Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21123 del 22/07/2021

Cassazione civile sez. III, 22/07/2021, (ud. 24/02/2021, dep. 22/07/2021), n.21123

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24945-2018 proposto da:

C.L., C.D., C.O., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 9A, presso lo studio

dell’avvocato GIORGIO DE ARCANGELIS, rappresentati e difesi

dall’avvocato ALESSANDRO GRACIS;

– ricorrenti –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso lo studio

dell’avvocato ANTONIETTA CORETTI, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati VINCENZO TRIOLO, VINCENZO STUMPO;

S.L., S.Z., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA GOITO, 29, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PATELMO,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato FEDERICA

PATELMO;

– controricorrenti –

nonché contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 18932/2017 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 31/07/2017.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L. e S.Z. hanno convenuto in giudizio O., D. e C.L., eredi di C.R., esponendo che quest’ultimo era stato l’unico responsabile di un sinistro stradale nel quale egli aveva perso la vita e gli attori, rispettivamente conducente e proprietario dell’altra autovettura coinvolta nell’incidente, avevano riportato gravi lesioni. La citazione veniva estesa a La Carnica Assicurazioni s.p.a., oggi Uniqua Assicurazioni s.p.a., compagnia assicurativa del C..

Gli eredi C. hanno richiesto, a loro volta, in via riconvenzionale, la condanna degli attori al risarcimento dei danni patiti iure proprio e iure hereditario, sostenendo che fossero corresponsabili del sinistro. Inoltre, hanno chiamato in causa la Mele Assicurazioni s.p.a., successivamente UGF Assicurazioni s.p.a. Entrambe le compagnie assicurative si sono costituite in giudizio. Inoltre, interveniva volontariamente l’I.N.P.S., chiedendo, in via surrogatoria, che i C. e La Carnica s.p.a. fossero condannati alla refusione di quanto corrisposto a S.L. a titolo di indennità di malattia.

Il Tribunale di Belluno ha affermato la responsabilità concorrente di C.R. (80%) e di S.L. (20%), pronunciando le conseguenti condanne risarcitorie.

La decisione di primo grado è stata appellata, in via principale, dalla Uniqua Assicurazioni s.p.a. e, in via incidentale, dagli S., dai C. e dalla UGF Assicurazioni s.p.a. L’I.N.P.S. ha chiesto il rigetto dell’appello principale.

La Corte d’appello di Venezia, con sentenza del 19 settembre 2013, pur riformando parzialmente la decisione di primo grado, lasciava invariata la percentuale di addebito della responsabilità del sinistro affermata dal Tribunale.

Contro tale decisione ricorrevano i C. con undici motivi, illustrati da successive memorie. Resistevano con controricorso gli S. e l’I.N.P.S. All’udienza di discussione i ricorrenti rinunciavano al decimo motivo.

Questa Corte, con sentenza n. 18932 resa all’udienza del 23 febbraio 2017 e depositata il 31 luglio dello stesso anno, rigettava i primi sei motivi, con i quali si censurava sotto molteplici aspetti l’insufficiente liquidazione del danno non patrimoniale da morte del congiunto effettuata dal Tribunale di Belluno e confermata in grado di appello, ritenendo che la Corte territoriale avesse fatto buon governo del norme prendendo in esame la particolarità del nucleo familiare che non comportava, comunque, una situazione tale da giustificare lo scollamento dalla liquidazione del valore mediano tabellare. Riteneva manifestamente infondati i successivi tre motivi relativi al risarcimento dei costi per l’assistenza stragiudiziale e riteneva infondato l’ultimo motivo riguardante la compensazione parziale delle spese di lite, motivando specificamente sul punto. Pertanto, con la predetta sentenza n. 18932/2017 la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso proposto da O., D. e C.L. nei confronti di Z. e S.L. e dell’INPS avverso la sentenza n. 2107/2013 della Corte d’Appello di Venezia.

O., D. e C.L. propongono ricorso straordinario ex art. 391 bis c.p.c. per errore di fatto ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4 affidato ad un motivo.

