Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2112 del 31/01/2014


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Civile Sent. Sez. 1 Num. 2112 Anno 2014
Presidente: SALME’ GIUSEPPE
Relatore: DI AMATO SERGIO

SENTENZA

sul ricorso 6495-2012 proposto da:
TONELLO S.P.A.

(c.f. 02221440304),

in persona del
elettivamente

legale rappresentante pro tempore,

domiciliata in ROMA, VIA PIETRO TACCHINI 7, presso

Data pubblicazione: 31/01/2014

l’avvocato POLESE FABRIZIO, rappresentata e difesa
dall’avvocato BIANCHINI MANLIO, giusta procura a
2013

margine del ricorso;

1769

ricorrente

contro

FALLIMENTO FACCHIN S.R.L.

IN LIQUIDAZIONE,

in

1

persona

del

Curatore

dott.

MASSIMO

CALAON,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE UNIVERSITA’
27, presso l’avvocato TEDESCHI MASSIMO, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato GYULAI
ALBERTO, giusta procura a margine del controricorso;
controricorrente

avverso il provvedimento del TRIBUNALE di TREVISO,
depositato il 24/01/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 20/11/2013 dal Consigliere Dott. SERGIO
DI AMATO;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato TEDESCHI
MASSIMO che si riporta al controricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. LUCIO CAPASSO che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

)f

2

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto del 24 gennaio 2012 il Tribunale di Treviso
rigettava l’opposizione allo stato passivo del fallimento
della s.r.l. Facchin proposta dalla s.p.a. Tonello,

decreto ingiuntivo munito del visto di esecutorietà

osservando che: l) non era opponibile al fallimento il
ex

art. 647 c.p.c. in data successiva a quella della
dichiarazione di fallimento e ciò anche se in data
anteriore alla stessa dichiarazione era ormai decorso il
termine per proporre opposizione; tale conclusione,
conforme all’orientamento della giurisprudenza di
legittimità, discendeva sia dalla necessità di
distinguere il giudicato sostanziale, collegabile soltanto
all’emissione del decreto di esecutività, dal giudicato
formale, collegabile alla scadenza dei termini per
proporre esecuzione, sia dal fatto che, ai sensi dell’art.
45 1. fall., sono senza effetto rispetto ai creditori le
formalità necessarie per rendere opponibili gli atti ai
terzi se compiute dopo la dichiarazione di fallimento; 2)
non potevano essere ammesse al passivo le spese giudiziali
liquidate nel decreto ingiuntivo in quanto fondate su un
titolo non opponibile al fallimento; 3) le spese della
procedura esecutiva immobiliare, iniziata sulla base del
citato decreto ingiuntivo, munito di provvisoria
esecutività, potevano essere ammesse al passivo soltanto
3

per l’importo corrispondente alle anticipazioni sostenute
per

la

trascrizione

del pignoramento

immobiliare,

difettando per il resto una documentazione idonea a
comprovarne l’esborso o la liquidazione giudiziale.
La s.p.a. Tonello propone ricorso per cassazione,

deducendo tre motivi. Il fallimento della s.r.l. Facchin
resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione
degli artt. 324, 641, 645 e 647 c.p.c. e 2909 c.c.,
lamentando che erroneamente il Tribunale ha ritenuto che
solo l’apposizione del visto di esecutorietà in data
anteriore alla sentenza dichiarativa di fallimento
determina la formazione del giudicato sostanziale con
conseguente opponibilità alla massa di un decreto
ingiuntivo non opposto nei termini.
Il motivo è infondato. Nella giurisprudenza di questa
Corte è costante l’affermazione del principio secondo cui
non è opponibile al fallimento il decreto ingiuntivo non
munito di decreto di esecutorietà ai sensi dell’art. 647
c.p.c. In tale giurisprudenza, peraltro, come rileva
esattamente la difesa della ricorrente, l’affermazione è
spesso contenuta in un

obiter dictum,

come nel caso di

Cass. 25 marzo 1995, n. 3580 ove si affermava «che
entrambi i provvedimenti sopra individuati

