Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21126 del 07/08/2019

Cassazione civile sez. I, 07/08/2019, (ud. 07/06/2019, dep. 07/08/2019), n.21126

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 24663/18 proposto da:

-) R.M., elettivamente domiciliato in Roma, via delle Fornaci 38,

presso l’avvocato Decebi Stefano e Francesco Rossi, che lo

rappresenta e difende in virtù di procura speciale apposta in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

-) Ministero dell’Interno, elettivamente domiciliato in Roma, via dei

Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente avverso la sentenza della Corte d’appello di

Ancona 13 giugno 2018 n. 894;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7

giugno 2019 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. R.M., cittadino bengalese, chiese alla competente commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, di cui al D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 4:

(a) in via principale, il riconoscimento della “protezione sussidiaria” di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14;

(b) in subordine, la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, (nel testo applicabile ratione temporis).

A fondamento dell’istanza dedusse che nel suo Paese la comunità di appartenenza ((OMISSIS)) era discriminata; di essere stato per questa ragione accoltellato, e di avere ricevuto minacce sul luogo di lavoro; che per tali ragioni aveva deciso di lasciare il Paese.

2. La Commissione Territoriale rigettò l’istanza; avverso tale provvedimento l’odierno ricorrente propose opposizione dinanzi al Tribunale di Ancona, che la accolse con ordinanza 15.6.2016 accordando al ricorrente lo status di rifugiato.

3. La Corte d’appello di Ancona con sentenza 13.6.2018 n. 894 accolse

il gravame del Ministero e rigettò tutte le domande attoree.

La Corte d’appello ritenne che:

a) il racconto dell’istante fosse contraddittorio, generico e non circostanziato;

b) in ogni caso non era dimostrata la sussistenza di nessuno dei v requisiti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 ed in particolare d’una situazione di violenza indiscriminata in Bangladesh;

c) la protezione umanitaria non poteva essere concessa perchè non risultava che il ricorrente, in caso di ritorno in patria, sarebbe stato al rischio di violazione dei diritti umani di particolare gravità.

4. La sentenza è stata impugnata per cassazione dal soccombente con ricorso fondato su tre motivi.

Il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo il ricorrente sostiene che la Corte d’appello, nel reputarlo inattendibile, avrebbe violato il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Sviluppa un articolato ragionamento così riassumibile:

-) l’attendibilità del richiedente la protezione non può essere decisa in base ad elementi non solo intrinseci (il dato testuale delle dichiarazioni), ma anche estrinseci, quali la sua etnia e la zona di provenienza;

-) nel caso di specie, il richiedente era di etnia (OMISSIS) e proveniva da (OMISSIS), città nella quale l’etnia (OMISSIS) è vittima di segregazione e discriminazione, come attestato da numerose organizzazioni internazionali e inchieste giornalistiche;

-) pertanto, una volta accertata l’etnia e la provenienza del richiedente asilo, la Corte d’appello non avrebbe dovuto limitarsi a riscontrare incongruenze lievi e formali nel suo racconto, ma avrebbe dovuto indagare se davvero i (OMISSIS), a (OMISSIS), siano vittime di discriminazione.

1.2. Il motivo è inammissibile.

Stabilire se una persona sia attendibile od inattendibile è un apprezzamento di fatto, non una valutazione in diritto: ed in quanto tale sfugge al sindacato di questa Corte.

Nè a tale secolare principio deroga la legislazione speciale in materia di protezione internazionale.

Infatti il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, consente al giudice della protezione internazionale di ritenere veri anche fatti non provati, in deroga al generale principio di cui all’art. 2697 c.c., quando ritenga che il richiedente abbia compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; non abbia potuto fornire ulteriori prove senza colpa; abbia reso dichiarazioni plausibili, non contraddittorie e non contraddette ab externo; ha presentato la domanda di protezione il prima possibile; si presenti come attendibile.

Tale norma contiene un periodo ipotetico la cui protasi (“se l’autorità competente ritiene che”) rende palese che il legislatore, con essa, non ha affatto stabilito cosa il giudicante debba decidere (nè, del resto, avrebbe potuto farlo, alla luce dell’art. 101 Cost., comma 2), ma ha stabilito invece come debba essere adottata la decisione di cui si discorre: cioè con quale iter logico e sulla base di quali accertamenti.

Ne consegue che il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, non potrà dirsi violato sol perchè il giudice di merito abbia ritenuto inattendibile un racconto od inveritiero un fatto; quella norma potrà dirsi violata solo se il giudice, nel decidere sulla domanda di protezione, non compia gli accertamenti ivi previsti: ad esempio, accogliendo la domanda di protezione senza avere previamente accertato la sussistenza di tutti e cinque i requisiti previsti dalla norma suddetta.

