Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21096 del 13/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 13/10/2011, (ud. 10/05/2011, dep. 13/10/2011), n.21096

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA FINANZE in persona del Ministro pro tempore,

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrenti –

contro

A.R., in proprio ed in qualità di titolare dell’omonima

Ditta Albera Bar Pizzeria Ristorante, elettivamente domiciliata in

ROMA VIA MICHELE MERCATI 51, presso lo studio dell’avvocato LUPONIO

ENNIO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 248/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 28/03/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/05/2011 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato TIDORE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato LUPONIO, che ha chiesto

l’inammissibilità;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Rigettando l’appello incidentale proposto dall’Ufficio di Voghera della Agenzia delle Entrate – con il quale era stata impugnata la sentenza della CTP di Pavia in data 9.3.2005 in punto di ammissibilità del ricorso introduttivo di primo grado, privo di sottoscrizione nella copia notificata-, la CTR della Lombardia con sentenza n. 248 in data 28.3.2006, in totale riforma della decisione di primo grado, annullava l’avviso di irrogazione di sanzioni notificato ad A.R. ai sensi del D.L. 22 maggio 2002, n. 12, art. 3, comma 3 con. in L. 2 aprile 2002, n. 73 -in relazione all’illecito impiego di lavoratore dipendente non risultante da scritture contabili o da altra documentazione obbligatoria- ritenendo insufficienti le prove offerte dalla Amministrazione finanziaria con il verbale di constatazione elevato dall’Ufficio di Voghera in data 26.10.2002, e dichiarando assorbite nella pronuncia di annullamento gli altri motivi di gravame proposti dalla appellante principale.

I Giudici territoriali rilevavano che l’accertamento, risultante dal PVC, della “-….presenza di un addetto al forno per la preparazione delle pizze, il quale si è allontanato dalla porta posteriore prima della richiesta del documento di identità..” non fosse ex se idoneo a provare l’illecito in quanto:

– le generalità del presunto addetto non erano state acquisite dai verbalizzanti che avrebbero dovuto, ove necessario, avvalersi degli addetti ai Servizi di Polizia – l’asserita attività svolta presso il forno da tale persona non era riscontrata da elementi oggettivi (vicinanza al forno o preparazione di pizze) e quindi era “presunta e non provata” – la conclusione raggiunta dai verbalizzanti non era suffragata dalla condotta della titolare della ditta che, una volta allontanatasi la predetta persona, avrebbe dovuto immediatamente sostituirla con altra addetta al medesimo servizio per proseguire la preparazione delle pizze, circostanza che non risultava accertata dai verbalizzanti – la unica dipendente rivenuta nel locale con la titolare non aveva riferito informazioni sulla presenza di altro dipendente che, come risultava dal verbale di constatazione, prestava lavoro nel locale fin dal primo gennaio dell’anno.

Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate deducendo tre motivi di censura, con atto soscritto dall’avvocato dello Stato T.B. teletrasmesso all’Ufficio di Pavia della Agenzia delle Entrate, autenticato ai sensi della L. n. 383 del 2001, art. 10 dal Direttore dell’Ufficio dott. D.C. e notificato in data 22.6.2006 presso il domicilio eletto dalla intimata.

Resiste con controricorso la A. in proprio e n.q. di titolare della omonima ditta individuale, eccependo in via pregiudiziale la inammissibilità ed improcedibilità del ricorso per violazione degli artt. 360, 365 c.p.c., art. 366 c.p.c., n. 3) e L. n. 664 del 1986, art. 7 e la improponibilità del ricorso per acquiescenza alla sentenza di appello ex art. 329 c.p.c.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Deve preliminarmente dichiararsi ex officio l’inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, per difetto di legittimazione attiva, non avendo assunto l’Amministrazione statale la posizione di parte processuale nel giudizio di appello svoltosi avanti la CTR della Lombardia e definito con sentenza 28.3.2006 n. 248, essendo stata proposta la impugnazione soltanto dalla Agenzia delle Entrate-Ufficio di Voghera, in data successiva all’1.1.2001 (subentro delle Agenzie fiscali a titolo di successione particolare ex lege nella gestione dei rapporti giuridici tributari pendenti in cui era parte l’Amministrazione statale), con conseguente implicita estromissione della Amministrazione statale ex art. 111 c.p.c., comma 3 (cfr. Corte cass. SS.UU. 14.2.2006 n. 3116 e n. 3118).

Non avendo il ricorso proposto dal Ministero comportato aggravio di attività difensiva si ravvisano giusti motivi per compensare tra le parti le spese di lite.