(ex art. 647

c.p.c., ovvero sentenza sull’opposizione) non possono più
4

essere emessi a seguito del fallimento, con effetti
vincolanti per la massa», ma in una situazione nella quale
al momento del fallimento pendeva l’opposizione al decreto
ingiuntivo; ovvero nel caso di Cass. 20 settembre 1971, n.
2627, che decideva, per escluderla, sulla sindacabilità in

sede fallimentare della erroneità della sentenza che aveva
accolto l’opposizione al decreto ingiuntivo; ovvero ancora
nel caso di Cass. 3 gennaio 2013, n. 38 chiamata a
decidere sul rilievo di una sentenza emessa all’esito di
opposizione a decreto ingiuntivo, pubblicata dopo la
dichiarazione di fallimento. Nella giurisprudenza di
legittimità, peraltro, è stata sempre salda
l’affermazione, resa indipendentemente dal fallimento del
debitore, che il decreto ingiuntivo munito del decreto di
esecutorietà ha efficacia di cosa giudicata (così dalle
risalenti Cass. nn. 659/1966, 1246/1966, 1776/1967,
1125/1968 sino alla più recente Cass. 31 ottobre 2007, n.
22959).
Tuttavia,

all’attenzione di questa Corte è venuta

anche la specifica questione, risolta sempre in senso
negativo, della opponibilità al fallimento del decreto
ingiuntivo, munito o meno della provvisoria esecutività,
ma non munito del decreto ex art. 647 c.p.c., quando i
termini per proporre opposizione siano inutilmente scaduti
prima della dichiarazione di fallimento (Cass. 26 marzo
2004, n. 6085; Cass. 13 marzo 2009, n. 6198; Cass. ord. 23
5

dicembre 2011, n. 28553; Cass. 13 febbraio 2012, n. 2032;
Cass. 17 luglio 2012, n. 12205; Cass. 11 ottobre 2013, n.
23202). In alcuni casi si è anche precisato che il decreto
ingiuntivo è opponibile soltanto quando il decreto di
esecutorietà è stato emesso prima della dichiarazione di

fallimento (le citate Cass. nn. 6085/2004; 6198/2009;
12205/2012). Tali ultime decisioni hanno argomentato, in
un caso, distinguendo tra «giudicato formale, interno,
endoprocessuale», che si formerebbe al momento della
scadenza dei termini per proporre opposizione, e giudicato
sostanziale, che si formerebbe soltanto al momento della
apposizione del decreto di esecutorietà ex art. 647 c.p.c
(Cass. n. 6085/2004, richiamata da Cass. n. 6198/2009) e,
in un altro, sottolineando che è «solo con la
dichiarazione di esecutività che il giudice verifica se
non sia possibile che, per la nullità della notificazione
del decreto di ingiunzione, l’intimato non ne abbia avuta
conoscenza, e dichiara che, per non esservi stata
tempestiva opposizione, si sono verificate le condizioni
perché esso sia divenuto non ulteriormente opponibile ed
abbia acquistato esecutorietà, sì da poter fondare il
diritto a procedere alla esecuzione forzata per la
realizzazione coattiva del credito» (Cass. n. 12205/2012).
A tale orientamento deve darsi continuità con qualche
precisazione.

6

La diversificazione sul piano temporale tra giudicato
formale e giudicato sostanziale non può essere accolta
(esula, ovviamente, dal tema il caso delle decisioni in
rito suscettibili di giudicato formale, ma non di
giudicato sostanziale). La distinzione tra i due concetti

si basa sulla disciplina dettata, da una parte, dall’art.
324 c.p.c. (la cui rubrica è intitolata “cosa giudicata
formale”) e, dall’altra, dall’art. 2909 c.c. (la cui
rubrica è intitolata “cosa giudicata”). Il primo
stabilisce che «si intende passata in giudicato la
sentenza che non è più soggetta né a regolamento di
competenza, né ad appello, né a ricorso per cassazione, né
a revocazione per i motivi di cui ai numeri 4 e 5
dell’articolo 395». Il secondo stabilisce che
«l’accertamento contenuto nella sentenza passata in
giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro
eredi o aventi causa». Come è evidente, e come è
riconosciuto da autorevole dottrina e dalla pacifica
giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3 luglio 1987, n.
5840; Cass. 2 marzo 1988, n. 2217), non esiste alcuna
contrapposizione fra cosa giudicata formale e cosa
giudicata sostanziale, posto che i due concetti sono
relativi a due aspetti del medesimo fenomeno. L’art. 2909
stabilisce, infatti, gli effetti sul piano sostanziale del
giudicato, presupponendo che altrove si stabilisca quando
si forma il giudicato. La decisione giurisdizionale non
7

