Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21058 del 19/10/2016


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Cassazione civile sez. III, 19/10/2016, (ud. 16/03/2016, dep. 19/10/2016), n.21058

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – rel. Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11685/2013 proposto da:

A.A., (OMISSIS), M.A. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA OTTAVIANO 91, presso lo studio

dell’avvocato GABRIELE D’OTTAVIO, che li rappresenta e difende

giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

M.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MAZZINI 6,

presso lo studio dell’avvocato PASQUALE SCRIVO, rappresentato e

difeso dall’avvocato ANTONINO MODAFFERI giusta procura speciale a

margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

M.C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 390/2012 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 08/08/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/03/2016 dal Consigliere Dott. LUIGI ALESSANDRO SCARANO;

udito l’Avvocato GABRIELE D’OTTAVIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso,

condanna di parte soccombente al rimborso delle spese di lite,

statuizioni sul contributo unificato.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza dell’8/8/2012 la Corte d’Appello di Reggio Calabria, in parziale accoglimento del gravame in via principale interposto dal sig. M.S. e in conseguente parziale riforma della pronunzia Trib. Reggio Calabria 16/17/2009, ha – per quanto ancora d’interesse in questa sede – condannato i sigg. M.A. ed A.A. al pagamento in favore del primo di somma a titolo di danno non patrimoniale da invalidità permanente dai medesimi cagionatagli il (OMISSIS), in contrada (OMISSIS), con una coltellata infertagli alla regione omero scapolare destra.

Ha in particolare rideterminato l’ammontare spettantegli a titolo di danno biologico, ricomprendendovi (anche) il danno non patrimoniale di natura estetica costituito dalla cicatrice chirurgica della lunghezza di cm. 16, invero non contemplato nè escluso dalla sentenza penale Corte d’Assise d’Appello Reggio Calabria 24/2/1992 di n.d.p. per intervenuta amnistia nei confronti dell’ A. e del M.A., condannati in 1^ grado per il reato di lesioni aggravate, porto di coltello e rissa, con contestuale condanna al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito l’ A. e il M.A. propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 7 motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso il M.S..

L’altro intimato non ha svolto attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il 1^ motivo i ricorrenti denunziano violazione dell’art. 2909 c.c., art. 578 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il 2 motivo denunziano violazione degli artt. 112 e 329 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Con il 3 motivo denunziano violazione dell’art. 12 preleggi, art. 2909 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si dolgono non essersi dalla corte di merito considerato che la sentenza penale di n.d.p. per amnistia ha mantenuto le statuizioni civili, che producono effetti vincolanti nel separato successivo giudizio introdotto per la determinazione del quantum.

Lamentano che nel riconsiderare le statuizioni civili la corte di merito ha violato gli effetti preclusivi del giudicato, altresì in ultrapetizione.

Si dolgono non essersi la corte di merito limitata alla determinazione del quantum debeatur sulla base dell’ammontare accertato in sede di giudizio penale all’esito dell’espletata perizia, ove si è esclusa la sussistenza di esiti permanenti delle lesioni, guarite entro i 40 giorni.

Con il 7 motivo denunziano violazione dell’art. 2909 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Lamentano che la corte di merito non ha tenuto conto del giudicato formatosi sulle circostanze di fatto, modalità di tempo e di luogo nonchè sulla natura delle lesioni subite dagli odierni ricorrenti.

Con il 4 e il 6 motivo denunziano violazione “omessa e insufficiente, “illogicità e incongruenza della motivazione su punti decisivi della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Lamentano essere palesemente illogica l’affermazione della corte reggina secondo cui le risultanze della CTU non sarebbero state contestate dagli odierni ricorrenti, fondandosi essa su un presupposto erroneo, atteso che la relazione di ctu è stata ampiamente e specificamente criticata in prime cure, tant’è che sulla base di dette censure il primo giudice l’ha disattesa, affermando che il danno biologico, sub specie estetico, andava determinato nella misura minore del 3% (Classe 1^) e non nella misura maggiore (Classe 2^ da 6 a 9) stabilita dal CTU.

Si dolgono che, nel negare il danno biologico con riferimento al modesto deficit funzionale e nel riconoscere il danno biologico estetico, i giudici dell’appello abbiano “fatto rientrare dalla finestra ciò che avevano fatto uscire dalla porta.

