Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21081 del 13/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 13/10/2011, (ud. 19/04/2011, dep. 13/10/2011), n.21081

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. PERSICO Mariaida – rel. Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27018/2006 proposto da:

LA COLONIALE COMMISSIONARIA ZUCCHERI DI MALTINTI GIUSEPPE & C.

SAS in

persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA via VARRONE 9, presso lo studio dell’avvocato

MARANELLA Stefano, che lo rappresenta e difende, giusta delega in

calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 51/2005 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 27/09/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

19/04/2011 dal Consigliere Dott. MARIAIDA PERSICO;

udito per il ricorrente l’Avvocato MERLA per delega Avvocato

MARANELLA, che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato GIACOBBE, che ha chiesto

l’inammissibilità e in subordine rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società La Coloniale Commissionaria Zuccheri s.a.s. di Maltinti Giusepppe e C. ricorre in cassazione avverso la sentenza di cui in epigrafe resa dalla Commissione Tributaria Regionale competente, con la quale era stato rigettato l’appello dalla stessa proposto avverso la sentenza di primo grado. Quest’ultima aveva respinto i ricorsi, previa riunione degli stessi, proposti da essa contribuente contro n. tre avvisi di rettifica Iva relativi agli anni d’imposta 1995, 1996 e 1997, che traevano origine da un processo verbale della Guardia di Finanza nel quale si imputava alla contribuente: – di aver effettuato nel 1995 alla società CEAS della Repubblica di S. Marino false esportazioni di zucchero, in effetti destinato – previa sostituzione dei relativi documenti – a società napoletane; – di aver effettuato negli anni 1995 e 1997 cessioni non imponibili mediante l’utilizzo di fatture e lettere d’intenti ideologicamente false servendosi di società di fatto inesistenti; – di aver omesso la fatturazione di ricavi corrispondenti all’utilizzo del plafond di esportatore abituale, ottenuto nel 1995 per le cessioni in sospensione d’imposta alla società CEAS di (OMISSIS); – di aver effettuato dichiarazioni Iva con dati infedeli e di aver tenuto irregolarmente i registri contabili.

Il ricorso è fondato su di un triplice motivo ed è illustrato da successiva memoria. Gli intimati hanno controdedotto.

Diritto

MOTIVAZIONE

1. In via preliminare, si deve rilevare l’inammissibilità, per difetto di legittimazione, del ricorso proposto avverso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, per non essere stato lo stesso parte del giudizio di appello, instaurato con ricorso della sola Agenzia delle Entrate (nella sua articolazione periferica) dopo il 1 gennaio 2001, con conseguente implicita estromissione dell’Ufficio periferico del Ministero (ex plurimis, Cass. S.U. n. 3116/06; Cass. 24245/04).

2. Con il primo motivo del ricorso la contribuente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 71, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per avere il giudice d’appello, aderendo passivamente al teorema dell’Agenzia e senza considerare che la presunta triangolazione non esonerava affatto dall’Iva, ritenuto l’intento evasivo in base a meri indizi non controllati e non controllabili.

2.1 La censura è infondata.

Le contestazioni mosse si risolvono, infatti, da una parte in una apodittica affermazione di contrasto tra la norma indicata e la sentenza impugnata, senza alcuna specifica indicazione delle affermazioni di diritto, contenute nella sentenza, che implicherebbero tale contrasto (Cass. n. 5076/2007), e dall’altra parte in un’altrettanto vaga doglianza sulla motivazione, censurata solo con il richiamo all’art. 360 c.p.c., n. 5. Manca in effetti l’individuazione delle ragioni per le quali il dedotto vizio della motivazione la renda inidonea a giustificare la decisione e tanto si pone in contrasto con il principio affermato da questa Corte (Cass. 16459/2004; Cass. SS.UU. n. 5802/1998) secondo il quale il vizio di motivazione, deducibile in sede di legittimità, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale desumibile dalla sentenza, sia ravvisabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può, invece, consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, posto che la citata norma conferisce alla Corte di Cassazione solo il potere di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui spetta individuare le fonti del proprio convincimento, scegliendo tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. n. 4891/2000; n 2446/2000).

