Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21066 del 22/07/2021

Cassazione civile sez. II, 22/07/2021, (ud. 18/12/2020, dep. 22/07/2021), n.21066

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23448/2019 proposto da:

A.S., rappresentato e difeso dall’avvocato CHIARA BELLINI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE DI VERONA – SEZIONE

DI VICENZA;

– intimati –

avverso il decreto di rigetto n. cronol. 5550/2019 del TRIBUNALE di

VENEZIA, depositato il 4/7/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

18/12/2020 dal Consigliere Dott. ROSSANA GIANNACCARI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Venezia, con decreto del 4.7.2019 rigettò la domanda proposta da A.S., che aveva impugnato il provvedimento della Commissione Territoriale di Verona, Sezione di Vicenza, di rigetto del riconoscimento della protezione internazionale nella forma del riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del diritto di rilascio di un permesso umanitario.

Il ricorrente, cittadino del Bangladesh, aveva dichiarato innanzi alla Commissione Territoriale di essere un esponente del partito del (OMISSIS) e che in data 21.1.2015, durante una manifestazione, era stato aggredito da esponenti del partito avverso dell'(OMISSIS); nel corso dell’aggressione era stato accoltellato, condotto in caserma dalla Polizia, falsamente denunciato per detenzione di armi e rilasciato su cauzione; temeva di essere arrestato in caso di rientro.

Il Tribunale ha ritenuto il racconto intrinsecamente inattendibile in quanto il ricorrente, pur avendo dichiarato di essere un esponente del (OMISSIS) con funzioni organizzative e di portavoce, non aveva saputo indicare, con un adeguato grado di specificità, gli scopi del partito, le modalità operative e la vita associativa che lo caratterizzava. Inoltre, le ragioni del timore riconducibili all’accusa per detenzione illegale di armi non trovavano riscontro nella denuncia prodotta, che aveva ad oggetto l’accusa di aver bruciato una bandiera.

Ne conseguiva l’impossibilità di ritenere sussistente e fondato il timore espresso dal ricorrente di subire persecuzioni in caso di rimpatrio o di essere esposto a un danno grave, risultando indimostrati i presupposti richiesti dalla legge per il riconoscimento della protezione internazionale e di quella sussidiaria nelle accezioni di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 e art. 14, lett. a) e b); quanto alla situazione socio politica della regione di provenienza, rilevante ai fini della protezione sussidiaria di cui alla lett. c) della suddetta disposizione, dal report dell’UNHCR risultava che nella zona dell’Edo State, dal quale proveniva il ricorrente, non fosse in atto una violenza indiscriminata ovvero una situazione di conflitto armato. Ne’ veniva accolta la domanda di concessione della protezione umanitaria in quanto il ricorrente non presentava profili di vulnerabilità né aveva dimostrato di essere integrato in Italia.

Per la cassazione di detto decreto ha proposto ricorso A.S. sulla base di tre motivi.

Il Ministero dell’interno non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso, si deduce “la violazione delle norme che disciplinano i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria: D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), artt. 5, 7 e 14 (per lo status di rifugiato e di persona avente diritto alla protezione sussidiaria), del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, D.P.R. n. 394 del 1999, art. 11, comma 1 lett. c-ter (per la protezione umanitaria) per non avere il Tribunale ritenuto adempiuto al dovere di cooperazione istruttoria nella valutazione della domanda di protezione internazionale nelle sue diverse forme, sia attraverso un attento esame del contenuto delle dichiarazioni – da cui risulterebbe l’impegno del ricorrente in ambito politico e la prova delle aggressioni – sia attraverso le condizione del paese di provenienza.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce la “violazione, anche quale vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, oggetto di discussione tra le parti, del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. e)”, per non avere il giudice di merito adempiuto ai poteri istruttori per valutare completamente la situazione oggettiva del richiedente la protezione internazionale in relazione alle condizioni del paese d’origine, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria.

Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione del principio del “non refoulment” di cui all’art. 3 CEDU e art. 33 della Convenzione di Ginevra, per omessa valutazione del rischio di esposizione del ricorrente alla minaccia alla propria vita in caso di rientro nel paese di provenienza.

I motivi, da trattare congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, disciplina il procedimento cui l’organo giudicante è tenuto ad attenersi al fine di valutare la credibilità del ricorrente nel caso in cui lo stesso non fornisca adeguato supporto probatorio alle circostanze poste a fondamento della domanda di protezione internazionale.

Ebbene, tra i criteri di valutazione menzionati, la disposizione de qua contempla espressamente quello della coerenza e plausibilità delle dichiarazioni rese dal ricorrente – lett. c) – e quello dell’attendibilità del richiedente la protezione internazionale – lett. e).

