Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21080 del 13/10/2011

Cassazione civile sez. trib., 13/10/2011, (ud. 19/04/2011, dep. 13/10/2011), n.21080

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. PERSICO Mariaida – rel. Consigliere –

Dott. FERRARA Ettore – Consigliere –

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26952/2006 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

SICILIANA LAVORAZIONE CARNI SRL in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso

la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dagli avvocati FIANNACCA GIOVANNI, TODARO NICOLA con studio in

MESSINA VIA TOMMASO CAPRA IS. 301/BIS, (avviso postale), giusta

delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 216/2005 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

MESSINA, depositata il 27/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/04/2011 dal Consigliere Dott. MARIAIDA PERSICO;

udito per il ricorrente l’Avvocato GIACOBBE, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato CATANIA per delega Avvocato

TODARO, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’Agenzia Delle Entrate ricorre per cassazione avverso la sentenza, di cui in epigrafe, resa dalla Commissione Tributaria Regionale competente, con la quale era stato rigettato l’appello da esso Ufficio proposto avverso la sentenza resa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Messina. Quest’ultima aveva accolto il ricorso avanzato dalla società Siciliana Lavorazione Carni s.r.l.

avverso l’avviso di rettifica relativo all’Iva per l’anno d’imposta 1994, emesso a seguito di p.v.c. elevato dalla Guardia di Finanza che aveva rilevato l’indebita detrazione IVA relativamente ad alcune operazioni ritenute soggettivamente inesistenti. Il Giudice dell’appello motiva il suo decisum con l’effettività delle operazioni di vendita della merce e con la irrilevanza per il cessionario della dimostrata qualità di prestanome del cedente, stante l’irripetibilità dell’Iva comunque evasa.

Il ricorso è fondato su duplice motivo.

Il contribuente resiste con controricorso e deposita successiva memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente va esaminata l’eccezione sollevata dalla società resistente che assume la formazione di un giudicato ad essa favorevole discendente dalla sentenza n. 194/26/06 della C.T.R. della Sicilia, depositata il 30.5.2007, non impugnato dall’Agenzia e passata in giudicato (che allega) che, pronunciando sull’avviso di rettifica Iva per l’anno d’imposta 1995 (scaturente dal medesimo verbale della Guardia di Finanza del 4.7.1997) ha rigettato l’appello proposto dall’ufficio contro la sentenza di primo grado, che aveva annullato detto avviso di rettifica.

1.1 Va premesso che con sentenza a Sezioni Unite n. 13916 del 2006 questa Corte ha già affermato la deducibilità e rilevabilità in sede di legittimità del giudicato esterno formatosi successivamente alla conclusione del giudizio di merito, con la possibilità di produrre nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c., la relativa attestazione, come nel caso di specie, fino all’udienza di discussione.

1.2 La suddetta eccezione è tuttavia infondata non potendo trovare applicazione, nella fattispecie in esame l’ulteriore principio enucleato nella medesima citata sentenza delle Sezioni Unite sull’efficacia del giudicato esterno, anche in materia tributaria, con riferimento “all’accertamento compiuto (nella sentenza passata in giudicato) in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause”.

1.3 Come chiarito da questa Corte, infatti, (v. motivazione): “Gli elementi rispetto ai quali opera l’efficacia regolamentare del giudicato tributario sono quelli, e solo quelli, che abbiano un valore condizionante per la valutazione e la disciplina di una pluralità di altri elementi della fattispecie e per la produzione degli effetti previsti dalla norma (o, secondo il linguaggio utilizzato da altra dottrina, quegli elementi che costituiscano i referenti per l’applicazione di specifiche discipline)”.

Tali possono essere considerati gli “elementi preliminari” nella costituzione della fattispecie tributaria, i quali, per la loro strutturale propedeuticità (o strumentalità) al riconoscimento di un determinato diritto, sono naturalmente correlati ad un interesse protetto che ha il carattere della durevolezza e, quindi, all’efficacia regolamentare del giudicato che su di essi si sia formato.

Ciò evidentemente esclude “che il giudicato relativo ad un singolo periodo d’imposta sia idoneo a “fare stato” per i successivi periodi in via generalizzata ed aspecifica: non ad ogni statuizione della sentenza può riconoscersi siffatta idoneità, bensì, come conviene un’autorevole dottrina, solo a quelle che siano relative a “qualificazioni giuridiche” o ad altri eventuali “elementi preliminari” rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere della durevolezza nel tempo”.

