Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21058 del 19/10/2015


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Civile Sent. Sez. L Num. 21058 Anno 2015
Presidente: ROSELLI FEDERICO
Relatore: TRIA LUCIA

SENTENZA

sul ricorso 9366-2010 proposto da:
GATTULLO

CLAUDIA

C.F.

GTTCLD87B43F205N,

già

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE DON
MINZONI 9, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO
AFELTRA, che la rappresenta e difende unitamente
all’avvocato LUIGI ZEZZA, giusta procura speciale
2015
3072

notarile in atti e da ultimo domiciliata presso la
CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE;
– ricorrente contro

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del

Data pubblicazione: 19/10/2015

legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22,
presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la
rappresenta e difende giusta delega in atti;

contronicorrente

di MILANO, depositata il 17/12/2009 R.G. N. 214/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 02/07/2015 dal Consigliere Dott. LUCIA
TRIA;
udito l’Avvocato GAETANO GIANNI per delega orale
ARTURO MARESCA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE, che ha concluso per
l’inammissibilità o in subordine per il rigetto del
ricorso.

avverso la sentenza n. 992/2009 della CORTE D’APPELLO

Udienza del 2 luglio 2015 Aula B
n. 29 del ruolo — RG n. 9366/10
Presidente: Roselli – Relatore: Tria

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.— La sentenza attualmente impugnata, riformando la sentenza del Tribunale di Milano n.
454/2007, rigetta la domanda proposta da Claudia Gattullo, nei confronti di POSTE ITALIANE
s.p.a. onde ottenere l’accertamento della nullità della clausola appositiva del termine al contratto di
lavoro stipulato dalla ricorrente con POSTE ITALIANE s.p.a. dal 13 giugno 2005 al 30 settembre
2005, per il tramite della E-Work s.p.a. (società fornitrice di lavoro interinale), con le
consequenziali pronunce.
La Corte d’appello di Milano, per quel che qui interessa, precisa che:
a) come rilevato dalla società POSTE ITALIANE, la lavoratrice ha invocato a sua tutela la
disciplina della legge n. 196 del 1997 e della legge n. 1369 del 1960, nonché l’art. 17, lettera a, del
CCNL 1998 e l’accordo aziendale 4 dicembre 2002 anziché fare riferimento al d.lgs. n. 276 del
2003 (vigente alla data della stipulazione del contratto in oggetto);
b) la sentenza appellata è basata sulla valutazione delle circostanze di fatto e delle
argomentazioni svolte con riguardo alla suddetta normativa, mentre neanche in appello la Gattullo
ha effettuato alcuna deduzione con riferimento alla disciplina legale e contrattuale da applicare, con
riguardo sia all’aspetto formale del contratto, sia alle ipotesi consentite di contratti a termine;
c) ne consegue che il giudice non disponeva e non dispone di elementi di fatto da esaminare
utilmente ai fini della decisione;
d) invero, in linea generale, la disciplina di cui alla legge n. 196 del 1997 “vigente prima che
fosse abrogata la legge n. 230 del 1962” e alla legge n. 1369 del 1960 è più restrittiva, rispetto a
quella del d.lgs. n. 276 del 2003, in merito alla possibilità di fare ricorso ai contratti a termine e ciò
rileva, in particolare, per le sostituzioni che tale ultimo d.lgs. consente anche per la ordinaria attività
dell’utilizzatore, cioè, per le mansioni di recapito e smistamento della corrispondenza cui è stata
adibita la Gattullo.
2.— Il ricorso di Claudia Gattullo domanda la cassazione della sentenza per tre motivi; resiste,
con controricorso, POSTE ITALIANE s.p.a.
Entrambe le parti depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
MOTIVI DELLA DECISIONE

I — Sintesi dei motivi di ricorso
1. 11 ricorso è articolato in tre motivi, con i quali la lavoratrice:

,

2) denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omessa, insufficiente o
contraddittoria motivazione per il fatto che la Corte milanese non si è pronunciata affatto sul merito
della domanda della lavoratrice;
3) denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione
dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 116 cod. proc. civ., contestando la mancata ammissione, da parte
della Corte territoriale, delle prove richieste dalla lavoratrice.
III

Esame delle censure

2.- Il ricorso è inammissibile, per le ragioni di seguito precisate.
3.- Quanto al primo motivo di ricorso va rilevato che, nella specie, non sussistono i
presupposti per ipotizzare una violazione dell’art. 113 cod. proc. eiv., come interpretato da sempre
dalla giurisprudenza di questa Corte, nella quale è stato precisato che:
a) in materia di procedimento civile, l’applicazione del principio iura novit curia di cui al
primo comma dell’art. 113 cit. fa salva la possibilità per il giudice di assegnare una diversa
qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite nonché all’azione esercitata in causa,
ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, e
ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente
richiamati dalle parti;
b) peraltro, tale principio deve essere coordinato con il divieto di ultra o extra petizione ex art.
112 cod. proc. civ. che viene violato quando il giudice pronunzia oltre i limiti della domanda e delle
eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili
d’ufficio attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato (Cass. 1° settembre
2004, n. 17610; Cass. 24 maggio 2005, n. 10922; Cass. 17 luglio 2007, n. 15925; Cass. 28 agosto
2009, n. 18783; Cass. 11 marzo 2011, n. 5876; Cass. 8 agosto 2011, n. 17090; Cass. 15 giugno
1965, n. 1243);