Z. e S.L. e l’INPS resistono con distinti controricorsi. La difesa degli S. eccepisce la tardività del ricorso e, quindi, l’inammissibilità dello stesso. L’INPS deposita memoria ex art. 378 c.p.c.

Con istanza dell’11 febbraio 2021 i ricorrenti richiedono al Primo Presidente di questa Corte l’assegnazione del procedimento alle Sezioni Unite della Cassazione ai sensi dell’art. 376 c.p.c. e 139 dis. att. c.p.c. al fine di modificare il principio affermato da questa Corte a Sezioni Unite su analoga questione con la decisione n. 8091 del 2020.

I ricorrenti depositano, altresì, memoria ex art. 378 c.p.c. con istanza di rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., comma 2, atteso che la decisione delle Sezioni Unite, sull’applicabilità del termine ridotto ex art. 391 bis c.p.c. avrebbe affermato un principio che esula dalla lettera della legge, non conoscibile dai ricorrenti al momento della proposizione del ricorso per revocazione.

Con decreto pervenuto il 19 febbraio 2021 il Primo Presidente rigetta l’istanza di rimessione alle Sezioni Unite rilevando che la tematica, già trattata dalle Sezioni Unite, non evidenzia un contrasto giurisprudenziale e non costituisce una questione di massima di particolare importanza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il ricorso si deduce che la controversia in oggetto prendeva le mosse dall’azione proposta da due gruppi di danneggiati, rispettivamente i C. e gli S., a seguito di un unico sinistro stradale verificatosi il (OMISSIS), che aveva coinvolto le due autovetture in uno scontro frontale. Gli S. avevano agito per primi, davanti al Tribunale di Belluno, chiedendo l’accertamento della responsabilità esclusiva del dante causa dei convenuti, C.R., deceduto a causa del sinistro, nonché dell’assicuratore (Uniqua), mentre i C. in sede riconvenzionale avevano dedotto l’esistenza di una corresponsabilità o, comunque, la presunzione di pari responsabilità ai sensi dell’art. 2054 c.c., agendo nei confronti degli attori e dell’assicuratore di questi, Meie.

Il Tribunale avrebbe sostanzialmente accolto la tesi dei convenuti in riconvenzionale C., ritenendo responsabile il deceduto C.R. nella misura dell’80% e provvedendo di conseguenza. Con riferimento alla ripartizione delle spese di lite aveva individuato in ciascuna delle parti una differente parte vittoriosa, indicando quella soccombente nell’altro gruppo e nell’assicuratore di questo e viceversa. Dopo tale operazione il Tribunale di Belluno, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., aveva compensato parzialmente le spese. In particolare, i C. avevano potuto recuperare solo il 20% delle spese complessivamente sopportate, mentre la controparte aveva visto riconosciuto l’80% delle proprie spese processuali.

Tale profilo era stato oggetto di appello incidentale, deducendo che la compensazione non avrebbe dovuto essere proporzionata all’eziologia dell’incidente, ma al principio di causalità processuale. La Corte d’Appello aveva, invece, disatteso l’impugnazione ritenendo che non vi fosse soccombenza degli attori, in considerazione della maggiore responsabilità nella causazione del danno attribuita al convenuto.

Tale profilo è stato sottoposto alla Corte di legittimità, formando oggetto dell’ultimo motivo (undicesimo) del ricorso per cassazione. Era stata dedotta la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. attesa la compensazione delle spese processualì in misura proporzionata alle quote di accertata responsabilità nella causazione del sinistro. Si chiedeva di improntare la disciplina delle spese processuali al diverso principio della causalità del processo, tenendo conto della responsabilità nell’instaurazione del giudizio.

In particolare, i capi della sentenza riferiti alla pretesa azionata dai C. (dichiarazione di corresponsabilità e applicazione della falcidia dovuta al grado di colpa del de cuius) sarebbero stati accolti dal Tribunale, integralmente.