1.4 Nel caso di specie non sono in discussione qualificazioni giuridiche o elementi preliminari dell’obbligazione tributaria aventi il carattere della durevolezza nel tempo, bensì, vertendosi in materia di operazioni delle quali l’ufficio contesta l’inesistenza soggettiva, valutazioni sulla esistenza o meno, ai fini della normativa Iva, delle suddette specifiche operazioni e, comunque, sulla rilevanza che la categoria dell'”inesistenza soggettiva” possa avere sulla detrazione dell’Iva relativa. Da ciò consegue l’inefficacia sulla presente controversia del giudicato esterno invocato dalla resistente.

2. Con il primo motivo del ricorso l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e pone il seguente quesito di diritto:

“Se il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, comma 2, anche in considerazione di quanto previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 1, possa interpretarsi nel senso che una fattura che riporta operazioni commerciali realmente avvenute ma con un soggetto emittente la fattura diverso rispetto a chi ha realmente ceduto la merce sia da considerarsi inesistente e dunque non consenta la detrazione dell’Iva da parte del cessionario”.

2.1 La censura è fondata secondo il principio già enucleato da questa Corte, con giurisprudenza costante, affermando (ex plurimis:

Cass. n. 735 del 2010) “In tema di IVA, è indebita la detrazione d’imposta relativa a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, anche se la merce sia stata realmente acquistata ed i costi risultino effettivamente sostenuti, non essendo la provenienza della merce stessa da soggetto diverso da quello figurante sulle fatture una circostanza indifferente ai fini dell’IVA: da un lato, infatti, la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, per conseguenza, sull’entità dell’imposta legittimamente detraibile dall’acquirente e, dall’altro, il diritto alla detrazione non sorge comunque per il solo fatto dell’avvenuta corresponsione dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza all’impresa, requisito mancante in relazione all’IVA corrisposta al soggetto interposto, trattandosi di costo non inerente all’attività istituzionale dell’impresa, in quanto potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da rompere il detto nesso di inerenza”.

Ed ancora (Cass. n. 5912 del 2010) “In tema di i.v.a., l’emissione della fattura da parte di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione non è riconducibile alla fattispecie, prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 41, comma 3, dell’emissione di fattura recante indicazioni incomplete o inesatte, nè a quella, prevista dall’art. 21, comma 2, n. 1, del medesimo D.P.R., di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui è effettuata l’operazione, ma va qualificata come fatturazione di un’operazione soggettivamente inesistente, per la quale dev’essere versata la relativa imposta, ai sensi dell’art. 21 cit., non essendo consentita la detrazione di fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto riguardante l’operazione fatturata. Ai fini della rettifica i.v.a., non è sufficiente addurre la generica circostanza che l’impresa abbia comunque acquistato i beni fatturati da soggetti differenti da quelli indicati in fatture, atteso che non viene fornito alcun elemento certo e minimamente rassicurante circa la correttezza della quantificazione del costo indicato, della sua inerenza e della sua riferibilità all’anno di imposta in contestazione”.

2.2 Nel caso di specie l’impugnata sentenza, non facendo buon regolamento del principio sopra riportato, assume “la cessione di beni effettuata da una società che, in qualità di prestanome, pone in essere un’effettiva operazione rilevante ai fini Iva non può mai essere qualificata come operazione inesistente”.

Tale motivo va pertanto accolto.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 654 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, in relazione all’art. 360, n. 3, e pone il seguente quesito: “se la sentenza penale favorevole al contribuente possa avere un qualche effetto ne giudizio tributario quando si basi su elementi del tutto estranei alla fattispecie impositiva riguardando in particolare esclusivamente l’elemento psicologico dei trasgressore”.

3.1 Tale motivo è inammissibile, poichè, a fronte della sopra riportata ratio decidendi della sentenza impugnata, il quesito formulato si rivela del tutto inconferente, in quanto la risposta al medesimo, anche se positiva per la ricorrente, risulterebbe comunque irrilevante, per inidoneità a risolvere la questione decisa nella sentenza impugnata (Cass., Sez. un., n. 8466 e 11650 del 2008).

4. In virtù di quanto esposto il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

5. Le spese vengono liquidate come in dispositivo in applicazione del principio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara inammissibile il secondo; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Condanna la resistente alle spese dell’intero giudizio che liquida in Euro 5.000,00, oltre spese prenotate a debito, per il giudizio di legittimità, ed in Euro 700,00 delle quali Euro 360,00 per onorari per ciascuno dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 13 ottobre 2011

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