Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21083 del 07/08/2019

Cassazione civile sez. trib., 07/08/2019, (ud. 10/04/2019, dep. 07/08/2019), n.21083

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Cirillo Ettore – Presidente –

Dott. Locatelli Giuseppe – Consigliere –

Dott. Napolitano Lucio – Consigliere –

Dott. Condello Pasqualina – Consigliere –

Dott. Gilotta Bruno – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1246/2013 proposto da:

CNU s.r.l., rappresentata e difesa dagli avv. Ines Nappi e Francesco

Forte del foro di Napoli, nonchè dall’avv. Clelia Scioscia, presso

quest’ultimo domiciliata in Via Diaz n. 115, Portici (NA);

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio

legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato;

– controricorrente –

per l’annullamento della sentenza n. 241/17/12 del Commissione

Tributaria Regionale della Campania emessa inter partes il

29.6.2012.

Fatto

RILEVATO

che:

Con avviso di accertamento n. (OMISSIS) l’Ufficio di Casoria dell’Agenzia delle Entrate accertò alla C.N. U. s.r.l., ai fini i.re.s., i.r.a.p. e i.v.a., per l’anno 2005, maggiori ricavi per Euro 724.950,00. L’accertamento era stato emesso sulla base delle gravi irregolarità emerse da un’attività di controllo e all’esito di indagini bancarie.

L’accertamento, impugnato con ricorso davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, fu da questa confermato con sentenza che, appellata alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, è stata da questa a sua volta confermato.

La società aveva dedotto in primo e sostanzialmente ribadito in secondo grado, l’illegittimità delle indagini bancarie, in quanto elaborate in assenza del contraddittorio con la contribuente; l’illegittimità dell’accertamento, perchè non vi era allegato il decreto autorizzativo; l’errato calcolo della base imponibile, perchè avvenuto prescindendo dal regime agevolato previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, commi 7 e 8 e perchè fondato esclusivamente su movimentazioni bancarie non confortate da altri elementi di prova.

Ricorre per la cassazione di questa sentenza la CNU s.r.l. per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, commi 7 e 8 e per violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2.

Al ricorso ha resistito l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

Per la trattazione è stata fissata l’adunanza in Camera di consiglio del 10 aprile 2019, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e dell’art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo la ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, commi 7 e 8”, che la sentenza avrebbe disapplicato ignorando che l’attività esercitata – nota all’Ufficio in ragione delle intestazioni delle fatture esaminate e di quanto dichiarato dall’amministratore della società in sede di accesso – aveva ad oggetto il commercio all’ingrosso e al dettaglio di metalli e minerali metalliferi, compresi i semilavorati, la cessione dei quali non produceva per il cedente base imponibile soggetta ad i.v.a..

La sentenza impugnata su questo punto ha argomentato che, “come già precisato dai giudici di prime cure, dalla fattura (OMISSIS) del (OMISSIS), non inserita nei ricavi 2003, si ricava che l’attività svolta è quella di montaggio e smontaggio di impianti che normalmente sconta un’I.v.a. al 20%; pertanto l’attività della C.N. U. S.r.l. non rientra tra quelle che possono usufruire del regime di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, comma 7, (cessioni di rottami, cascami e avanzi di metalli ferrosi e dei relativi lavori)”. Questo argomento attribuisce all’attività effettivamente esercitata dalla ricorrente natura quanto meno duplice e come tale non sempre soggetta al particolare regime impositivo previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 74, commi 7 e 8.

La ricorrente non coglie la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, tralasciando questo punto decisivo della decisione e, senza dedurre una violazione di norme di diritto sostanziale, introduce una questione di fatto sull’attività svolta che esula dalla cognizione di questa Corte.

Con il secondo motivo denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39,comma 2″ in quanto la sentenza avrebbe erroneamente ritenuto avviato il contraddittorio a mezzo dell'”espediente” dell’accertamento con adesione”; e così finendo con l’attribuire alle risultanze bancarie – in mancanza di un contraddittorio effettivo – valore probatorio pieno.

Neppure questo motivo coglie pienamente la “ratio” della motivazione della sentenza impugnata.

La Commissione Tributaria Regionale aveva rilevato “innanzitutto che non esiste in capo all’Amministrazione, in caso di indagini bancarie, nessun obbligo di convocazione preventiva del contribuente; la norma non impone all’A.F. l’obbligo di uno specifico e previo invito, ma le attribuisce una facoltà di cui può avvalersi o meno. Una costante giurisprudenza inoltre… ha confermato la legittimità dell’accertamento, basato su indagini bancarie, redatto anche senza il contraddittorio preventivo. Nel caso di specie, tuttavia la società contribuente, attraverso una procedura pre-accertativa ai sensi del D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, comma 1/bis, col ricorso all’accertamento con adesione, era stata messa nelle condizioni sia di conoscere le pretese dell’Ufficio, che di esercitare la facoltà di prova attraverso l’esibizione di documentazione giustificativa. Il rappresentante legale, tuttavia, in sede di verbale di contraddittorio dichiarava di rinunciare al contraddittorio stesso, riservandosi, in caso di susseguenti accertamenti, di ricorrere nelle sedi competenti”.

Con questa motivazione la Commissione Tributaria Regionale ha quindi correttamente applicato la disciplina in tema di indagini bancarie, affermando che non è (ovviamente) previsto un contraddittorio “preventivo”: come tale intendendo un contraddittorio da instaurarsi “prima” dell’effettuazione delle indagini, secondo la prospettazione della contribuente quale risulta dalla parte espositiva della sentenza impugnata e, soprattutto, da quella dell’odierno ricorso (pag. 2: “1) nullità dell’avviso di accertamento in quanto fondato su dati bancari illegittimamente acquisiti…”); ha poi aggiunto che, comunque, il contribuente avrebbe potuto, in sede di invito all’accertamento per adesione, esporre le proprie ragioni e dare prova contraria in ordine alle emergenze bancarie, anzichè invece dichiarare “in sede di verbale di contraddittorio… di rinunciare al contraddittorio stesso riservandosi, in caso di susseguenti accertamenti, di ricorrere nelle sedi competenti”: con ciò uniformandosi al principio secondo cui “in tema di accertamento con adesione, l’instaurazione del contraddittorio preventivo da parte del Fisco, ai sensi del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 5, assolve alla funzione di garantire la necessaria trasparenza dell’azione amministrativa e di consentire al contribuente un’immediata cognizione circa la vertenza (Cass. 5 marzo 2018, n. 5128).

Così correttamente interpretata, la decisione impugnata non viola il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, essendo stato l’accertamento fondato su indagini bancarie espressamente consentite dall’art. 32, comma 1, n. 7 e debitamente autorizzate, e preceduto dall’invito al contraddittorio declinato dalla stessa contribuente.

All’interno e nel prosieguo di questo motivo la ricorrente deduce la mancata deduzione dei costi sostenuti nella determinazione del reddito d’impresa; costi per il calcolo dei quali “sarebbe bastato verificare il coefficiente di redditività dell’azienda o il rapporto che tra costi e ricavi nell’esercizio in esame”.

Si tratta di questione che non risulta posta nel corso del giudizio di merito ed è pertanto inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.200,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 10 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2019

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