Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21124 del 02/10/2020

Cassazione civile sez. trib., 02/10/2020, (ud. 27/02/2020, dep. 02/10/2020), n.21124

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3440-2014 proposto da:

R.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIA L. CARO 62,

presso lo studio dell’avvocato SIMONE CICCOTTI, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 240/2012 della COMM.TRIB.REG. di PALERMO,

depositata il 14/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/02/2020 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

R.A. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 240/24/2012, depositata il 14.12.2012 dalla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, che, a conferma della sentenza di primo grado, aveva rigettato l’impugnazione dell’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva rideterminato il reddito relativo all’anno d’imposta 2004, con maggiore Irpef, addizionali regionali e comunali, oltre a interessi e sanzioni.

Ha in particolare riferito che, già titolare di un’impresa di noleggio di ciclomotori e biciclette in Lampedusa dal 1994, aveva acquistato nel 1999 in Anzio un esercizio di rivendita di generi di monopolio, ricevitoria e cartoleria, al prezzo di Euro 129.114,22, di cui Euro 123.949,66 a titolo di avviamento. Per le due attività aveva un’unica partita Iva e una sola contabilità.

Nel 2004 aveva alienato l’esercizio acquistato in Anzio al prezzo di Euro 100.000,00 di cui Euro 95.000,00 a titolo di avviamento, restando invece titolare del primo ramo d’azienda.

Con l’avviso di accertamento notificato nel 2008 l’Agenzia delle entrate aveva contestato alla contribuente l’inesattezza dei dati esposti in dichiarazione, in particolare un reddito d’impresa pari a soli Euro 2.954,00 (relativo al sopravvissuto esercizio economico in Lampedusa), a fronte del prezzo di cessione del ramo d’azienda, che veniva integralmente recuperato ad imponibile.

La R., che al contrario sosteneva che da quella cessione era scaturita una minusvalenza, aveva adito la Commissione tributaria provinciale di Agrigento, che con sentenza n. 798/04/2009 aveva rigettato però il ricorso. La statuizione era stata confermata dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia, con la decisione oggetto della presente impugnazione.

I giudici regionali hanno ritenuto che il valore d’avviamento realizzato con la vendita del ramo d’azienda in Anzio aveva costituito componente positiva del reddito d’impresa, sicchè legittimamente l’Amministrazione finanziaria aveva provveduto al suo recupero ad imponibile.

La contribuente censura la decisione del giudice d’appello con due motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 86, commi 1 e 2, degli artt. 3,23,53,70 e 97 Cost., della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 5, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente operato la tassazione dell’avviamento commerciale, senza tener conto del rapporto tra il corrispettivo con il costo non ammortizzato;

con il secondo per omesso esame circa fatti decisivi ai fini del giudizio, che hanno formato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza.

Si è costituita l’Agenzia con controricorso, contestando i motivi di ricorso, del quale ha chiesto il rigetto.

Diritto

CONSIDERATO

che;

Con il primo motivo la contribuente si duole dell’erronea applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86. Il motivo è fondato nei limiti e nei termini appresso chiariti.

In motivazione il giudice regionale prima inquadra le ragioni della contribuente, secondo la quale anche l’avviamento dell’azienda acquistata a titolo oneroso, avviamento iscritto in bilancio, aveva concorso alla determinazione del valore complessivo della cessione d’azienda, valore dunque da identificarsi nella parte ancora non ammortizzata, che nel concreto portava ad evidenziare una minusvalenza.

Sennonchè, proseguendo, il giudice d’appello afferma che “esattamente hanno deliberato e motivato i giudici di prime cure in ossequio al contenuto del tuirD.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 2, in quanto il valore dell’avviamento realizzato con la vendita di azienda e quindi la quantificazione monetaria concorre come elemento positivo alla formazione del reddito dell’azienda, conseguentemente è legittimo quanto accertato come reddito d’impresa da parte dell’Ufficio. Tale condizione è stata confermata dalla stessa contribuente che in sede di contraddittorio amministrativo dichiarava di avere impegnato gli introiti derivanti dalla vendita dell’azienda sita in Anzio, per la vendita di monopoli, ricevitoria e cartoleria, nell’acquisto dell’immobile nel rogito del Notaio…; quindi non si può certo considerare tale introito che come elemento positivo costituente reddito dell’impresa contribuente sul quale legittimamente l’Ufficio ha emesso l’atto impugnato.”.

La questione che dunque si pone è se nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 2, possa evidenziarsi una soluzione di continuità tra il primo e il secondo periodo, con due distinti criteri di determinazione della plusvalenza, come sembra emergere dalle argomentazioni della decisione e come sostiene l’Agenzia.

In sintesi sembra di comprendere che la sentenza avalli una interpretazione della norma, secondo cui, mentre dal primo periodo si evincerebbe che la plusvalenza costituita dalla differenza tra il corrispettivo o l’indennizzo conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo non ammortizzato”, dal secondo si desumerebbe l’assenza di rilevanza dei costi non ancora ammortizzati, recitando quel periodo che “concorrono alla formazione del reddito anche le plusvalenze delle aziende, compreso il valore di avviamento, realizzate unitariamente mediante cessione a titolo oneroso.”.