Con il 5 motivo denunziano violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c., L. n. 57 del 2001, L. n. 209 del 2005, D.M. 15 giugno 2012, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè “omessa e insufficiente”, “illogicità e incongruenza della motivazione su punti decisivi della controversia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente applicato il criterio L. n. 57 del 2001, ex art. 5, già abrogato da tempo (dopo aver escluso l’applicabilità nella specie delle Tabelle di Milano, pur astrattamente applicabili, per non essere state esse espressamente invocate da controparte).

I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.

Atteso che ai fini dell’assolvimento del requisito ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorrente può anche optare per la riproduzione nel ricorso dell’impugnata sentenza (v. Cass., Sez. Un., 11/4/2012, n. 5698) – sempre che contenga la descrizione dello svolgimento del processo e una chiara esposizione del fatto sostanziale e processuale (v. Cass., 16/9/2013, n. 21137) – ma in tal caso si espone all’inosservanza dell’ulteriore e diverso requisito ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, va anzitutto osservato che i motivi risultano formulati in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, atteso che il medesimo fa riferimento ad atti e documenti del giudizio di merito (es., alla “citazione notificata il 26 febbraio 1997”, alla “sentenza del 24 febbraio 1992 n. 13, passata in giudicato, alla comparsa di costituzione e risposta dei “convenuti” e alla domanda riconvenzionale, alla “prova per testi”, agli “interrogatori formali degli attori”, alla CTU medico-legale, alla “sentenza depositata il 16.01.2009”, all’atto di appello, all’appello incidentale, agli “accertamenti penali”, alla “sentenza di primo grado”, all’atto di appello (all. n. 4), alla “comparsa di costituzione (all. 5), alla “pag. 3 dell’atto di appello principale (v. all. n. 4), alla “documentazione allegata alla CTU” limitandosi a meramente richiamarli, senza invero debitamente – per la parte d’interesse in questa sede – riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie ai fini della relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v., da ultimo, Cass., 16/3/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, e se essi siano stati rispettivamente acquisiti o prodotti in (anche) sede di giudizio di legittimità (v. Cass., 23/3/2010, n. 6937; Cass., 12/6/2008, n. 15808; Cass., 25/5/2007, n. 12239, e, da ultimo, Cass., 6/11/2012, n. 19157), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr., da ultimo, Cass., Sez. Un., 19/4/2016, n. 7701).

A tale stregua non deduce le formulate censure in modo da renderle chiare ed intellegibili in base alla lettura del solo ricorso, non ponendo questa Corte nella condizione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il relativo fondamento (v. Cass., 18/4/2006, n. 8932; Cass., 20/1/2006, n. 1108; Cass., 8/11/2005, n. 21659; Cass., 2/81/2005, n. 16132; Cass., 25/2/2004, n. 3803; Cass., 28/10/2002, n. 15177; Cass., 12/5/1998 n. 4777 sulla base delle sole deduzioni contenute nel medesimo, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).

Non sono infatti sufficienti affermazioni – come nel caso – apodittiche, non seguite da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente viceversa porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi fra le argomentazioni in base alle quali ritiene di censurare la pronunzia impugnata (v. Cass., 21/8/1997, n. 7851).

Quanto al 1, al 2 e al 7 motivo va in particolare osservato che come questa Corte – anche a Sezioni Unite – ha già avuto modo di affermare, la sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima) pronunziata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile (o amministrativo) per le restituzioni ed il risarcimento del danno, e non anche le sentenze di non doversi procedere perchè il reato è estinto per prescrizione o come nella specie per amnistia, cui non va riconosciuta alcuna efficacia extrapenale benchè, per giungere a tale conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto (cfr. Cass., Sez. Un., 26/1/2011, n. 1768, e, da ultimo, Cass., 25/9/2014, n. 20252).

A tale stregua, nel giudizio promosso contro l’imputato per ottenere il risarcimento del danno, il giudice civile, pur potendo tenere conto di tutti gli elementi di prova acquisiti in sede penale, e pur potendo ripercorrere lo stesso iter argomentativo del giudice penale e giungere quindi alle medesime conclusioni, deve tuttavia interamente ed autonomamente rivalutare il fatto (v. Cass., Sez. Un., 27/5/2009, n. 12243).