Il motivo, però, non aveva trovato accoglimento in quanto, secondo la decisione n. 18932/2017 della Corte di legittimità, “come si ricava dalla lettura della sentenza impugnata, gli eredi C. avevano, non solo negato il concorso di colpa del loro congiunto, ma anche addirittura invocato la responsabilità penale dello S., sicché correttamente è stato ritenuto che essi fossero parzialmente soccombenti” (pagina 8).

Con il ricorso per revocazione si deduce la sussistenza dell’errore revocatorio, consistente nella falsa percezione della realtà, in quanto la decisione della Corte di legittimità avrebbe fatto riferimento a due profili erroneamente ritenuti assorbenti: la negazione del concorso di colpa del congiunto dei ricorrenti, con richiesta di accertamento della responsabilità esclusiva della controparte e l’invocazione, da parte dei ricorrenti, di una responsabilità penale dello S..

Il riferimento è all’ipotesi dell’errore percettivo di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4.

Quanto alla prima affermazione della Corte di Cassazione, la stessa sarebbe contraddetta dal contenuto dello svolgimento del processo della sentenza della Corte territoriale, nella quale si rileva che i C. avevano chiesto l’accertamento di una “concorrente responsabilità di S.L.”; domanda reiterata nella parte dedicata ai motivi, in cui si precisava che la posizione degli odierni ricorrenti riguardava la “mancata applicazione dell’art. 2054 c.c., comma 2”.

Quanto alla seconda affermazione (responsabilità penale), la questione costituirebbe, secondo i ricorrenti, un profilo irrilevante atteso che la sussistenza di una responsabilità concorrente affermata dal Tribunale, significava necessariamente che anche S.L. aveva cagionato per colpa la morte di C.R..

L’errata percezione di tali dati avrebbe fuorviato la decisione della Corte di Cassazione, che avrebbe dovuto esprimere un giudizio di soccombenza parziale su ragioni diverse, tenendo conto dell’assoluta indisponibilità dell’assicuratore della controparte a liquidare alcunché. Il nuovo esame dell’11 motivo dell’originario ricorso per cassazione sarebbe rilevante in quanto, rispetto alle richieste inizialmente formulate in sede di domanda riconvenzionale, i C. dovevano ritenersi interamente vittoriosi, in quanto il Tribunale aveva accolto la domanda di accertamento di una colpa reciproca dei due conducenti e quella di condanna della compagnia Meie (successivamente, Aurora Assicurazioni) e di Unipolsai S.p.A. al risarcimento, pro quota, dei danni conseguenti al decesso del fratello C.R..

Il ricorso è inammissibile. Le Sezioni Unite con la sentenza n. 8091 del 23 aprile 2020, hanno affermato il principio di diritto per cui il termine per la proposizione del ricorso per revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione, ridotto da un anno a sei mesi, in sede di conversione del D.L. n. 168 del 2016, dalla L. n. 197 del 2016, si applica ai soli provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore della stessa (30 ottobre 2016), in difetto di specifica disposizione transitoria e in applicazione del principio generale di cui all’art. 11 preleggi.

La sentenza oggetto di revocazione è stata pubblicata il 31 luglio 2017 ed il ricorso è stato portato alla notifica il 27 agosto 2018, e da ciò deriva la tardività del ricorso e la conseguente inammissibilità.

Al momento della proposizione del ricorso per revocazione (settembre 2018) l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità deponeva già per l’applicazione del termine semestrale ai ricorsi per revocazione della sentenza di legittimità nei quali l’udienza di discussione si era svolta successivamente alla novella del termine di decadenza (in questi termini: Cass. 28 maggio 2018, n. 13358).

Il nuovo testo dell’art. 391 bis c.p.c., comma 1, dispone che la revocazione della sentenza della Cassazione per errore di fatto ex art. 395 c.p.c., n. 4, può essere domandata “entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla notificazione ovvero di sei mesi dalla pubblicazione del provvedimento”.

