Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21044 del 07/08/2019

Cassazione civile sez. I, 07/08/2019, (ud. 12/03/2019, dep. 07/08/2019), n.21044

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4873/2014 proposto da:

C.D., elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Colli

Portuensi n. 345, presso lo studio dell’avvocato Venditti Stefano,

rappresentato e difeso dall’avvocato Loguercio Ugo, con procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

La Curatela del Fallimento del (OMISSIS) s.n.c., in persona del

curatore P.C., elettivamente domiciliata in Roma V.le

Mazzini 134, presso lo studio dell’avvocato Fiorillo Luigi,

rappresentata e difesa dall’avvocato Fontana Giorgio, con procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1101/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 18/03/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/03/2019 dal cons. Dott. CAIAZZO ROSARIO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.D. propose appello avverso la sentenza del Tribunale di Avellino del 30.4.09 che aveva rigettato l’opposizione allo stato passivo proposta riguardo al decreto di rigetto della domanda di ammissione al passivo del fallimento del (OMISSIS) s.n.c. in ragione di un credito derivante da rapporto di lavoro subordinato.

La sentenza impugnata aveva rilevato che: non era stato provato tale rapporto di lavoro subordinato; l’inesistenza di tale rapporto si desumeva dalle stesse dichiarazioni rese dall’opponente, il quale aveva affermato di non aver mai ricevuto alcuna retribuzione dalla suddetta società, poi fallita; l’attività posta in essere sarebbe stata al massimo inquadrabile nel diverso rapporto di collaborazione familiare. Con sentenza del 18.3.13, la Corte d’appello di Napoli rigettò l’appello, osservando che: premesso che la ritenuta genericità della domanda non aveva indotto il giudice a dichiararne la nullità, era infondata la doglianza di contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in quanto l’ammissione al passivo degli altri lavoratori dipendenti era dovuta alla diversità delle posizioni individuali dei ricorrenti – ed era comunque di per sè irrilevante ai fini della decisione – mentre non era stata provata la contribuzione inps a favore del C.; era inammissibile il capo d’impugnazione relativo alla valutazione delle prove testimoniali e dei documenti acquisiti per genericità poichè non erano stati esplicitati i motivi di critica alla sentenza impugnata; il richiamo all’art. 230bis c.c.(sebbene non applicabile alle società di persone) era da ritenere puramente esemplificativo, non essendo quella familiare l’unica forma di collaborazione lavorativa esistente.

Il C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.

Resiste la curatela fallimentare con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Al riguardo, è stato denunziato che la Corte d’appello abbia erroneamente affermato, a fronte delle contestazioni dell’appellante riguardanti la valutazione di genericità della domanda espressa dal tribunale, che quest’ultimo da tale valutazione non aveva fatto derivare alcuna conseguenza in tema di nullità della domanda stessa, senza considerare che dalla valutazione di genericità della domanda quanto a indicazione di mansioni, orario, periodi di lavoro svolti, il tribunale, invece, aveva tratto la conclusione del rigetto dell’opposizione.

Il ricorrente lamenta altresì che una più approfondita lettura degli atti difensivi e dei documenti dallo stesso prodotti, e, in particolare, del libro matricola, avrebbe condotto ad una diversa decisione, e che la dedotta omessa valutazione da parte del giudice di primo grado del valore giuridico del libro matricola sia stata ritenuta irrilevante dal giudice d’appello.

Il primo motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che il ricorrente, pur avendo dedotto di aver indicato nel ricorso introduttivo del giudizio e nelle note ex art. 184 c.p.c. le proprie mansioni, l’orario di lavoro, il proprio inserimento nell’organizzazione aziendale della società – indici che, unitamente all’assoggettamento al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il giudice di primo grado aveva ritenuto mancanti, nel caso di specie, per la qualificazione del rapporto instaurato con la società fallita come di lavoro subordinato – non ha avuto cura di precisare tali elementi, neppure sommariamente, nel ricorso per cassazione, per cui il ricorso medesimo difetta del necessario requisito di autosufficienza e specificità.

In ogni caso, il motivo è inammissibile dal momento che non è stato indicato alcun fatto decisivo del quale sia stato omesso l’esame.