Ben può allora il giudice civile investito della domanda di risarcimento del danno da reato (non avendone peraltro l’obbligo) utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in cosa giudicata, e fondare la propria decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede all’esito di un diretto esame del contenuto del materiale probatorio, essendo in tal caso peraltro tenuto a procedere ad un autonomo accertamento, con pienezza di cognizione al fine di accertare i fatti materiali in base al relativo proprio vaglio critico (v. Cass., 17/11/2015, n. 23516; Cass., 17/6/2013, n. 15112; Cass., 25/3/2005, n. 6478), ivi ricompresi il profilo del nesso di causalità, non essendo vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale e ben potendo invero giungere all’affermazione della civile responsabilità pur nell’insussistenza di quella penale, ovvero ad un riparto delle responsabilità diverso da quello stabilito dal giudice penale (cfr., da ultimo, Cass., 21/4/2016, n. 8035).

Si è da questa Corte altresì sottolineato che la sentenza del giudice penale, la quale nel dichiarare estinto per amnistia il reato rechi altresì la condanna definitiva dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile demandandone la liquidazione ad un successivo e separato giudizio, spiega in sede civile effetto vincolante in ordine all’affermata responsabilità dell’imputato, che pur prosciolto dal reato non può più contestare in sede civile i presupposti per l’affermazione della sua responsabilità, quali in particolare l’accertamento della sussistenza del fatto reato e l’insussistenza di esimenti ad esso riferibili, nonchè la “declaratoria iuris” di generica condanna al risarcimento ed alle restituzioni, ben potendo viceversa contestare l’esistenza e l’entità in concreto di un pregiudizio risarcibile (v. Cass., 29/1/2013, n. 2083).

Orbene, dei suindicati principi la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero piena e corretta applicazione.

In particolare là dove ha affermato che “nel caso di specie, se l’illecito può essere ricostruito nei termini di cui alla sentenza penale di primo grado, cui in proposito integralmente si rinvia, non avendo alcuna delle parti formulato contestazioni sul punto, nè fornito elementi di segno diverso, non deriva tuttavia alcun vincolo dall’affermazione, contenuta nella stessa sentenza, secondo cui M.S. ha riportato lesioni guaribili entro il quarantesimo giorno, ma oltre il ventesimo giorno, senza esiti permanenti nè pericolo di vita. Deve invece aversi riguardo, in ordine all’accertamento delle conseguenze dannose subite dal M. a seguito del fatto-reato del (OMISSIS), alle sole risultanze della CTU espletata nel giudizio civile, risultanze di per sè non contestate, da cui emerge che M.S. ha riportato “esiti cicatriziali da ferita alla spalla destra con modesta limitazione funzionale”, con un danno biologico permanente dell’8%”.

Con particolare riferimento al 4, al 5 e al 6 motivo, va per altro verso sottolineato che, come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, alla stessa stregua di quanto si verifica relativamente al danno patrimoniale (cfr., da ultimo, Cass., 14/6/2015, n. 14645; Cass., 12/6/2015, n. 12211) la diversità ontologica degli aspetti (o voci) di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale impone, in ossequio al principio dell’integralità del ristoro (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972), che in quanto sussistenti e provati gli stessi vengano tutti risarciti, e nessuno sia lasciato privo di ristoro (v. Cass., 23/4/2013, n. 9770; Cass., 17/4/2013, n. 9231; Cass., 7/6/2011, n. 12273; Cass., 9/5/2011, n. 10108).

Al di là della qualificazione in termini di categoria, nelle pronunzie del 2008 risulta infatti confermato che tra gli aspetti o voci di danno non patrimoniale che compendiano la categoria generale del danno non patrimoniale vi è anche il danno morale.

Le Sezioni Unite del 2008 hanno inteso tale danno quale patema d’animo o sofferenza interiore o perturbamento psichico, di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), a tale stregua recependo la relativa tradizionale concezione affermatasi in dottrina e consolidatasi in giurisprudenza (in precedenza volta a limitare la risarcibilità del danno non patrimoniale alla sola ipotesi di ricorrenza di una fattispecie integrante reato).