La disciplina transitoria contenuta nel D.L. n. 168 del 2016, art. 1 bis, comma 2, prevede che “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai ricorsi depositati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nonché a quelli già depositati alla medesima data per i quali non è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio”.

La novella è entrata in vigore il 30 ottobre 2016 (giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della L. n. 197 del 2016, che ha convertito, con modificazioni, il decreto legge sopra citato), prima della notificazione del ricorso per revocazione di cui si discute (agosto 2018).

Le Sezioni Unite 2020 hanno affrontato il problema se, in virtù della menzionata disciplina transitoria, il nuovo termine previsto nell’art. 391 bis c.p.c., comma 1, si applichi indistintamente a:

– tutti i ricorsi per revocazione successivi alla sua entrata in vigore (indipendentemente dalla data di pubblicazione della sentenza impugnata, che, nel nostro caso, è 31 luglio 2017), ovvero;

– soltanto ai ricorsi relativi a sentenze di legittimità pubblicate dopo l’entrata in vigore della L. n. 197 del 2016 (vale a dire, dopo il 30 ottobre 2016).

Nella vicenda presa in esame dalle Sezioni Unite, nel primo caso, il ricorso sarebbe stato inammissibile perché tardivo, trovando applicazione il termine semestrale introdotto dal D.L. n. 168 del 2016, pur concernendo una sentenza pubblicata il 5 luglio 2016. Accedendo alla seconda opzione, invece, il ricorso sarebbe ammissibile, dovendosi applicare il (previgente) termine annuale, in considerazione – per l’appunto – dell’anteriorità della data di pubblicazione della sentenza impugnata (luglio 2016) rispetto all’entrata in vigore della legge di riforma dell’art. 391 bis c.p.c. (ottobre 2016).

Le SSUU hanno ritenuto tempestivo il ricorso per revocazione ex art. 391-bis c.p.c. e rimesso gli atti alla Sezione Sesta-2, per il seguito, affermando che il termine per la proposizione del ricorso per revocazione delle sentenze della Corte di Cassazione – ridotto da un anno a sei mesi, si applica ai soli provvedimenti pubblicati dopo l’entrata in vigore della legge (30 ottobre 2016).

Nella ipotesi in esame, al contrario, entrambe le ipotesi depongono per la inammissibilità del ricorso per tardività.

La questione centrale è rappresentata dall’interpretazione del D.L. n. 168 del 2016, art. 1 bis, comma 2 (aggiunto in sede di conversione dalla L. n. 197 del 2016), secondo la quale “le disposizioni di cui al comma 1 si applicano ai ricorsi depositati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, nonché a quelli già depositati alla medesima data per i quali non è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio.

Orbene, nel caso di specie, l’udienza di discussione, come documentato dai controricorrenti S., risale al 27 gennaio 2017. Il ricorso per revocazione è stato spedito per la notifica il 27 agosto 2018, cioè dopo la data del 30 ottobre 2016 e il decreto di fissazione dell’udienza di discussione (27 gennaio 2017) è anche esso successivo al 30 ottobre 2016.

La sentenza revocata non è stata notificata, con conseguente applicazione del termine lungo decorrente dalla pubblicazione (cioè dal 31 luglio 2017).

Il problema posto dai ricorrenti è quello della possibile applicazione del termine di un anno, rendendo così tempestiva la notifica del ricorso, partita il 27 agosto 2018, in luogo del termine di sei mesi introdotto dalla riforma del 2016, che renderebbe tardivo il ricorso.

Con la citata decisione le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che l’art. 1 bis, comma 1 in discorso (intitolato “Misure per la ragionevole durata del procedimento per la decisione del ricorso per cassazione”) contiene norme “processuali” che riguardano il processo dinanzi alla Corte di Cassazione e che aggiungono tre nuove disposizioni: l’art. 375, comma 2 l’art. 377, comma 3 e l’art. 380 bis.

Ma la disposizione di cui al D.L. n. 168 del 2016, art. 1 bis, comma 2 non è una “norma transitoria”. Non essendo dettata una disciplina transitoria specifica occorre fare riferimento al criterio generale dell’art. 11 preleggi.