più impugnabile con i rimedi ordinari previsti dall’art.
324 c.p.c. determina, d’altro canto, gli effetti sul piano
delle certezze giuridiche, che, ai sensi dell’art. 2909
c.c., vengono definiti giudicato sostanziale.
Affermata la coincidenza temporale del giudicato

formale e di quello sostanziale, si deve stabilire se il
giudicato si forma al momento del decorso dei termini per
proporre opposizione al decreto ingiuntivo quando questa
non sia stata proposta, ovvero al momento in cui il
giudice, dopo averne controllato la notificazione,
dichiara esecutivo il decreto ingiuntivo. La seconda
soluzione si impone per due connesse ragioni. In primo
luogo, al momento dello scadere dei termini per
l’impugnazione non vi è stato alcun controllo
giurisdizionale sulla notificazione e sulla sua idoneità a
provocare un contraddittorio eventuale e posticipato sulla
domanda proposta con il decreto ingiuntivo. Tale
controllo, invece, rappresenta un momento irrinunciabile a
garanzia del diritto di difesa dell’intimato ed ha natura
analoga all’imprescindibile controllo che nel giudizio a
cognizione ordinaria il giudice deve necessariamente
effettuare prima di dichiarare la contumacia del convenuto
(artt. 164, 183, 291 c.p.c). Senza tale controllo sarebbe
“fuori sistema” parlare di giudicato anche solo formale e
vi è spazio, come si preciserà più avanti, solo per un
giudicato interno, i cui presupposti, però, sono oggetto
8

di verifica da parte del giudice all’interno del processo.
In secondo luogo, l’art. 647 c.p.c. prevede che, nel caso
in cui non sia stata fatta opposizione nel termine, «il
giudice deve ordinare che sia rinnovata la notificazione,
quando risulta o appare probabile che l’intimato non abbia

avuto conoscenza del decreto». L’eventuale rinnovazione
della notificazione consente perciò all’ingiunto di
proporre, nei termini decorrenti dalla nuova
notificazione, opposizione che va qualificata come
ordinaria, ai sensi dell’art. 645 c.p.c., e non già
tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c.; il che conferma che
alla scadenza dei termini per proporre opposizione non si
forma la cosa giudicata formale e che questa si forma solo
dopo il controllo del giudice sulla notificazione.
Coerentemente, l’art. 656 c.p.c. prevede che, non il
decreto non opposto, ma «il decreto d’ingiunzione,
divenuto esecutivo a norma dell’articolo 647, può
impugnarsi per revocazione nei casi indicati nei numeri l,
2, 5 e 6 dell’articolo 395»; sono esperibili, perciò, come
emerge chiaramente dal confronto con l’art. 324 c.p.c.,
mezzi straordinari previsti per l’impugnazione contro i
provvedimenti passati in cosa giudicata, ai quali mezzi si
aggiunge, per espressa previsione dello stesso art. 656,
la revocazione per contrasto con precedente giudicato
(art. 395, n. 5) nonchè, per l’espressa previsione
dell’art. 650 c.p.c., l’opposizione tardiva (sul fatto che
9

l’efficacia di giudicato del decreto ingiuntivo non
opposto e munito di esecutorietà

ex art. 647 non viene

meno di per sé a seguito dell’opposizione tardivamente
proposta v. Cass. s.u. 16 novembre 1998, n. 11549 e Cass.
6 ottobre 2005, n. 19429). 2 il caso di rilevare, sul

procedimento d’ingiunzione con il decreto

ex

piano sistematico, che la mancata definizione del
art. 647

c.p.c. non rende ovviamente irrilevante il fatto che il
decreto ingiuntivo non sia stato opposto nei termini.
Qualora, infatti, l’intimato dovesse proporre opposizione,
e non ricorressero i presupposti per una opposizione
tardiva, il giudizio di opposizione, che si configura come
uno sviluppo della fase monitoria, dovrebbe chiudersi,
previa ancora una volta l’imprescindibile verifica della
regolarità della notificazione del decreto ingiuntivo, con
il rilievo d’ufficio del giudicato interno, formatosi
nell’ambito dell’unitario procedimento in corso (Cass. 6
giugno 2006, n. 13252; Cass. 26 marzo 1991, n. 3258; Cass.
3 aprile 1990, n. 2707). Il giudicato formale e
sostanziale, tuttavia, si formerebbe solo con la sentenza
che dichiara l’inammissibilità dell’opposizione, come è
reso evidente dal fatto che ove il giudice
dell’opposizione erroneamente non rilevasse il giudicato
interno ed accogliesse l’opposizione, la sentenza, se non
impugnata, sarebbe idonea a passare in cosa giudicata
(Cass. 20 settembre 1971, n. 2627).
10