La definizione del danno morale è peraltro venuta successivamente ad essere da questa Corte intesa come connotata di significati anche diversi ed ulteriori, in particolare quale lesione della dignità o integrità morale, massima espressione della dignità umana, assumente specifico e autonomo rilievo nell’ambito della composita categoria del danno non patrimoniale, anche laddove la sofferenza interiore non degeneri in danno biologico o in danno esistenziale (v. Cass., 27/10/2015, n. 21782; Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 16/2/2012, n. 2228. V. altresì Cass., 20/11/2012, n. 20292; Cass., 3/10/2013, n. 22585, e, da ultimo, Cass., 23/1/2014, n. 1361).

Deve allora anche di tale accezione del danno morale tenersi adeguatamente nella liquidazione del danno non patrimoniale.

Al di là di affermazioni di principio secondo cui il carattere unitario della liquidazione del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., precluderebbe la possibilità di un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenza patite dalla persona (v. Cass., 12/2/2013, n. 3290; Cass., 14/5/2013, n. 11514), da questa Corte si perviene invero generalmente a darsi comunque rilievo alla circostanza che nel liquidare l’ammontare dovuto a titolo di danno non patrimoniale il giudice abbia tenuto conto di tutte le peculiari modalità di atteggiarsi dello stesso nel singolo caso concreto (cfr. Cass., 23/9/2013, n. 21716), giacchè il principio di unitarietà del danno patrimoniale posto da Cass., 11/11/2008, n. 26972 non va inteso nel senso dell’irrisarcibilità (rectius, non ristorabilità) della lesione o perdita di tutti o alcuni dei diversi aspetti o voci concernente beni della vita diversi (o eterogenei o non omogenei) in cui la categoria del danno non patrimoniale si scandisce nel singolo caso concreto (cfr. Cass., 23/1/2014, n. 1361; Cass., 8/5/2015, n. 9320).

La scelta ed adozione dei criteri di valutazione del danno non patrimoniale è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice tra quelli idonei a consentire una valutazione che sia equa, e cioè adeguata e proporzionata (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico mediante la c.d. personalizzazione del danno (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/6/2006, n. 13546), al fine di addivenirsi a una liquidazione congrua, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti – sul territorio nazionale (v. Cass., 13/5/2011, n. 10528; Cass., 28/11/2008, n. 28423; Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., 12/7/2006, n. 15760).

Esclusa a tale stregua la possibilità di applicarsi in modo “puro” parametri rigidamente fissati in astratto (cfr. Cass., 23/1/2014, n. 1361), e considerata del pari inidonea una valutazione rimessa alla mera intuizione soggettiva del giudice (e quindi in assenza di qualsiasi criterio generale valido per tutti i danneggiati a parità di lesioni sostanzialmente al suo mero arbitrio: cfr. Cass., 23/1/2014, n. 1361; Cass., 7/6/2011, n. 12408), valida soluzione si è ravvisata essere quella costituita dal sistema delle tabelle (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972. V. altresì Cass., 13/5/2011, n. 10527), e in particolare delle Tabelle di Milano (v., da ultimo, Cass., 4/2/2016, n. 2167), in ordine alla cui utilizzazione si è peraltro precisato che al fine di evitarsi la declaratoria di inammissibilità del ricorso per la novità della questione non è sufficiente che in appello sia stata prospettata l’inadeguatezza della liquidazione operata dal primo giudice, ma occorre che il ricorrente si sia specificamente doluto, sotto il profilo della violazione di legge, della mancata liquidazione del danno in base ai valori delle Tabelle elaborate a Milano (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).

Tale sistema costituisce peraltro solo una modalità di calcolo tra le molteplici utilizzabili, fondamentale essendo che, qualunque sia il sistema di quantificazione prescelto, esso si prospetti idoneo a consentire di pervenire ad una valutazione informata ad equità (v. Cass., 4/2/2016, n. 2167), e che il giudice dia adeguatamente conto in motivazione del processo logico al riguardo seguito, indicando i criteri assunti a base del procedimento valutativo adottato (v. Cass., 30/5/2014, n. 12265; Cass., 19/2/2013, n. 4047), al fine di consentire il controllo di relativa logicità, coerenza e congruità.

