Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21116 del 07/08/2019

Cassazione civile sez. I, 07/08/2019, (ud. 24/05/2019, dep. 07/08/2019), n.21116

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 18659/2018 r.g. proposto da:

D.B., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso, giusta

procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato Rosa

Vignali, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in

Firenze, Viale Antonio Gramsci n. 22;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro legale rappresentante

pro tempore, rappresentato e difeso, ope legis, dall’Avvocatura

Generale dello Stato presso i cui Uffici in Roma Via dei Portoghesi

n. 12 è elettivamente domiciliato;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di Appello di Perugia, depositata in

data 14.07.2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/5/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Perugia – decidendo sull’appello proposto da D.B. (cittadino del SENEGAL) avverso la decisione emessa in data 14.1.2017 dal Tribunale di Perugia (con la quale era stata respinta la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria e umanitaria) – ha confermato la decisione resa in primo grado, rigettando pertanto la proposta opposizione.

La corte del merito ha ritenuto non fondata la domanda di protezione internazionale posto che non erano rintracciabili, nella vicenda narrata dal richiedente, circostanze rilevanti, ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2; ha evidenziato la natura privata della vicenda raccontata dal ricorrente, come ragione determinante l’espatrio dal Senegal: il richiedente ha raccontato di aver deciso di allontanarsi dal suo paese in seguito a disaccordi insorti con il padre determinati dalla sua amicizia con cristiani con i quali aveva festeggiato il Natale e che pertanto temeva la possibile reazione violenta del padre, che già in passato aveva ucciso un altro figlio a bastonate. La corte territoriale ha dunque ritenuto che la vicenda narrata non riscontrava una ipotesi di persecuzione per ragioni di razza ovvero religione e che, comunque, il Senegal è un paese esempio di tolleranza e di integrazione tra le varie religioni ed etnie. La corte ha, poi, evidenziato l’insussistenza delle condizioni per il riconoscimento della reclamata protezione sussidiaria, non assistendosi nel Senegal a situazioni di pericolo determinate da condizioni di conflitto armato generalizzato e provenendo il pericolo temuto dal richiedente non già dalla Stato, quanto piuttosto dal padre e da vicende private familiari. La corte di merito ha, infine, escluso il riconoscimento della protezione umanitaria in quanto non emergeva una situazione di vulnerabilità individualizzata del richiedente, come tale scollegata al generico “rischio paese”, che non può essere ragione di per sè rilevante per ottenere la reclamata protezione.

2. La sentenza, pubblicata il 14.12.2017, è stata impugnata da D.B. con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, cui il Ministero dell’Interno ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.Con il primo motivo la parte ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 si duole dell’erroneità della motivazione impugnata laddove la stessa aveva fondato la ragione del diniego della richiesta dello status di rifugiato sulla circostanza della natura familiare e non già statuale del rischio di ritorsioni. Osserva invece che il rischio di ritorsioni violente era collegato proprio alla sua scelta di convertirsi alla fede cristiana e che, dunque, tale condizione non poteva non essere ricondotta nel novero delle persecuzioni determinate da ragioni religiose. Si osserva, inoltre, che la corte di merito non aveva escluso la credibilità soggettiva del richiedente e che, pertanto, la causale religiosa del comportamento repressivo temuto da quest’ultimo non poteva essere più messa in discussione.

2. Con il secondo motivo si articola vizio di violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 in ordine al diniego di protezione sussidiaria. Si evidenzia l’erroneità della decisione impugnata che aveva escluso la predetta protezione sulla base della considerazione che quest’ultima si fonda su un grave rischio innescato dal pericolo di un conflitto armato generalizzato, non riscontrabile nel caso di specie ove il pericolo era invece riconducibile ad una vicenda personale del richiedente. Si osserva da parte del ricorrente che, al contrario, il grave rischio alla persona può provenire anche da un soggetto non statale.

3. Con un terzo motivo si articola vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 28 gennaio 2005, n. 25, art. 32 in relazione al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e vizio di omesso esame di un fatto decisivo. Si osserva che ricorrevano le condizioni per il riconoscimento, per lo meno, della richiesta protezione umanitaria, in ragione anche del grado di inserimento sociale del richiedente in Italia che aveva anche ottenuto una stabile occupazione lavorativa nella provincia di (OMISSIS).

4. Il ricorso è infondato.

4.1 Il primo motivo è inammissibile già per come articolato.

Va subito osservato che, sotto l’egida formale del vizio di violazione di legge, si vorrebbe invece sollecitare la Corte di legittimità ad una rivalutazione di merito dei presupposti fattuali applicativi della normativa dettata in materia di protezione internazione, e ciò a fronte di una motivazione che – in modo adeguato, dal punto di vista argomentativo – ha escluso la possibilità di applicazione della reclamata protezione al caso di specie proprio in ragione della natura privata della vicenda raccontata dal ricorrente.

Sul punto risulta utile ricordare che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019). Detto altrimenti, deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Sez. 6, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017).

Ciò posto, risulta evidente come, nella specie, la parte ricorrente intenda far rivalutare alla Corte di legittimità la vicenda personale del ricorrente per farla ritenere idonea al riconoscimento della protezione internazionale.

Peraltro, la corte di merito ha evidenziato che il Senegal risulta essere paese ove si assiste ad una pacifica convivenza tra le diverse etnie religiose, così prospettando un’ulteriore ratio decidendi che non è stata neanche formalmente aggredita dal ricorrente con il motivo di censura e che, pertanto, rafforza la valutazione di inammissibilità delle doglianze così proposte.

4.2 Il secondo motivo è anch’esso inammissibile, in ragione dell’evidente novità delle questioni prospettate, non avendo il ricorrente, nei precedenti gradi di merito, sollevato doglianza sui requisiti della minaccia previsti dal D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 5, lett. c), e ciò con particolare riferimento al profilo della impossibilità o mancanza di volontà di fornire protezione da parte dello stato ovvero dei soggetti di cui alla lett. b) medesimo articolo.

4.3 Il terzo motivo è infondato.

Il ricorrente, avanzando doglianze formulate in modo peraltro generico, pretenderebbe il riconoscimento della protezione umanitaria, allegando un grado di inserimento nella società italiana tale da porlo in condizioni di vulnerabilità nell’ipotesi di rimpatrio.

Sul punto giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte, in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018; cfr. anche Sez. 6, Ordinanza n. 17072 del 28/06/2018).

Ne consegue che non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e senza una specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza.

Orbene, la parte ricorrente nulla ha allegato e dedotto per consentire quella valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, necessaria al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani fondamentali.

Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio secondo la soccombenza.

Non è dovuto il doppio contributo, stante l’ammissione del ricorrente al patrocinio a spese dello Stato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.100 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 24 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2019

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