2. La Agenzia delle Entrate affida il ricorso a tre mezzi con i quali censura la sentenza di appello in relazione ai seguenti profili:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c., del D.P.R. n. 633 del 1972, art 52 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo disatteso i Giudici di merito le norme che regolano la speciale efficacia probatoria dei verbali di constatazione redatti in occasione delle verifiche fiscali;

2) illogica e contraddittoria motivazione su un punto di fatto controverso (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), avendo i Giudici di merito ritenuto di escludere ogni rilevanza probatoria all’accertamento dei verbalizzanti:

a) dalla mancanza di informazioni rese dall’unica dipendente rinvenuta nel locale (addetta al servizio bar) sulla presenza di un lavoratore irregolare che dallo stesso verbale risultava in servizio fin dall’inizio dell’anno (e quindi avrebbe dovuto essere bene conosciuto dalla dipendente assunta con regolare contratto), travisando del tutto la circostanza che il riferimento cronologico relativo alla durata del servizio non costituiva una ipotesi di indagine da sottoporre a verifica, ma derivava dalla presunzione legale relativa (a seguito dell’intervento della Corte cost. n. 144/2005) stabilita dal D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3 conv.

L. n. 73 del 2002;

b) dalla circostanza della mancata immediata sostituzione dell'”addetto alle pizze” eclissatosi con altro lavoratore da parte della titolare della ditta, senza tenere conto della irragionevolezza di tale comportamento che si sarebbe risolto in una ammissione di colpa da parte della stessa contribuente;

c) dall’aver attribuito, in violazione della norma attributiva della efficacia probatoria privilegiata agli atti pubblici, alla espressione “addetto al forno” contenuta nel PVC un significato valutativo anzichè descrittivo, in quanto tale necessitante di riscontri obiettivi non desumibili dal verbale;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo violato i Giudici di merito le regole in tema di prova per presunzioni, ritenendo necessario una ulteriore prova oltre al verbale già di per sè dotato di efficacia probatoria privilegiata.

3. La resistente con il controricorso ha eccepito la inammissibilità ed improcedibilità del ricorso per violazione degli artt. 360, 365 c.p.c., dell’art. 366 c.p.c., n. 3) e della L. n. 664 del 1986, art. 7; la improponibilità del ricorso per acquiescenza alla sentenza di appello ex art. 329 c.p.c. avendo l’Amministrazione in data 10.4.2006 – anteriore alla notifica del ricorso – provveduto ad annullare e sgravare la cartella di pagamento emessa per la riscossione della sanzione dopo la sentenza di primo grado.

Ha inoltre richiesto alla Corte di dichiarare la inammissibilità delle dichiarazioni dei verbalizzanti, trasfuse nel PVC, in quanto assimilabili a “prove testimoniali” scritte e dunque inammissibili nel giudizio tributario ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4.

Ha controdedotto nel merito, rilevando la infondatezza della pretesa sanzionatoria per assoluta insufficienza probatoria, lamentando gravi lacune nella istruttoria condotta dai verbalizzanti durate l’accesso e concludendo adesivamente alla motivazione dei Giudici di appello.

In subordine ha eccepito la illegittimità costituzionale della norma sanzionatoria per lesione degli artt. 3 e 27 della Carta fondamentale e la violazione del principio di legalità L. n. 689 del 1981, ex art. 1 essendo stata irrogata la sanzione anche per il periodo gennaio-marzo 2002 antecedente la entrata in vigore della L. n. 73 del 2002.

4. Le eccezioni di inammissibilità del ricorso, in quanto notificato privo della sottoscrizione in originale da parte del difensore e della procura speciale, non risultando neppure la iscrizione del difensore all’albo speciale ex art. 365 c.p.c., e comunque per violazione del disposto della L. 15 ottobre 1986, n. 664, art. 7 -che richiede la sottoscrizione dell’avvocato dello Stato ricevente per la attestazione di conformità dell’atto all’originale teletrasmesso-, sono manifestamente infondate.

In tema di contenzioso tributario, dopo la costituzione, disposta dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, e divenuta operativa l’1 gennaio 2001 (D.M. 28 dicembre 2000, ex art. 1), delle agenzie fiscali, alle quali sono trasferiti i rapporti giuridici, relativi alla gestione delle funzioni già esercitate dai dipartimenti delle entrate, le agenzie medesime possono avvalersi, per la rappresentanza in giudizio, ex art. 72 del citato D.Lgs., del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, secondo la disciplina di cui al R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 43. Ai sensi di quest’ultima disposizione, qualora sussista autorizzazione di legge, la rappresentanza e la difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato sono assunte in via organica ed esclusiva (eccettuati i casi di conflitto d’interessi con lo Stato o le regioni e fatta salva la facoltà delle amministrazioni, in casi speciali, di non avvalersi del detto patrocinio), con la conseguenza che è ammissibile il ricorso per cassazione proposto – dopo l’1 gennaio 2001 – dall’Agenzia delle Entrate, rappresentata, senza la necessità di speciali autorizzazioni, dall’Avvocatura generale dello Stato.