In conclusione, la funzione devoluta al giudice
dall’art. 647 c.p.c. è molto diversa da quella della
verifica affidata al cancelliere dall’art. 124 d.a.c.p.c.
sulla mancata proposizione di una impugnazione ordinaria
nei termini di legge e dall’art. 153 d.a.c.p.c. sulla

formalmente perfetto». Se ne differenzia, infatti, per il
compimento di una attività giurisdizionale avente ad
oggetto la verifica del contraddittorio, che, come già
detto, nel processo a cognizione ordinaria ha luogo come
primo atto del giudice e nel processo d’ingiunzione, ove
non sia stata proposta opposizione, ha luogo come ultimo
atto del giudice. La conoscenza del decreto da parte
dell’ingiunto non rappresenta perciò una

condicio juris

che può essere accertata al di fuori del processo
e

d’ingiunzione, eventualmente anche dal giudice delegato in
sede di accertamento del passivo, ma costituisce l’oggetto
di una verifica giurisdizionale che si pone all’interno
del procedimento di ingiunzione e che “chiude il cerchio”
dell’attività in esso riservata al giudice in caso di
mancata opposizione. Ne consegue che il decreto ingiuntivo
non munito, prima della dichiarazione di fallimento, di
decreto di esecutorietà ex art.

647 c.p.c. non è passato

in cosa giudicata formale e sostanziale né può più
acquisire tale valore con un successivo decreto di
esecutorietà per mancata opposizione poiché, intervenuto

verifica che «la sentenza o il provvedimento del giudice è

il fallimento, ogni credito, secondo quanto prescrive
l’art. 52 1. fall., deve essere accertato nel concorso dei
creditori, secondo le regole stabilite dagli artt. 92 ss.
1. fall., in sede di accertamento del passivo.
Con il secondo motivo si deduce la violazione degli

artt. 45 1. fall. e 647 c.p.c., lamentando che
erroneamente il decreto impugnato ha ritenuto che il visto
di esecutorietà costituisca formalità necessaria per
rendere opponibile il decreto ingiuntivo ai terzi.
Il rigetto del primo motivo assorbe il secondo e con
esso ogni rilievo sul fatto che il decreto di esecutorietà
si pone su un piano diverso da quello delle formalità per
rendere opponibili gli atti ai terzi.
Con il terzo motivo si deduce la violazione degli artt.
96 1. fall., 1709, 2770, 2702 e 2727 c.c., lamentando che
erroneamente il Tribunale aveva escluso dal passivo le
spese della procedura esecutiva non documentate da
esborsi, ma corrispondenti ad attività processuali esposte
nella nota spese e necessarie a far progredire la
procedura esecutiva, prima del fallimento, sino al
deposito dell’istanza di vendita.
Il motivo è fondato. Le spese della procedura esecutiva
e le spese che rappresentano un accessorio di legge delle
spese processuali sono a carico del debitore, e devono
essere ammesse al passivo del suo fallimento, anche quando
alla procedura non sia opponibile il titolo in base al
12

quale è stata promossa l’esecuzione. Il privilegio
previsto dagli artt. 2755 e 2770 c.c. per gli atti di
espropriazione, certamente applicabile anche in caso di
fallimento del debitore, presuppone, infatti, la
sussistenza del relativo credito nei confronti del fallito

indipendentemente dalle condizioni per il riconoscimento
del privilegio; questo perché le citate disposizioni
attribuiscono il diritto di prelazione, ma non il diritto
di credito che è preesistente e si fonda sul generale
principio dettato dall’art. 90 c.p.c. Tali spese, inoltre,
non possono essere limitate agli esborsi, come ha ritenuto
la sentenza impugnata, ma si estendono anche a quelle
relative a tutte le attività poste in essere dal creditore
per promuovere e proseguire l’espropriazione sino al
momento della dichiarazione di fallimento. Ne consegue il
diritto del creditore di essere ammesso al passivo anche
per le spese legali sostenute per l’esecuzione e la
necessità che tali spese, ove non vi abbia provveduto il
giudice dell’esecuzione, siano liquidate dal giudice
delegato.
P . Q . M .
accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo e
dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata
in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le
spese del giudizio di cassazione, al Tribunale di Treviso
in diversa composizione.
13

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20

novembre 2013.

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