Tale regola, applicata alle norme processuali, pone particolari problemi, legati all’impatto delle modifiche legislative sui processi in corso. La novella concerne, infatti, il termine per la proposizione della revocazione, che è un mezzo di impugnazione straordinario, il quale, in quanto tale, non impedisce il passaggio in giudicato della sentenza, almeno nei casi in cui la sentenza della Cassazione abbia rigettato o dichiarato inammissibile il ricorso (art. 391 bis c.p.c., comma 5).

Nel caso in esame la Corte di Cassazione (con la decisione n. 18932/2017) aveva dichiarato inammissibile il ricorso, così determinando il passaggio in giudicato della sentenza di secondo grado (e, con esso, la conclusione del processo). Ne consegue che la modifica normativa non può dirsi intervenuta a processo ancora pendente, in una situazione cioè nella quale un atto (o una fase processuale) regolato dalla nuova legge è chiamato a convivere con un atto (o una fase processuale) ricadente sotto l’egida della precedente disciplina.

In sostanza, la legge del 2016 non incide sull’atto iniziale del giudizio di revocazione, ma sul termine che lo precede, il cui rispetto determina l’ammissibilità/procedibilità dell’impugnazione.

La sentenza di questa Corte è stata depositata dopo l’entrata in vigore della L. 2016 e, quindi, il termine di revocazione ha iniziato a decorrere già nella sua formulazione ridotta (sei mesi).

Con istanza di assegnazione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 376 c.p.c., comma 2 i ricorrenti hanno rilevato che la decisione adottata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 8091 del 2020 si stabiliva il criterio secondo cui la nuova disciplina della dimidiazione dei termini della revocazione sarebbe applicabile avuto riguardo alla data di pubblicazione della sentenza di legittimità affetta da eventuale errore di fatto revocatorio. Tale elemento di novità sarebbe differente rispetto alle due situazioni previste dalla legge (art. 1 bis) e rappresentate dall’avvenuta iscrizione a ruolo del ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c. (e non ex art. 391 bis c.p.c.), che deve essere successiva alla data di entrata in vigore della riforma del 2016 (30 ottobre) ovvero al caso di fissazione dell’udienza di discussione, non ancora avvenuta, con riferimento ai ricorsi caratterizzati da una iscrizione a ruolo precedente all’entrata in vigore della novella del 2016.

Rispetto a tale assetto, secondo i ricorrenti, la pronunzia delle Sezioni Unite introdurrebbe un principio nuovo, quello secondo cui al ricorso per revocazione di una sentenza di cassazione emessa dopo l’entrata in vigore della riforma del 2016 si applicherebbe il termine dimezzato, pur trattandosi di un procedimento risalente all’anno 1999.

In sostanza, poiché il legislatore non prevede che le disposizioni modificate si applicano ai ricorsi depositati successivamente all’entrata in vigore della legge del 2016, il D.L. n. 168 del 2016, art. 1 bis, comma 2 dovrebbe interpretarsi – secondo i ricorrenti – nel senso che le disposizioni “si applicano ai ricorsi depositati successivamente alla data di entrata in vigore della legge di conversione”. Ma tali ricorsi dovrebbero intendersi quelli “per cassazione” diversi dal ricorso per revocazione. Pertanto, il termine di sei mesi per la proposizione del ricorso per revocazione della sentenza della Corte di Cassazione, avrebbe dovuto applicarsi ai giudizi di legittimità iscritti a ruolo dopo l’entrata in vigore della legge del 2016 oppure anche a quelli iscritti prima, purché per tali procedimenti non risulti ancora fissata l’udienza o la adunanza in camera di consiglio. Non avrebbe, invece, alcun rilievo la data di iscrizione a ruolo del giudizio per revocazione e nemmeno quella di pubblicazione della sentenza oggetto di revocazione.