(cfr. Corte cass. 5^ sez. 13.5.2003 n. 7329; id. 9.11.2004 n. 21301;

id. 9.6.2005 n. 12152; id. 2.11.2006 n. 24623).

La abilitazione al patrocinio avanti la Corte di cassazione è attribuita agli avvocati dello Stato ex lege -non richiedendosi, ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 17, art. 39 la iscrizione nell’albo speciale, ex art. 82 c.p.c., u.c., tenuto dal Consiglio nazionale forense ai sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 33 -, non occorrendo neppure il conferimento del mandato speciale di cui all’art. 83 c.p.c., comma 2 e all’art. 365 c.p.c., atteso il chiaro disposto del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 1, comma 2, secondo il quale “gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni dinanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non hanno bisogno di mandato, neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità”, e la norma del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1612, art. 1, comma 1, (recante il regolamento di esecuzione del TU delle leggi e delle norme giuridiche sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato) poi riprodotta nella L. 4 aprile 1979, n. 103, art. 9, comma 1 (recante modifiche all’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato) la quale dispone che “L’Avvocatura, generale dello Stato provvede alla rappresentanza e difesa delle amministrazioni nei giudizi davanti alla Corte costituzionale, alla Corte di cassazione, al Tribunale superiore delle acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni, anche amministrative, ed ai collegi arbitrali con sede in Roma, nonchè nei procedimenti innanzi a collegi internazionali o comunitari”.

Del pari infondata è la eccezione di inammissibilità del ricorso per violazione dei requisiti per la notificazione di atti teletrasmessi prescritti dalla L. n. 664 del 1986, art. 7.

Premesso che la norma della L. 15 ottobre 1986, n. 664, art. 7, comma 3, laddove, allo scopo di accelerare le operazioni di trasmissione degli atti relativi agli affari contenziosi, consultivi ed amministrativi”, consente all’Avvocatura dello Stato di avvalersi dei mezzi di telecomunicazione, e ritiene, poi, sufficiente al successivo comma quarto, per il soddisfacimento dell’obbligo di sottoscrizione, la sottoscrizione dell’avvocato dello Stato ricevente, “purchè dalla copia fotoriprodotta risultino l’indicazione e la firma dell’estensore dell’atto originale”, deve reputarsi applicabile anche agli atti giudiziari per i quali è richiesta la notificazione, non essendo di ostacolo a tale interpretazione – conforme sia alla lettera della norma (che fa riferimento agli atti relativi al contenzioso) che alla sua ratio – l’art. 137 c.p.c., che riserva all’ufficiale giudiziario di controllare la conformità dell’atto da notificarsi all’originale, in quanto, nella specie, con la sottoscrizione dell’avvocato dello stato ricevente viene conferita alla copia fotoriprodotta la stessa funzione dell’originale (cfr.

Corte cass. 1^ sez. 10.9.1999 n. 9642; id. 5^ sez. 9.8.2006 n. 18025), occorre rilevare che con orientamento costante questa Corte ha ritenuto che nell’ipotesi in cui l’Avvocatura dello Stato si avvalga dei mezzi di telecomunicazione per la trasmissione a distanza degli atti relativi ad affari contenziosi, la L. 18 ottobre 2001, n. 383, art. 10, comma 2 secondo cui l’obbligo di sottoscrizione dell’avvocato dello Stato ricevente “è soddisfatto anche con la firma del titolare dell’Ufficio ricevente, ovvero di un suo sostituto, purchè nella copia fotoriprodotta risultino l’indicazione e la sottoscrizione dell’estensore dell’atto originale”, trova applicazione tanto nei giudizi di merito che nel giudizio di cassazione, non ostandovi il richiamo operato dalla disposizione in parola alla L. 15 ottobre 1986, n. 664, art. 7, comma 3, atteso che quest’ultima norma si limita a prevedere la trasmissione degli atti dell’Avvocatura dello Stato mediante mezzi di telecomunicazione, senza porre limiti in relazione al grado o alla fase del giudizio. Ad un tal riguardo, la modifica introdotta nella disciplina dalla L. n. 383 del 2001, art. 10 nell’ambito di interventi di semplificazione degli adempimenti, nel disporre che l’obbligo della sottoscrizione è soddisfatto “anche” con la firma del funzionario titolare, è diretta a consentire, in via alternativa, che la sottoscrizione possa essere apposta, oltre che dall’avvocato dello Stato ricevente – come già previsto dalla L. n. 644 del 1986, art. 7, comma 4, – dal funzionario titolare dell’ufficio ricevente (cfr. Corte cass. 5^ sez. 10.9.2004 n. 18277; id. 20.9.2004 n. 18874; id. 21.5.2008 n. 12882).

