Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21109 del 07/08/2019

Cassazione civile sez. I, 07/08/2019, (ud. 19/03/2019, dep. 07/08/2019), n.21109

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13284/2018 proposto da:

M.J., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la

Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso

dall’avvocato Verde Carmine, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– resistente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CAMPOBASSO, depositato il

26/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/03/2019 dal cons. Dott. PAOLA GHINOY.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Campobasso rigettava il ricorso proposto da M.J. avverso il provvedimento della Commissione territoriale di Salerno – Sezione di Campobasso – che aveva respinto la domanda proposta al fine di ottenere il riconoscimento della protezione internazionale.

2. Il Tribunale argomentava che non sussistevano i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 2, comma 1, lett. e) in quanto le dichiarazioni rese dal richiedente di fronte alla Commissione territoriale (aver lasciato il Bangladesh per cercare un lavoro, dopo che nel 2003 in seguito alla morte del padre i suoi zii si erano impossessati dei suoi terreni) erano di natura essenzialmente economica, neppure avendo il ricorrente fatto ricorso alle istituzioni di sicurezza del suo territorio benchè le stesse non potessero essere specificamente sospettate di inquinamento e/o collusione.

3. Escludeva inoltre la sussistenza dei requisiti per la protezione sussidiaria, argomentando che la generica gravità della situazione politico-economica del paese di origine, così come la mancanza dell’esercizio delle libertà democratiche, non costituivano elementi sufficienti a integrarne i presupposti, essendo necessario che la specifica situazione soggettiva del richiedente, in rapporto alle caratteristiche oggettive esistenti nello stato di appartenenza, sia tale da far ritenere la sussistenza di un pericolo grave per l’incolumità della persona ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g). Alla luce dei motivi di allontanamento, tenuto conto dell’attuale situazione socio politica esistente, il Tribunale non ravvisava il pericolo che il richiedente, tornando in Bangladesh, potesse subire un grave danno, sia perchè detta situazione non appare, di per sè, allarmante, sia perchè la specifica condizione soggettiva del ricorrente non lo rende esposto ad alcun peculiare o individualizzato rischio. Richiamava quanto risultante dal sito della Farnesina e dall’ultimo rapporto di Amnesty International per concludere che la situazione in Bangladesh, per quanto difficile e attraversata da forti tensioni politiche e religiose, non registra la presenza di gruppi terroristici armati, nè è teatro di violenza indiscriminata, nè il ricorrente ha denunciato specifiche connivenze della polizia locale.

4. Negava poi la protezione umanitaria D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6 richiesta in via subordinata, ritenendo insussistente la ricorrenza di una condizione di specifica vulnerabilità del richiedente, in quanto il fatto che egli fosse titolare di un contratto di lavoro quale addetto al montaggio e smontaggio (da ultimo prorogato al 22/11/2017) non costituiva elemento tale da farlo ritenere particolarmente vulnerabile in caso di rimpatrio, nè evenienza da cui desumere l’attuale sussistenza di esigenze umanitarie.

5. Per la cassazione del decreto M.J. ha proposto ricorso, affidato a due motivi; il Ministero dell’Interno ha depositato atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. Come primo motivo di ricorso il richiedente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8. Lamenta che il giudice di merito sia venuto meno al dovere di cooperazione nell’accertamento dei fatti. Il giudice di prime cure avrebbe infatti valutato la situazione del paese d’origine in modo generico e inadeguato, sulla base di un non meglio identificato “sito della Farnesina” e limitandosi a richiamare genericamente l’ultimo rapporto di Amnesty International, senza indagare se alla violenza diffusa e indiscriminata sia contrapposto alcun anticorpo dalle autorità statali.

7. Tali osservazioni, sostiene, possono essere valide anche per la protezione umanitaria, la quale può essere riconosciuta anche in caso di temporanea impossibilità di rimpatrio a causa dell’insicurezza del paese o della zona di origine, non riconducibile alle previsioni del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e non solo nei casi individuati dal Tribunale di Campobasso.