Per contro, lo stabilire se la narrazione, fatta dall’interessato, delle circostanze che giustificano la concessione della protezione internazionale od il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, sia stata verosimile e credibile oppur no, non costituisce una valutazione di diritto, ma è un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità (Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 27503 del 30/10/2018, Rv. 651361 – 01).

Sindacabile in sede di legittimità, pertanto, potrebbe essere soltanto il metodo di giudizio applicato dal giudice di merito (ad esempio, per violazione dei precetti dettati dal D.Lgs. 25 gennaio 2008, n. 25, art. 8 in tema di ricerca e valutazione delle prove), ma non certo il merito del giudizio in sè riguardato, una volta che quei criteri siano stati osservati.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d’appello avrebbe erroneamente rigettato la richiesta di protezione sussidiaria.

Deduce che la Corte, violando il dovere di cooperazione istruttoria, avrebbe trascurato di accertare d’ufficio se nel Paese di origine del richiedente asilo sussistesse un’effettiva persecuzione ai danni della sua etnia; se le autorità statali si astenevano dall’impedirla, e se comunque l’ordinamento del Bangladesh era in grado di offrirgli protezione contro le discriminazioni.

2.2. Il motivo è infondato.

La Corte d’appello, con giudizio di fatto non sindacabile in questa sede, ha ritenuto che l’odierno ricorrente fosse inattendibile in toto: e dunque sia per quanto riguarda le sue vicende personali, sia per quanto riguarda la sua etnia, sia per quanto riguarda la sua provenienza.

Pertanto, una volta esclusa la certezza sinanche della provenienza dell’odierna ricorrente dal Bangladesh, e della sua appartenenza all’etnia (OMISSIS), la Corte d’appello non era tenuta ad alcun ulteriore approfondimento istruttorio officioso.

Il dovere c.d. “di cooperazione istruttoria”, infatti, non sorge ipso facto sol perchè il giudice di merito sia stato investito da una domanda di protezione internazionale, ma è subordinato alla circostanza che il richiedente sia stato in grado di fornire una versione dei fatti quanto meno coerente e plausibile.

Se manca questa attendibilità, non sorge quel dovere, poichè l’una è condizione dell’altro, come già ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 1 -, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549 – 02; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 16925 del 27/06/2018, Rv. 649697 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 16925 del 27/06/2018, Rv. 649697 – 01).

3. Terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 116 c.p.c.; art. 118 disp. att. c.p.c.; D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5,6 e 19 nonchè il vizio di “insufficiente e contraddittoria motivazione”.

Il motivo investe il rigetto della domanda di protezione umanitaria.

Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello avrebbe trascurato di considerare il “fatto controverso” rappresentato dall’appartenenza del ricorrente all’etnia (OMISSIS), etnia oggetto di discriminazione nel Paese di provenienza.

3.2. Nella parte in cui lamenta il vizio di “insufficiente e contraddittoria motivazione” il motivo è inammissibile, dal momento che tale vizio, a far data dall’11.9.2012, non è più censurabile in sede di legittimità, per effetto della novella dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

3.3. Nella parte restante il motivo, ad onta della sua intitolazione formale, va qualificato ex officio come denuncia dell’omesso esame d’un fatto decisivo, ed è infondato.

La Corte d’appello, infatti, non ha affatto omesso di considerare l’etnia di appartenenza del ricorrente (ne dà conto a p. 6 della sentenza); la circostanza, poi, che non ne abbia tratto le conclusioni invocate dal ricorrente è questione di merito, non sindacabile in sede di legittimità.

4. Le spese.

4.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

Poichè la parte vittoriosa è un’amministrazione dello Stato, nei confronti della quale vige il sistema della prenotazione a debito dell’imposta di bollo dovuta sugli atti giudiziari e dei diritti di cancelleria e di ufficiale giudiziario, la condanna alla rifusione delle spese vive deve essere limitata al rimborso delle spese prenotate a debito, come già ritenuto più volte da questa Corte (ex aliis, Sez. 3, Sentenza n. 5028 del 18/04/2000, Rv. 535811).

4.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

la Corte di cassazione:

(-) rigetta il ricorso;

(-) condanna R.M. alla rifusione in favore di Ministero dell’interno delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 2.100, oltre accessori e rifusione delle spese prenotate a debito;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di R.M. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile della Corte di cassazione, il 10 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2019

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