Questo Collegio ritiene che l’assunto del giudice regionale sia erroneo per un’errata lettura della norma.

Intanto va premesso che la norma colloca il valore di avviamento in seno alle plusvalenze derivanti dalla cessione d’azienda, fattispecie a sua volta collocata nel citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 2, che nel primo periodo disciplina il criterio di determinazione della plusvalenza.

Chiarita la collocazione della fattispecie, è pacifico che l’avviamento non rientra nel complesso dei beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, ma viene generalmente identificato nella qualità immateriale dell’impresa di produrre valore, costituendo pertanto più che un bene singolarmente valutabile, un valore economico ulteriore rispetto al valore complessivo dei singoli beni organizzati per l’esercizio d’impresa. Esso dunque è l’indice della capacità di produrre valori, oscillanti rispetto all’ordinaria capacità produttiva dei beni dell’azienda.

Si tratta in ogni caso di un bene immateriale, appostato nell’attivo dello stato patrimoniale (2424 c.c.). Ad esso fa peraltro rifermento l’art. 103 TUIR, laddove prevede la deducibilità delle quote di ammortamento del valore di avviamento che sia iscritto nell’attivo di bilancio.

Tale riferimento si giustifica, nella condivisibile ricostruzione di certa dottrina, preminentemente con l’esigenza di determinare il costo non ammortizzato, che va assunto ai fini della quantificazione dei componenti reddituali che emergono in sede di realizzo.

Ciò ha fatto anche osservare che, nel quadro delle plusvalenze afferenti la cessione unitaria dell’azienda a titolo oneroso, l’inciso “compreso l’avviamento” vuol significare che alla quantificazione della plusvalenza concorre anche l’avviamento già iscritto in bilancio.

D’altronde è la stessa Circolare 98/E/2000 dell’Agenzia delle entrate che riconosce nell’avviamento una componente del costo dell’azienda ceduta.

Ebbene, rispetto ad un avviamento cd. derivativo (cioè già oggetto di una sua autonoma identificazione in occasione del precedente acquisto dell’azienda da parte dell’attuale cedente), e tenendo conto della sua appostazione nell’attivo dello stato patrimoniale, così come della sua ammortizzabilità, appare incomprensibile perchè, ai fini della sua valutazione in sede di cessione d’azienda (del ramo d’azienda), la sentenza abbia ritenuto corretta la valutazione dell’Amministrazione finanziaria. Questa, riconducendo ad imponibile l’intero valore dell’avviamento del ramo d’azienda ceduto, non ha tenuto conto di quanto previsto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 2, primo periodo, a proposito della determinazione della plusvalenza, la quale, in caso di cessione del bene, sia esso singolo (ma non rientrante tra quelli indicati nell’art. 85 TUIR, comma 1), sia esso corrispondente al complesso dei beni costituenti l’azienda, deve corrispondere alla differenza tra il corrispettivo di cessione (al netto degli oneri accessori di diretta imputazione) e il costo non (ancora) ammortizzato.

E’ pur vero infatti che l’avviamento non costituisce un indice di valore stabile, potendo incrementarsi o ridursi nel suo valore in base all’andamento economico dell’impresa e al suo indice di redditività. Ciò tuttavia non porta a ritenere che l’avviamento “iniziale” sia cosa estranea da quello esistente al momento della cessione dell’azienda o di un ramo di essa.

Ai fini fiscali dunque, nella determinazione della plusvalenza (o della minusvalenza), non può assumersi l’indifferenza del costo d’avviamento, inizialmente dichiarato (o accertato) in occasione dell’acquisto dell’azienda, e di quanto di esso, appostato nell’attivo dello stato patrimoniale, non sia stato ancora ammortizzato.

D’altronde le conclusioni cui si perviene sono anche confortate dalla collocazione della plusvalenza dell’azienda, compreso l’avviamento, nel citato D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 2, rispetto alla originaria collocazione nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 54, comma 5, norma originariamente preposta alla regolamentazione delle plusvalenze patrimoniali. Cioè si vuol dire che se le plusvalenze da cessione d’azienda, compreso l’avviamento, sono state ricollocate nel comma 2, che regola il criterio di determinazione della plusvalenza, ciò costituisce un ulteriore indice della omogeneità della disciplina che attinge a tutti i beni, quelli singoli e quelli costituenti il complesso aziendale comprensivo d’avviamento.

In conclusione il motivo, nei limiti descritti, trova accoglimento.

L’accoglimento del motivo assorbe il secondo.

La sentenza va dunque cassata, e il giudizio va rinviato alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, che in diversa composizione, oltre che sulle spese del giudizio di legittimità, provvederà alla decisione della controversia tenendo conto del seguente principio di diritto: “in tema di determinazione delle plusvalenze conseguenti alla cessione a titolo oneroso di azienda o di ramo d’azienda, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, comma 2, il valore d’avviamento, che sia iscritto nell’attivo di bilancio e per il quale sia in atto la deduzione per quote d’ammortamento, va individuato nella differenza tra il corrispettivo conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, e il costo non ancora ammortizzato.”.

P.Q.M.

La Corte accoglie nei termini di cui in motivazione il primo motivo, assorbito il secondo; cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, in diversa composizione, cui demanda la decisione anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2020.

Depositato in cancelleria il 2 ottobre 2020

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