Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21068 del 16/09/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 21068 Anno 2013
Presidente: LAMORGESE ANTONIO
Relatore: DI CERBO VINCENZO

SENTENZA

sul ricorso 17748-2008 proposto da:
POSTE

ITALIANE

S.P.A.,

in

persona

del

legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato
PESSI ROBERTO, che la rappresenta e difende giusta
delega in atti;
– ricorrente –

2013

contro

1625

RICCI MARIALAURA;
– intimata –

avverso la sentenza n. 1671/2007 della CORTE D’APPELLO

Data pubblicazione: 16/09/2013

-\

di L’AQUILA, depositata il 20/02/2008, r.g.n. 937/06;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 09/05/2013 dal Consigliere Dott. VINCENZO
DI CERBO;
udito l’Avvocato MICELI MARIO per delega PESSI

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIUSEPPE CORASANITI, che ha concluso
per l’inammissibilità in subordine rigetto.

ROBERTO;

17748.08

Udienza 9 maggio 2013

Pres. A. Lamorgese
Rel. V. Di Cerbo

SENTENZA

Rilevato che
1.

La Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la sentenza di prime cure nella parte in cui
aveva dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, decorrente
dal 25 febbraio 1998, stipulato da Poste Italiane s.p.a. con Marialaura Ricci.

2.

Per la cassazione di tale sentenza Poste Italiane s.p.a. ha proposto ricorso illustrato da
memoria; la lavoratrice è rimasta intimata.

3.

Il Collegio ha disposto che sia adottata una motivazione semplificata.

4.

La Corte ha in primo luogo rigettato l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo
consenso formulata da Poste Italiane s.p.a. Sotto altro profilo ha concluso per
l’illegittimità del termine apposto al contratto in esame in base al decisivo rilievo che la
società suddetta non aveva fornito la prova che lo stesso contratto era stato stipulato
nel rispetto della c.d. clausola di contingentamento, e cioè della percentuale dei
lavoratori che potevano essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al
numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato.

5.

Col secondo motivo di ricorso, che per ragioni di priorità logica deve essere esaminato
preliminarmente, Poste Italiane s.p.a. censura (denunciando violazione degli artt. 1372,
primo e secondo comma, cod. civ., nonché vizio di motivazione) la statuizione della
sentenza impugnata che ha rigettato l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo
consenso.

6.

La censura è infondata; secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte
(cfr., in particolare, Cass. 17 dicembre 2004 n. 23554; Cass. 10 novembre 2008 n.
26935), nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico
rapporto di lavoro a tempo indeterminato (sul presupposto dell’illegittima apposizione
al relativo contratto di un termine finale ormai scaduto), per la configurabilità di una
risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata – sulla base
del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine,
nonché alla stregua delle modalità di tale conclusione, del comportamento tenuto dalla
parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle
parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo; la
valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto
3

La Corte

compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di
legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto; nel caso in esame la Corte di
merito ha ritenuto che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto
non fosse sufficiente, stante la sua durata, e in mancanza di ulteriori significativi
elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione
del rapporto per mutuo consenso e tale conclusione in quanto priva di vizi logici o
errori di diritto resiste alle censure mosse in ricorso.
Col primo motivo di ricorso Poste Italiane s.p.a. denuncia violazione dell’art. 2697 cod.
civ. e degli artt. 421 e 437 cod. proc. civ. nonché vizio di motivazione in relazione
all’attribuzione alla società dell’onere della prova del rispetto dei limiti percentuali
posti dalla disciplina contrattuale per le assunzioni a termine. Sostiene la società
ricorrente che l’onere di provare il rispetto della c.d. clausola di contingentamento
incombe sul lavoratore in quanto lo stesso deve dimostrare l’illegittimità della clausola
appositiva del termine.
8.

Anche tale motivo è infondato. In tema di prova dell’osservanza della percentuale dei
lavoratori da assumere a termine rispetto ai dipendenti impiegati dall’azienda con
contratto di lavoro a tempo indeterminato, questa Corte di legittimità (cfr., in
particolare, Cass. 19 gennaio 2010 n. 839 e, da ultimo, Cass. 19 gennaio 2013 n. 701) ha
ripetutamente precisato che il relativo onere è a carico del datore di lavoro, in base alla
regola esplicitata dall’art. 3 della legge n. 230 del 1962, secondo cui incombe al datore
di lavoro dimostrare l’obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano l’apposizione
di un termine al contratto di lavoro. La sentenza impugnata ha fatto corretta
applicazione di tale principio. Quanto alla conclusione della Corte territoriale circa la
mancanza di prova del rispetto del requisito del rispetto della clausola di
contingentamento, essa è basata su motivazione priva di vizi logici e quindi
insindacabile in questa sede di legittimità.

9. Tenuto conto della sufficienza del mancato rispetto del suddetto limite percentuale ai
fini della declaratoria della illegittimità del termine apposto al contratto in esame,
devono considerarsi assorbiti, il terzo e quarto motivo di ricorso, con i quali viene
denunciato, sempre in relazione alla statuizione sulla illegittimità del termine apposto
al contratto in esame, la violazione dell’art. 27 della legge n. 56 del 1987, degli artt.
1362 e segg. cod. civ. e vizio di motivazione.
10. Nella memoria depositata da Poste Italiane s.p.a. si solleva il problema dell’applicabilità
0
al caso di specie dello ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi 5 , 6° e 70
della legge 4 novembre 2010 n. 183, in vigore dal 24 novembre 2010, con riferimento al
profilo relativo alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola
appositiva del termine.
11. In proposito deve premettersi, in via di principio, che costituisce condizione necessaria
per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto,
con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che
quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura
nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato
dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27 febbraio
4

7.

2004 n. 4070); in tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe,
anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere
sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che,
con riferimento alla disciplina qui invocata, la necessaria sussistenza della questione ad
essa pertinente nel giudizio di cassazione presuppone che vi siano motivi di ricorso che
investano specificatamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del
termine.

13. Il ricorso deve essere in definitiva rigettato.
14. Nulla deve essere disposto in materia di spese legali concernenti il giudizio di
cassazione atteso il mancato svolgimento di attività processuale da parte della
lavoratrice, rimasta intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 9 maggio 2013.

12. Tale presupposto non sussiste nel caso di specie mancando una specifica censura
relativa alle suddette conseguenze economiche.

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