La valutazione di non credibilità del racconto, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del richiedente siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c), ma pur sempre a fronte di dichiarazioni sufficientemente specifiche e circostanziate (Cassazione civile sez. VI, 30/10/2018, n. 27503).

Nell’applicare i summenzionati parametri, il Tribunale ha, pertanto, ritenuto implausibile ed inattendibile la versione sostenuta da parte ricorrente in quanto il predetto, pur avendo dichiarato di essere un esponente del (OMISSIS) con funzioni organizzative e di portavoce, non aveva saputo indicare, con una adeguato grado di specificità, gli scopi del partito, le modalità operative e la vita associativa che lo caratterizzava. Inoltre, le ragioni del timore riconducibili all’accusa per detenzione illegale di armi non trovavano riscontro nella denuncia prodotta, che aveva ad oggetto l’accusa di aver bruciato una bandiera, avente peraltro una data anteriore rispetto all’epoca in cui il fatto era stato denunciato. Infine, in sede giudiziale, egli forniva una differente versione in ordine all’epoca in cui erano avvenuti i fatti.

L’assenza di credibilità intrinseca ha reso ultroneo l’onere di cooperazione da parte del giudice sia in relazione alla domanda relativa allo status di rifugiato che della protezione sussidiaria del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b).

Quanto alla protezione sussidiaria di cui all’art. 14, lett. c), il Tribunale ha escluso che in Bangladesh, sulla base del report dell’UNHCR, fosse ravvisabile una situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), facendo riferimento alle fonti, in applicazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia UE (17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07, e 30 gennaio 2014, Diakite’, C-285/12; Cass. n. 13858 del 2018).

Con le citate pronunce, la Corte di Giustizia ha affermato che i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), potendo l’esistenza di un conflitto armato interno portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 14, lett. c) della direttiva, a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire la detta minaccia.

L’accertamento circa la sussistenza, in concreto, di siffatto tipo di conflitto implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

Il ricorrente, nella formulazione del summenzionato motivo, si è limitato ad addurre generiche ed infondate contestazioni senza, tuttavia, indicare le affermazioni in diritto contenute nel decreto che si assumono in contrasto con le norme regolatrici citate, con ciò contravvenendo all’onere, gravante su parte ricorrente, di formulare motivi aventi i caratteri della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass. civ., Sez. III, n. 15604 del 12/07/2007; Cass. civ., Sez. III, n. 13066 del 05/06/2007).

Anche la censura relativa al diniego della protezione umanitaria è inammissibile ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1.

Il rilascio del permesso di soggiorno per gravi ragioni umanitarie, nella disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 – applicabile ratione temporis, in conformità a quanto disposto da Cass., Sez. Un. 29459 del 13/11/2019, essendo stata la domanda di riconoscimento del permesso di soggiorno proposta prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018 – rappresenta una misura atipica e residuale, volta a tutelare situazioni che, seppur non integranti i presupposti per il riconoscimento delle forme tipiche di tutela, si caratterizzino ugualmente per la condizione di vulnerabilità in cui versa il richiedente la protezione internazionale.

L’accertamento della summenzionata condizione di vulnerabilità avviene, in ossequio al consolidato orientamento di questa Corte (cfr. Cass. civ., sez. I, 15/05/2019 n. 13088; Cass. civ., sez. I, n. 4455 23/02/2018, Rv. 647298 – 01), alla stregua di una duplice valutazione, che tenga conto, da un lato, degli standards di tutela e rispetto dei diritti umani fondamentali nel Paese d’origine del richiedente e, dall’altro, del percorso di integrazione sociale da quest’ultimo intrapreso nel Paese di destinazione.

Le Sezioni Unite hanno consolidato l’indirizzo espresso dalle sezioni semplici, secondo cui occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto nel nostro Paese, isolatamente ed astrattamente considerato (Cassazione civile sez. un., 13/11/2019, n. 29459).

Alla luce di tale indagine, il Tribunale ha escluso la sussistenza di particolari ragioni di vulnerabilità e l’integrazione sociale in Italia, né il ricorrente ha allegato una situazione integrante la condizione dei “seri motivi” di carattere umanitario, derivante dalla compromissione dei diritti umani fondamentali, il cui accertamento è presupposto indefettibile per il riconoscimento della misura citata (cfr. Cass. civ., sez. I, 15/01/2020, n. 625; Cass. civ., Sez. 6 – 1, n. 25075 del 2017).

Il ricorso va, pertanto, dichiarato inammissibile.

Non deve provvedersi sulle spese non avendo il Ministero svolto attività difensiva.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 18 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

 

 

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