In particolare, il ricorrente, nel dolersi dell’omessa valutazione da parte della Corte di merito del libro matricola, ritenendolo un fatto decisivo rilevante a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non considera, tuttavia, che secondo il consolidato orientamento di questa Corte, il dedotto omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. SSUU, n. 8053/2014).

Sul punto, la sentenza impugnata ha evidenziato, con riferimento proprio al libro matricola, l’irrilevanza che altri lavoratori fossero stati ammessi allo stato passivo sulla base della stessa documentazione ritenuta non idonea per il ricorrente, data la diversità della posizione di ciascun dipendente esaminato.

Va, infine, osservato che il ricorrente, dolendosi della mancata valutazione da parte del giudice d’appello del libro matricola, ha dimostrato di non averne in alcun modo colto la ratio decidendi, soprattutto con riferimento alla declaratoria di inammissibilità del quarto motivo d’appello.

Con il secondo motivo è denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 2709,2710 e 2735 c.c., avendo la Corte d’appello erroneamente valutato le prove documentali e testimoniali acquisite.

Il ricorrente reitera, inoltre, la doglianza che la Corte di merito avrebbe omesso la valutazione del valore giuridico del libro matricola e retribuzioni.

Il motivo è infondato.

Il ricorrente non può invocare il valore probatorio delle scritture contabili nei confronti del curatore, che non è imprenditore ed è terzo rispetto alle parti del rapporto da cui deriva il credito insinuato al passivo (ex multis: Cass. n. 10081/2011; n. 1543/2006; n. 5582/2005).

Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione all’art. 342 c.p.c.

Al riguardo, il ricorrente rileva che nell’atto di appello erano state indicate le ragioni per le quali era stata richiesta la riforma della sentenza impugnata, evidenziando che i testi escussi (ispettore del lavoro, consulente del lavoro, commercialista, operai colleghi dei ricorrenti) avevano la capacità di valutare, nel settore specifico, se il ricorrente avesse la qualità di lavoratore subordinato. Era stato dunque assolto l’onere di contrapporre alle argomentazioni della sentenza di primo grado censure idonee ad incrinare il fondamento giuridico della sentenza di primo grado.

Il motivo è inammissibile.

Va osservato che il giudice di secondo grado ha coerentemente ritenuto il quarto motivo d’appello inammissibile sul rilievo che l’appellante, odierno ricorrente, si era limitato a riproporre le stesse deduzioni già respinte dal giudice di primo grado, senza prendere in esame la motivazione di rigetto e senza sottoporla a critica.

Infatti, a fronte dell’analisi specifica e approfondita da parte del tribunale dell’attività istruttoria svolta, l’appellante si era limitato a sostenere genericamente che dall’istruttoria svolta doveva ritenersi provato il rapporto di lavoro subordinato.

E’ evidente, dunque, che il ricorrente, nel formulare in questi termini le proprie censure, non abbia adempiuto all’onere di specificità dei motivi dettato dall’art. 342 c.p.c. (anche nel testo applicabile ratione temporis anteriore alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a)), a tenore del quale alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata devono essere contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinarne il fondamento logico-giuridico, che con le prime devono necessariamente confrontarsi, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate sono le argomentazioni del provvedimento impugnato, tanto più puntuali devono essere i motivi di gravame per confutare l’impianto argomentativo del giudice di primo grado (Cass., n. 4695 del 23.02.2017; n. 22781 del 27/10/2014; n. 4068 del 19/02/2009).

Peraltro, se è pur vero che nell’ultima parte della trattazione del quarto motivo d’appello, il giudice di secondo grado ha erroneamente evidenziato che nell’atto d’appello non erano stati indicati i passaggi della motivazione della sentenza di primo grado oggetto di censura requisito richiesto soltanto dal testo novellato dell’art. 342 c.p.c., introdotto dalla L. n. 134 del 2012, non applicabile nel presente giudizio – tale errore non è decisivo.

La Corte d’Appello, come sopra già accennato, infatti, ha ben evidenziato che il C. si era limitato a dedurre di ritenere provato il rapporto di lavoro subordinato instaurato sulla base della documentazione esibita ed alla luce dei testi escussi, senza confrontarsi minimamente con l’articolata motivazione del giudice di primo grado, che aveva evidenziato l’insussistenza degli indici rilevatori del rapporto di lavoro subordinato, nonchè valorizzato le stesse affermazioni del ricorrente, figlio del legale rappresentante della società fallita, che aveva dichiarato di non avere ricevuto mai alcuna retribuzione durante tutto il rapporto lavorativo.