Nella specie l’atto teletrasmesso risponde ai requisiti di cui alla L. n. 664 del 1986, art. 7, comma 4 in quanto reca la sottoscrizione dell’avvocato dello Stato che ha redatto il ricorso, ed altresì ai requisiti di cui alla L. n. 383 del 2001, art. 10, comma 2 recando la attestazione di conformità del funzionario dell’Ufficio ricevente, con la conseguenza che l’atto così notificato “è equipollente ad ogni effetto giuridico all’originale”.

Infondata è anche la eccezione di improponibilità del ricorso formulata sul presupposto della prestata acquiescenza alla sentenza di appello da parte della Amministrazione finanziaria con il comportamento incompatibile con la volontà di proporre la impugnazione determinato dall’annullamento di ufficio della cartella di pagamento e della iscrizione a ruolo, effettuata dopo la sentenza di primo grado, della somma pretesa a titolo di sanzione pecuniaria.

Vale osservare che l’acquiescenza ad una sentenza, con effetti preclusivi della sua impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 1, si determina soltanto nel caso in cui il soggetto legittimato abbia posto in essere atti o fatti ai quali sia possibile desumere in modo assolutamente preciso ed inequivoco il suo proposito di non voler contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, con la conseguenza che l’acquiescenza rimane esclusa le volle in cui non possa ravvisarsi una volontà abdicativa dell’esercizio del diritto alla impugnazione, ed anzi ai comportamenti del soggetto possano attribuirsi finalità diverse ed oggettivamente giustificabili (cfr.

Corte cass. 11 sez. 14.10.1998 n, 10174; con riferimento in particolare alla acquiescenza tacita; Corte cass. 5^ sez. 26.1.2004 n. 1266; id. 21.1.2008 n. 1156), non potendo quindi bastare un atteggiamento di mera tolleranza contingente e neppure il compimento di atti resi necessari od opportuni, nell’immediato, dall’esistenza del provvedimento giurisdizionale, in una logica soggettiva di riduzione del pregiudizio, ma che non per questo escludono l’eventuale coesistente intenzione dell’interessato di agire poi per l’eliminazione degli effetti del provvedimento stesso (cfr. Corte cass. SU 20.5.2010 n. 12339).

Ne consegue, con specifico riferimento al processo tributario, che deve ritenersi inidonea ad integrare acquiescenza preclusiva dell’impugnazione ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 329 cod. proc. civ. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 39 la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole al contribuente da parte della P.A., anche quando la riserva d’impugnazione non venga dalla medesima a quell’ultimo resa nota, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione (cfr. Corte cass. 5^ sez. 20.8.2004 n. 16460; id.

5^ sez. 20.9.2005 n. 18526 – in caso di pagamento, in sede di ottemperanza, della somma riconosciuta al contribuente in sentenza, trattandosi di adempimento non spontaneo-), e tanto più deve ritenersi insussistente una condotta abdicativa nella fattispecie in esame in cui l’Amministrazione ha adempiuto ad un obbligo di legge, essendo venuto meno, in conseguenza della sentenza di appello favorevole al contribuente, il titolo per il mantenimento della iscrizione a ruolo del credito (correttamente iscritto a ruolo per la somma esigibile, in base alla decisione di prime cure di rigetto del ricorso avverso l’atto irrogativo, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 19, comma 1 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, commi 1 e 2) e per procedere alla riscossione coattiva della somma.

Il primo ed il terzo motivo di ricorso, con i quali viene dedotto il vizio di violazione di norme di diritto, sono inammissibili.

L’art. 366 bis c.p.C. (norma successivamente abrogata dalla L. 18 giugno 2009, n. 69), art. 47, comma 1, lett. d) che ha previsto, a pena di inammissibilità, l’onere di formulazione del “quesito di diritto” a conclusione di ciascun motivo del ricorso per cassazione con il quale si denuncino i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1 nn. 1)-4), nonchè l’analogo onere di chiara indicazione del fatto controverso a conclusione del motivo concernente i vizi motivazionali della sentenza impugnata ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è stato introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 e tale norma trova applicazione ai ricorsi proposti avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto (2.3.2006).