8. Come secondo motivo deduce l’omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5 per non avere il Tribunale valutato compiutamente la situazione personale del richiedente e la documentazione prodotta in atti, in particolare in relazione all’attività lavorativa e all’esistenza di un contratto di lavoro. Sostiene che i seri motivi di carattere umanitario oppure risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano (D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5,comma 6, nel testo operante ratione temporis) alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari non vengono predeterminati dal legislatore e che il parametro dell’inserimento sociale e lavorativo risultante dalla documentazione sopra richiamata avrebbe potuto essere valorizzato come presupposto per tale tipo di protezione, potendo concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale che merita di essere tutelata attraverso il riconoscimento di un titolo di soggiorno che protegga il soggetto dal rischio di essere rimesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali. Sostiene quindi che il giudice di merito avrebbe dovuto effettuare una comparazione tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e il vissuto prima della partenza cui si troverebbe esposto in caso di rimpatrio, concedendo la richiesta protezione quando fosse risultata un effettiva incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa.

9. Il primo motivo è infondato.

Il Tribunale ha adempiuto all’obbligo di cooperazione istruttoria officiosa allo scopo di escludere l’esistenza nel paese di origine del richiedente di una condizione di tensione interna derivante da conflitti armati di tale virulenza da esporre ad un danno grave la vita di chiunque per il solo fatto della presenza in quel luogo, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2,lett. g) e lo ha fatto correttamente attingendo le informazioni sul paese d’origine del richiedente, ritenute esaurienti e tra loro coerenti, dal sito della Farnesina e dall’ultimo rapporto di Amnesty international.

10. Non vi è luogo a dubitare dell’attendibilità di tali fonti.

Deve infatti darsi continuità al principio di diritto formulato da questa Corte negli arresti n. 11106, 11105 e 11103 del 19.4.2019, relativi a fattispecie analoga, secondo il quale: “In tema di accertamento delle condizioni di legge per il riconoscimento della protezione internazionale, ed in particolare della protezione sussidiaria, il dovere di cooperazione istruttoria officiosa che incombe sulle Autorità decidenti – ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27,comma 1-bis, – circa la situazione del Paese di origine del richiedente, è correttamente adempiuto attingendo le necessarie informazioni anche dai rapporti conoscitivi elaborati dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (“reports”), integrando gli stessi fonti qualificate, sia perchè equiparati a quelli elaborati da altri organismi riconosciuti come di comprovata affidabilità, sia perchè provenienti da un dicastero istituzionalmente dotato di competenze, informative e collaborative, nella materia della protezione internazionale”.

11. Nel richiamato arresto si è infatti argomentato che si tratta di interpretazione della disposizione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 contro la quale militano plurimi argomenti di ordine testuale, sistematico e logico. L’analisi dell’enunciato normativo, che giustappone il Ministero degli Affari esteri all’UNHCR, all’EASO, ad altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello internazionale, depone già per la piena equiparazione dei dati conoscitivi forniti dal Ministero degli Affari Esteri a quelli tratti dalle altre fonti qualificate enumerate nel richiamato contesto dispositivo. Ma tale rilievo testuale trova sostegno in altri indici normativi: segnatamente in quello offerto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2-bis introdotto dal D.L. n. 113 del 2018, conv. in L. n. 132 del 2018 – che ha attributo proprio al Ministro degli Affari Esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con i Ministri dell’interno e della giustizia, il compito di adottare, con decreto, l’elenco – suscettibile di essere aggiornato nel tempo – dei Paesi di origine sicuri, valutati come tali sulla base dei criteri di cui al comma 2 cit. art.; come anche in quello ritraibile dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 5, comma 1, che, nell’assegnare alla Commissione nazionale per il diritto di asilo il compito della costituzione e dell’aggiornamento di un centro di documentazione sulla situazione socio-politico-economica dei Paesi di origine dei richiedenti, ha disposto che tale organismo mantenga rapporti di collaborazione con il Ministero degli affari esteri. Si tratta, infatti, di competenze che trovano il proprio fondamento nella possibilità del detto dicastero di usufruire di notizie, affidabili ed aggiornate, sulla situazione interna dei Paesi di origine dei richiedenti la protezione internazionale perchè attinte direttamente non solo dalle rappresentanze diplomatiche dello Stato accreditate presso i Paesi esteri, ma anche da fonti governative di quei paesi e da privilegiati canali informativi internazionali.