2.2 In effetti, nel caso di specie, il giudice a quo, previo accertamento in fatto sorretto da articolata ed idonea motivazione, ha affermato che la società ricorrente “ha poi utilizzato il plafond accumulato con tali false esportazioni per effettuare nel successivo anno 1996 acquisti in sospensione d’imposta. In altre parole le cessioni alla CEAS fungevano da accumulatore di plafond per acquisti in esenzione d’imposta”, ha in tal modo motivato sulle ragioni per le quali la ricorrente non vendeva direttamente alle società italiane.

2.3 Il motivo in esame va pertanto rigettato.

3. Con il secondo motivo la ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, degli artt. 2700, 2712 e 2719 c.c..

La censura è in parte inammissibile ed in parte infondata.

3.1 La prima parte della stessa, nella quale si censura il difetto di motivazione degli avvisi di rettifica impugnati, è inammissibile. E’ sufficiente ribadire, al riguardo, che il ricorso per Cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass. 17 luglio 2007 n. 15952; Cass. 6 giugno 2006 n. 13259; Cass. 15 marzo 2006 n. 5637; Cass. 15 febbraio 2003 n. 2312); nonchè il principio per cui col ricorso in Cassazione si impugna solo la sentenza di appello, la quale costituisce l’unico oggetto del giudizio di legittimità (Cass. n. 9993/03; n. 8265/02; n. 8852/01; n. 3986/1999; n. 5083/1998) e non anche direttamente l’avviso di accertamento.

3.2 La seconda parte, con la quale si censura il vizio di omessa pronuncia e motivazione sulla conformità della documentazione prodotta dall’ufficio, è inammissibile sia perchè prospetta un vizio motivazionale in diritto, che è irrilevante; sia perchè richiama l’art. 2712 c.c., mentre nell’ambito del processo tributario, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, trova applicazione il disposto del cit. D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 4 e 5, norma specifica; sia ancora per difetto di autosufficienza non avendo nè indicato nè trascritto gli atti processuali contenenti il disconoscimento specifico (e non generico, ai sensi dell’art. 22 richiamato, come interpretato costantemente da questa Corte. Cass. 9773 del 2009, n. 22770 del 2006) delle copie dei documenti prodotti dall’ufficio.

3.3 La terza parte – con la quale si censura l’omesso esame in ordine alla presenza del decreto autorizzativi del P.M. con riferimento alle prove che risultano recepite da atti di polizia giudiziaria -, e la quarta parte – con la quale si censura la violazione dell’art. 116 c.p.c., essendo state utilizzate prove raccolte in un procedimento penale senza che risulti l’autorizzazione del P.M. al rilascio e l’attestazione di conformità – sono inammissibili trattandosi di questioni nuove, implicanti un accertamento di fatto, sollevate per la prima volta in sede di legittimità (Cass. n. 20518 del 2008; n. 4843 del 2007; n. 28480 del 2005; n. 15673 de 2004).

3.4 Il motivo in esame va pertanto rigettato.

4. Con il terzo motivo del ricorso la ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 e dell’art. 2697 c.c., oltre vizio di motivazione per avere il giudice a quo sia utilizzato documenti e prove, rese in altra sede senza l’intervento del contribuente ed acquisite illegittimamente, sia basato la propria decisione su indizi apoditticamente qualificati come gravi, precisi e concordati.

4.1 La censura è infondata: la ricorrente, invero, prospetta l’esame e la confutazione del materiale tutto esaminato dal giudice di merito (fatture soggettivamente inesistenti, rogatorie internazionali, intercettazioni, lettere d’intenti), ma tanto comporta una inammissibile accertamento in fatto, non possibile in sede di legittimità se non come vizio motivazionale. Con riferimento a quest’ultimo, tuttavia, va richiamato il principio sopra enunciato in virtù del quale il vizio di motivazione non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello argomentato dal giudice a quo, posto che la Corte di Cassazione ha solo il potere di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, scegliendo tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

4.2 Il motivo in esame deve pertanto essere rigettato.

5. In virtù di quanto fin qui esposto il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese del giudizio vengono regolate come in dispositivo in applicazione del principio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese di giudizio che liquida in Euro 7.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2011

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