A fronte di tali considerazioni, idonee a sorreggere la statuizione di inammissibilità del gravame anche sulla base del testo dell’art. 342 c.p.c., comma 1, anteriore alla novella, il ricorrente, ignorando il percorso argomentativo della Corte di merito, si è limitato nel proprio ricorso a dedurre di aver osservato nei motivi d’appello il requisito della specificità sul mero rilievo che i testimoni dallo stesso scelti erano persone che avevano la capacità di valutare nel settore specifico se il ricorrente avesse la qualità di lavoratore subordinato. Peraltro, nel formulare tale censura, il ricorrente non si è neppure correlato con la specifica argomentazione della sentenza impugnata che aveva escluso la possibilità per i testi “di esprimere giudizi e valutazioni, essendo abilitati a deporre solo in relazione a fatti”.

Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in conseguenza dell’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Al riguardo, il ricorrente si duole che il giudice di merito non abbia correttamente valutato le deposizioni testimoniali e la documentazione esibita, dall’esame delle quali era, invece, emersa piena prova del rapporto di lavoro subordinato.

Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente non ha dedotto nessun fatto decisivo e discusso tra le parti, del quale sia stato omesso l’esame, essendosi lo stesso limitato a sollecitare una diversa valutazione del materiale probatorio esaminato dai giudici di merito e ad accreditare una diversa ricostruzione del fatto, articolando quindi in sostanza una censura di merito, come tale inammissibile in sede di legittimità.

Con il quinto motivo è dedotto l’omesso esame di fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, non avendo la Corte d’appello considerato che il rapporto di lavoro autonomo o familiare fosse incompatibile all’interno della società commerciale.

In particolare, il ricorrente si duole che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice d’appello, la sentenza di primo grado non avesse richiamato, solo a titolo esemplificativo, l’impresa familiare, contrapponendo invece tale rapporto a quello di lavoro subordinato. Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente ha formulato la doglianza in questione senza neppure precisare quale fosse il fatto storico decisivo e discusso tra le parti, il cui esame sarebbe stato omesso dalla Corte di merito. Peraltro, il giudice di secondo grado aveva preso specificamente posizione sulla censura formulata dal ricorrente, secondo cui il giudice di primo grado aveva erroneamente sussunto il rapporto nello schema dell’art. 230 bis c.c., osservando che non era stata fornita la prova della sussistenza dei caratteri del lavoro subordinato, e comunque tale affermazione era stata fatta dal giudice di primo grado solo a titolo esemplificativo.

Con il sesto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 230bis, 2094 e 2222 c.c. e artt. 115 e 116.

Al riguardo, il ricorrente lamenta che la Corte di merito abbia erroneamente ipotizzato la riconducibilità del suo rapporto con la società fallita al rapporto di lavoro autonomo o societario senza valutare le risultanze istruttorie, che deponevano per la natura subordinata del rapporto.

Il motivo è inammissibile.

Il ricorrente, anche su questo punto, non ha colto la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha fatto riferimento al lavoro autonomo, al rapporto societario e alle prestazioni compiute affectionis vel benevolentiae causa al solo scopo di evidenziare che l’impresa familiare, indicata a titolo esemplificativo dal giudice di primo grado, non costituiva l’unica forma di collaborazione lavorativa esistente alternativa al rapporto di lavoro subordinato, del quale non erano stati comunque provati gli indici sintomatici.

Il ricorrente sottopone dunque a questa Corte una diversa valutazione delle istanze istruttorie, formulando una censura di merito, non ammessa in sede di legittimità.

Con il settimo motivo è dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo in quanto la Corte d’appello ha ritenuto infondata la doglianza relativa alla riduzione della liste dei testimoni senza alcuna specifica motivazione, pur non essendo l’appello stato dichiarato inammissibile. Il motivo è inammissibile perchè si tratta di critica dell’esercizio dei poteri istruttori discrezionali del giudice di merito, e non di censura di omesso esame di fatto decisivo, che non viene neppure individuato dal ricorrente.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alla maggiorazione del 15% quale rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2019

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