12. Peraltro la giurisprudenza, anche di recente, ha statuito che, in tema di protezione sussidiaria dello straniero prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), il giudice, al fine di valutare l’eccezionalità della situazione di conflitto armato esistente nel Paese di origine del richiedente, posta a base della domanda, deve acquisire, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, le informazioni elaborate dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo sulla base dei dati forniti dall’ACNUR e dal Ministero degli Affari Esteri, anche con la collaborazione di altre agenzie ed enti di tutela dei diritti umani operanti a livello nazionale (Cass. n. 25083 del 23/10/2017).

13. Tanto premesso, la delibazione circa l’esclusione – desunta dai dati acquisiti univoci ed esaurienti citati in sentenza- dell’esistenza in Bangladesh di una situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale” (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)) è frutto di un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato può essere censurato esclusivamente nei limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Ne viene che, poichè il suddetto vizio non è stato formalmente denunciato, nè è stato, comunque, indicato alcun fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, il cui esame sarebbe stato omesso e che avrebbe condotto ad una decisione differente, le censure sviluppate sono inammissibili, in quanto dirette a sollecitare una non consentita rivisitazione del giudizio di merito in ordine ai paventati rischi in caso di rientro nel paese di origine.

14. Inammissibile è infine la doglianza sotto il profilo del diniego di protezione umanitaria. Al riguardo, è sufficiente ribadire che, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità (Cass. ord. n. 17072 del 28/06/2018, Cass. sent. n. 4455 del 23/02/2018), non solo l’intrinseca inattendibilità del racconto del ricorrente, affermata dai giudici di merito, costituisce ragione sufficiente per negare anche la protezione di cui trattasi, ma la riscontrata non individualizzazione dei motivi umanitari non può essere surrogata dalla situazione generale del Paese di provenienza, perchè, altrimenti, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma, piuttosto, quella del suo Stato d’origine in termini del tutto generali ed astratti. Nel caso di specie, dunque, mentre la decisione del giudice di merito, ove ha escluso la sussistenza di individualizzate ragioni ostative al rimpatrio, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, la censura spiegata sul punto dal ricorrente è del tutto generica, limitandosi essa a replicare quanto dedotto circa l’insicurezza del paese e della zona di origine, che comporterebbe minaccia di un grave danno alla persona derivante dal forzato rientro.

15. Il secondo motivo è parimenti infondato.

Il Tribunale ha valutato la titolarità da parte del richiedente di un contratto di lavoro subordinato, ma ha ritenuto la circostanza di per sè insufficiente a ritenere al sussistenza di esigenze umanitarie, in assenza di particolare vulnerabilità del richiedente in caso di rimpatrio. La soluzione è coerente con la giurisprudenza di questa Corte, che ha chiarito (v. Cass.23/02/2018, n. 4455 e successive conformi) che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, (nel testo operante ratione temporis) al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza.

16. Non può essere dunque riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza, atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 28/06/2018, n. 17072)

17. Le censure del ricorrente, invece, come si è visto, non vanno oltre l’allegazione di una generica criticità della situazione in cui versa il Bangladesh e della titolarità di un rapporto di lavoro subordinato, neppure venendo evidenziate nel motivo specifiche condizioni soggettive di vulnerabilità nè violazione dei diritti umani nel paese di origine.

18. Risulta pertanto irrilevante lo ius superveniens costituito dal D.L. 4 ottobre 2018 n. 113, convertito in L. n. 132 del 2018.

19. Segue coerente il rigetto del ricorso.

20. Non vi è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo svolto l’intimato attività difensiva.

21. Non ricorrono i presupposti per l’applicazione del doppio contributo di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,comma 1 quater, essendo stato il richiedente ammesso al patrocinio a spese dello Stato.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto dell’insussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2019

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