Nella specie la sentenza della CTR della Lombardia oggetto di ricorso per cassazione risulta pubblicata mediante deposito in segreteria in data 28.3.2006, ricadendo pertanto il ricorso proposto dalla Agenzia delle Entrate nell’ambito di efficacia della norma processuale sopra richiamata.

La ricorrente in conclusione al primo motivo ha chiesto a questa Corte se “il p.v. di constatazione redatto dai funzionari dell’Agenzia delle Entrate in esito a verifica disposta ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33 è dotato della valenza probatoria prevista dall’art. 2700 c.c. ovvero fa fede fino a querela di falso, quanto ai fatti che gli agenti attestino essere avvenuti in loro presenza”; in calce al terzo motivo ha formulato il seguente quesito se “affinchè possa ritenersi integrata la prova per presunzioni ex art. 2729 c.c. è sufficiente che il collegamento tra il fatto noto e quello ignoto corrisponda ad un criterio di ragionevole consequenzialità secondo l’id quod plerumque accidit.

Non avendo costituito “thema controversum” deciso dalla sentenza impugnata la natura di atto pubblico del verbale redatto dagli agenti verificatori, il primo quesito, cosi come formulato è inammissibile, in quanto si limita ad una asserzione tautologica volta ad ottenere dalla Corte la semplice enunciazione della previsione contenuta nella norma di cui all’art. 2700 c.c. (cfr. Corte cass. SU 2.12.2008 n. 28536) e non assolve pertanto alla funzione nomofilattica di sottoporre al Giudice di legittimità uno specifico problema giuridico da risolvere con l’affermazione di un principio di diritto enucleato dal caso concreto ma dotato di capacità espansiva in quanto volto ad esprimere una “regula iuris” da applicarsi ad una generalità di casi simili.

Ad analoga conclusione deve pervenirsi anche con il quesito formulato in calce al terzo motivo di ricorso, giacche la sua formulazione si esaurisce nella mera enunciazione della consolidata interpretazione della norma dell’art. 2729 c.c. fornita da questa Corte, prescindendo del tutto dal concreto problema da risolvere, non essendo stati specificati nel quesito gli elementi individuanti del caso controverso (con riferimento al fatto accertato costituente la premessa della operazione logica rivolta alla presunzione di conoscenza del fatto ignorato, secondo un criterio di inferenza logica fondato sulla probabilità causale desunta dalla generalizzazione dei dati di esperienza ricavati dalla verifica degli accadimenti constatati in casi analoghi) in relazione al quale viene chiamata ad operare la norma invocata.

Il secondo motivo è anch’esso inammissibile in quanto manca il momento di sintesi omologo alla formulazione del quesito ex art. 366 bis c.p.c. L’articolata esposizione del motivo ruota, infatti, intorno agli argomenti logici “ab externo” utilizzati dalla Commissione tributaria Lombarda per coonestare la valutazione di insufficienza probatoria in ordine alla individuazione della persona presente nel locale come lavoratore irregolare alle dipendenze della titolare della ditta.

La ricorrente ritiene inficiata da errore logico la convinzione dei Giudici che la dipendente regolarmente assunta potesse detenere informazioni utili sulla durata del rapporto di lavoro dello sconosciuto lavoratore.

Del pari individua una incongruenza logica nell’aver la CTR attribuito rilevanza alla condotta della titolare della ditta che non ha immediatamente provveduto a reperire altro lavorante.

Orbene tali critiche non inficiano la “ratio decidendi” della sentenza che va invece rinvenuta nel disconoscimento della prova presuntiva della esistenza di un lavoratore irregolare in base alla mera rilevazione della presenza di un soggetto non identificato all’interno del locale commerciale.

Il “momento di sintesi” (id est il nucleo dell’errore logico sul quale si incentra la critica basata sull’argomento decisivo) andava quindi ricercato, non nella pedissequa confutazione dei singoli elementi “ab externo” utilizzati dalla Commissione tributaria, quanto piuttosto nella individuazione (ove esistenti) degli elementi di fatto dotati di capacità dimostrativa – omessi o erroneamente valutati dai Giudici di merito – che se debitamente considerati avrebbero condotto ad una decisione diversa da quella assunta.

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

La Agenzia delle Entrate va condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.

PQM

La Suprema Corte di cassazione:

– dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero della Economia e delle Finanze per difetto di legittimazione attiva, compensando interamente tra le parti le spese di lite;

– dichiara inammissibile il ricorso proposto dalla Agenzia delle Entrate che condanna alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 1.300,00 per onorari di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 10 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2011

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