Con particolare riferimento al danno morale, si è a tale stregua esclusa la possibilità di farsi luogo ad una liquidazione affidata a meccanismi semplificativi di tipo automatico, ritenendosi in particolare errata la liquidazione in misura pari ad una frazione dell’importo liquidato a titolo di danno biologico (v. Cass., 4/2/2016, n. 2167; Cass., 26/6/2013, n. 16041; Cass., 13/12/2012, n. 22909; Cass., 12/9/2011, n. 18641; Cass., 19/1/2010, n. 702), in quanto inidonei a rendere evidente e controllabile l’iter logico seguito dal giudice di merito per pervenire alla relativa quantificazione, nè consente di stabilire se e come abbia tenuto conto della gravità del fatto, delle condizioni soggettive della persona, dell’entità della relativa sofferenza e del turbamento dello stato d’animo, al fine di potersi essa considerare congrua e adeguata risposta satisfattiva alla lesione della dignità umana (v. Cass., 16/2/2012, n. 2228; Cass., 13/12/2012, n. 22909).

Nel liquidare il danno morale il giudice deve dare allora motivatamente conto del relativo significato al riguardo considerato, e in particolare se lo abbia valutato non solo quale patema d’animo (o sofferenza interiore o perturbamento psichico), di natura meramente emotiva e interiore (danno morale soggettivo), ma anche in termini di dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana (v. Cass., 23/1/2014, n. 1361).

Si è d’altro canto sottolineato che il principio della integralità del ristoro del danno non si pone in termini antitetici ma viene anzi a correlarsi con quello per il quale il danneggiante/debitore è tenuto al risarcimento solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento a lui causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone anche di evitarsi duplicazioni risarcitorie (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 14/9/2010, n. 19517), non rilevando al riguardo il “nome” assegnato dal giudicante al pregiudizio lamentato dall’attore (“biologico”, “morale”, “esistenziale”), quanto bensì il concreto pregiudizio preso ìn esame dal giudice, sicchè si ha duplicazione di risarcimento solo quando il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte o più volte mediante l’uso di nomi diversi (v. Cass., 30/6/2011, n. 14402; Cass., 6/4/2011, n. 7844), essendo compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, e provvedere al relativo integrale ristoro (v. Cass., 13/5/2011, n. 10527; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).

Orbene la corte di merito ha nell’impugnata sentenza fatto invero corretta applicazione dei suindicati principi.

In particolare là dove, premesso che “la distinzione secondo le Sezioni Unite… può porsi non tra diverse categorie di danno non patrimoniale ma tra diversi tipi dell’unica categoria di danno (non patrimoniale), ha affermato che “se il c.d. danno morale va inteso come “voce” integrante la più ampia categoria del danno non patrimoniale, non può tuttavia non tenersi conto che il legislatore, attraverso la emanazione di due successivi D.P.R. n. 37 del 2009 e D.P.R. n. 191 del 2009, con una specifica disposizione normativa (l’art. 5) ha inequivocamente reso manifesta la volontà di distinguere, concettualmente prima ancora che giuridicamente, all’indomani delle summenzionate pronunzie delle sezioni unite, tra la “voce” di danno c.d. biologico da un canto, e la “voce” di danno morale dall’altro.

Nella parte in cui è pervenuta quindi a concludere che a seguito delle summenzionate pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, il danno morale è scomparso come autonoma categoria di danno, ma persiste pur sempre come pregiudizio risarcibile perchè (e se) derivante dalla detta lesione. Del resto, le pronunzie suddette, ad una più attenta lettura, non hanno mai predicato un principio di diritto funzionale alla scomparsa per assorbimento ipso facto del danno morale nel danno biologico, avendo viceversa indicato al giudice del merito soltanto la necessità di evitare, attraverso una rigorosa analisi dell’evidenza probatoria, duplicazioni risarcitorie. Si tratta allora di verificare, caso per caso, quali pregiudizi siano stati concretamente allegati e accertati; di evitare che il medesimo pregiudizio sia liquidato due volte infine, e correlativamente, di evitare di procedere a detta liquidazione secondo automatismi legati alla acritica adesione a vuote categorie nominali.

Ancora, là dove ha ulteriormente precisato che “una volta liquidato il danno biologico, alla liquidazione delle sofferenze morali derivate dalla lesione del diritto alla salute occorrerà procedere considerando queste ultime, in quanto ricondotte nell’alveo del danno alla salute, come un fattore per la personalizzazione del danno alla salute.

All’inammissibilità e infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore del controricorrente M.S., seguono la soccombenza.

Non è viceversa a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione in favore dell’altro intimato, non avendo il medesimo svolto attività difensiva.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese a generali ed accessori come per legge, in favore del controricorrente M.S..

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2016

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