a

c) quindi, non può venire in considerazione l’applicazione del principio in argomento laddove
si chieda al giudice di emettere una decisione basata non già sulla diversa qualificazione giuridica
del rapporto, ma anche su diversi elementi materiali che inverano il fatto costitutivo della pretesa in
quanto nell’accertamento del fatto è necessario giudicare iuxta alligata et probata, mentre il
principio iura novit curia di cui all’art. 113 cod. proc. civ. presiede alla soluzione delle sole
questioni di diritto (Cass. 18 novembre 1995, n. 11934; Cass. 20 marzo 2010, n. 7190).
4.- Nella specie, la Corte milanese, nella sentenza impugnata ha fatto corretta dei suddetti
principi, perché ha rilevato di non disporre di elementi di fatto da esaminare utilmente ai fini della
2

1) denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione
dell’art. 113 cod. proc. civ., rilevando che la Corte d’appello avrebbe violato il principio jura novit
curia, laddove ha affermato di non disporre di elementi di fatto da esaminare utili ai fini della
decisione avendo la Gattullo invocato a propria tutela la disciplina della legge n. 196 del 1997 e
della legge n. 1369 del 1960, nonché l’art. 17, lettera a, del CCNL 1998 e l’accordo aziendale 4
dicembre 2002 anziché fare riferimento al d.lgs. n. 276 del 2003 (vigente alla data della stipulazione
del contratto in oggetto);

La Corte territoriale ha sottolineato quindi che la notevole diversità fra le due suddette
discipline non implicava una questione di mera qualificazione giuridica ma si risolveva nella
valutazione di una diversa causa petendi non consentita.
A tale ultimo riguardo va ricordato che — come già precisato da questa Corte in una
controversia analoga alla presente: Cass. 24 luglio 2012, n. 12943 — la correttezza di tale
impostazione trova conferma nell’opposta filosofia seguita dal legislatore del 2001 rispetto alla
disciplina del contratto a termine fino ad allora in vigore, come è dimostrato soprattutto dal ruolo
attribuito, in funzione di garanzia del lavoratore, alla specificità della clausola giustificatrice del
termine nonché dal diverso rilievo attribuito agli spazi di controllo riservati al giudice in relazione,
in particolare, alla verifica del requisito della specificità della suddetta clausola nonché alla
valutazione delle prove sulla sussistenza dei presupposti che legittimano l’apposizione del termine.
5.- Nella descritta situazione è del tutto evidente che, sulla base di un “diritto vivente”, la cui
formazione può considerarsi”storica”, nel senso della esclusione del potere-dovere del giudice di
mutare o sostituire d’ufficio la causa petendi, in quanto essa consiste nel fatto o nei fatti dedotti a
giustificazione della domanda (vedi, fra le prime: Cass. 19 febbraio 1954, n. 445), il primo motivo
di ricorso non può non considerarsi inammissibile, essendo con esso del tutto impropriamente
invocata la violazione dell’art. 113 cod. proc. civ. con argomentazioni che, in realtà, si traducono in
un mero, quanto inammissibile, dissenso rispetto alle motivate valutazioni di merito delle risultanze
probatorie di causa effettuate dalla Corte d’appello — peraltro, con congrua e logica motivazione e
sulla base di esatte premesse logico-giuridiche — al fine di ritenere che, nella specie, la decisione
richiesta avrebbe comportato una non consentita modificazione d’ufficio della causa petendi.
6.- Altrettanto inammissibili sono gli altri due motivi di ricorso in quanto i vizi con essi
denunciati si basano sull’erroneo presupposto consistente nel non considerare che la — corretta —
decisione assunta dalla Corte milanese è incompatibile logicamente e giuridicamente con l’esame
della domanda nel merito.
IV

Conclusioni

7.- In sintesi, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese del presente giudizio di
cassazione — liquidate nella misura indicata in dispositivo — seguono la soccombenza
a

I

P.Q.M.

Y
3

,

decisione della controversia, essendo stata la domanda azionata basata sulla esclusiva invocazione
della disciplina della legge n. 196 del 1997 e della legge n. 1369 del 1960, nonché dell’art. 17,
lettera a, del CCNL 1998 e dell’accordo aziendale 4 dicembre 2002, anziché sulla normativa di cui
al d.lgs. n. 276 del 2003 (vigente alla data della stipulazione del contratto in oggetto) ed essendo
state le argomentazioni difensive (sia in primo grado sia in appello) riferite solo alla suddetta
normativa non più applicabile, senza alcuna deduzione con riferimento alla disciplina legale e
contrattuale da applicare, con riguardo sia all’aspetto formale del contratto, sia alle ipotesi
consentite di contratti a termine.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
del presente giudizio di cassazione, liquidate in euro 100,00 (cento/00) per esborsi, euro 3500,00
(tremilacinquecento/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 2 luglio 2015.

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