “violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso per il giudizio”, rilevando, in relazione alla censura di duplicazione delle pretese rispetto a quanto richiesto al F., che le deduzioni del B. non erano, come ritenuto dalla sentenza impugnata, meramente assertive, in quanto erano stati sia Banco Popolare soc. coop. (sia BPL a riconoscere che la pressochè totalità degli illeciti compiuti “veniva nascosta ed occultata dal F. e dai suoi complici con false contabilizzazioni e con gestioni extra-contabili ed extra-bilancio, così impedendo agli amministratori e sindaci non collusi di accorgersi degli illeciti posti in essere dall’onnipotente loro amministratore delegato”. La doglianza è inammissibile per la sua assertività e assenza di specificità, giacchè dà per presupposto quanto si sarebbe dovuto contestare, alla stregua delle superiori considerazioni, nella sede propria, ossia la non attribuibilità dell’illecito al B..

7. Con il settimo motivo si lamenta “vizio di motivazione per violazione e falsa applicazione di norme di diritto di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, rilevando che la domanda proposta ai sensi dell’art. 2049 c.c., era legittima in quanto trovava il suo fondamento negli elementi documentali acquisiti. Si valorizza, in particolare, il fatto che era stato lo stesso creditore che aveva ottenuto il provvedimento monitorio a riconoscere che la responsabilità era di un terzo.

La doglianza è inammissibile.

Senza indugiare ancora una volta sulla peculiarità della rubrica, che sembra far discendere da una violazione di legge un vizio argomentativo, si osserva che la critica alla decisione della Corte territoriale, quanto all’inammissibilità della domanda riconvenzionale per mancata correlazione, ai sensi dell’art. 36 c.p.c., con il titolo introdotto nella causa, si sviluppa non su considerazioni in rito, ma sull’asserito riconoscimento, da parte della banca, che la responsabilità sarebbe di un terzo.

E, tuttavia, a tacer del fatto che il brano riportato nel motivo precedente – al quale, in difetto di altre specificazioni, deve farsi riferimento – non dimostra affatto, per come riprodotto, una responsabilità esclusiva del F., perchè menziona anche altri soggetti collusi, appare assorbente il rilievo che si tratta comunque di un profilo inconferente sia rispetto alla questione della inammissibilità della domanda sia rispetto all’altra, autonoma ratio decidendi – non oggetto di alcuna specifica critica -, rappresentata dall’essere la banca piuttosto soggetto danneggiato dalla condotta del F..

8. Con l’ottavo motivo si lamenta violazione di legge, per avere la Corte territoriale fatto applicazione della normativa sopravvenuta alla instaurazione del giudizio di opposizione, con riguardo ai presupposti della compensazione delle spese e alla disciplina applicabile per la liquidazione dei compensi. Si aggiunge che la controparte aveva depositato la nota spese solo con la memoria di replica, quando già il fascicolo di parte era stato depositato con la comparsa conclusionale. Le doglianze sono, nel loro complesso, infondate.

Con riguardo alla nota spese, si osserva che il deposito va curato al momento del passaggio in decisione della causa (art. 75 disp. att. c.p.c.), e quindi non si registra alcuna tardività ove l’adempimento avvenga contestualmente al deposito della memoria di replica.

D’altra parte, il giudice dovrebbe liquidare le spese anche d’ufficio. Non perspicue sono le critiche che investono il mutamento di disciplina in relazione ai presupposti per la compensazione, tenuto conto che quest’ultima, diversamente da quanto asserito dal ricorrente, non è affatto vietata dal testo attuale dell’art. 92 c.p.c., comma 2.

In ogni caso il ricorso non contiene critiche aventi direttamente ad oggetto la mancata compensazione.

Quanto, infine, al tema dei parametri utilizzati dalla Corte territoriale, va ribadito che, in tema di spese processuali, i parametri introdotti dal D.M. n. 55 del 2014, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti, trovano applicazione ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto, ancorchè la prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta nella vigenza della pregressa regolamentazione, purchè a tale data la prestazione professionale non sia stata ancora completata. Ne consegue che, qualora il giudizio di primo grado si sia concluso con sentenza prima della entrata in vigore del detto D.M., non operano i nuovi parametri di liquidazione, dovendo le prestazioni professionali ritenersi esaurite con la sentenza, sia pure limitatamente a quel grado; nondimeno, in caso di riforma della decisione, il giudice dell’impugnazione, investito ai sensi dell’art. 336 c.p.c., anche della liquidazione delle spese del grado precedente, deve applicare la disciplina vigente al momento della sentenza d’appello, atteso che l’accezione omnicomprensiva di “compenso” evoca la nozione di un corrispettivo unitario per l’opera prestata nella sua interezza (Cass. 10 dicembre 2018, n. 31884).

9. In conseguenza, il ricorso va rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, alla luce del valore e della natura della causa nonchè delle questioni trattate.

PQM

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2020

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