L’istanza pone un problema specifico, quello dell’interpretazione del citato articolo 1bis sostenendo che tutte le novità introdotte dalla riforma del 2016 avrebbero una efficacia differita. Si applicherebbero solo ai ricorsi per cassazione (non ai ricorsi per revocazione) depositati dopo il 30 ottobre 2016, con la conseguenza che il giudizio per revocazione della sentenza della Corte di Cassazione sarebbe, per un tempo molto dilatato in avanti, regolato dal precedente termine di impugnazione e cioè quello di un anno (e non di sei mesi).

L’istanza, però, finisce per chiedere a questa Corte di rimettere alle Sezioni Unite l’identica questione di cui le stesse si sono (appena) occupate e cioè il significato della disposizione della cui interpretazione si discute, al fine di verificare se si tratti o meno di una norma transitoria, idonea a disciplinare i termini del giudizio di revocazione.

Le Sezioni Unite hanno aderito all’orientamento maggioritario evidenziato nella ordinanza di rimessione, e cioè quello secondo cui tale disposizione non avrebbe la funzione di norma transitoria in tema di giudizio per revocazione, dovendo – invece – trovare applicazione la disciplina generale degli artt. 11 e 12 preleggi.

La questione prospettata nella istanza e nella premessa del ricorso per revocazione è stata ritenuta non rilevante nel decreto del Primo Presidente della corte di cassazione delle 19 febbraio 2021 – perché l’interpretazione dell’art. 1 bis non risolverebbe comunque la questione, non parendo applicabile al tema dei termini del giudizio per revocazione, non potendosi ravvisare una specifica disciplina transitoria nel citato D.L. n. 168 del 2016, art. 1 bis, comma 2, il quale, disponendo che le novità legislative si applichino ai ricorsi “per i quali non è stata fissata udienza o adunanza in camera di consiglio”, intende riferirsi alle sole norme dettate per la trattazione dei ricorsi e non anche al termine per il deposito degli stessi”.

Con il citato provvedimento, il Primo Presidente ha rilevato che “essendo già intervenute le Sezioni Unite, non essendo riscontrabile, né un contrasto di giurisprudenza, né una questione di massima di particolare importanza, non vi è spazio per una nuova investitura delle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 376 c.p.c., comma 2” così rigettando l’istanza.

Va disattesa anche la richiesta di remessione in termini sottoposta all’esame di questa Corte in quanto l’accesso al rimedio di cui all’art. 153 c.p.c. non è consentito nel caso in cui, venendo in questione l’impugnazione di un provvedimento pubblicato dopo l’entrata in vigore della novella, il termine per l’impugnazione, pur dimezzato, offriva ai ricorrente un lasso temporale congruo per la proposizione dell’impugnazione (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8216 del 4.4.2013, alla cui stregua, “la causa non imputabile richiede il verificarsi di un evento che presenti il carattere della assolutezza – e non già una impossibilità relativa, né tantomeno di una mera difficoltà – e che sia in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza in questione”).

E questo a prescindere dal fatto che il provvedimento di rimessione in termini “presuppone una tempestiva istanza della parte”, la quale deve provvedervi “senza ritardo e non appena essa abbia acquisito la consapevolezza di avere violato il termine stabilito dalla legge o dal giudice per il compimento dell’atto” (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 6102 del 1.3.2019; Cass. Sez. L, Ordinanza n. 14839 del 7.6.2018; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23561 dell’11.11.2011 – Rv. 62040701).

Nel caso che qui occupa, poiché i ricorrenti avevano avuto conoscenza legale del nuovo termine per la revocazione dal momento della pubblicazione della novella legislativa, l’istanza ex art. 153 c.p.c. si sarebbe dovuta proporre – ragionevolmente – in seno al ricorso per revocazione. Anche per tale ragione l’istanza non può trovare accoglimento.

Ne consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo seguono la soccombenza in favore dei controricorrenti costituiti, rispettivamente, INPS e Z. e S.L.. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese in favore dell’INPS, liquidandole in Euro 7.400,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge ed in favore di Z. e S.L., liquidandole in Euro 6.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

 

 

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