Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21042 del 11/09/2017


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Cassazione civile, sez. II, 11/09/2017, (ud. 08/06/2017, dep.11/09/2017),  n. 21042

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15491/2013 proposto da:

ITALEASE GESTIONE BENI S.P.A., in persona del procuratore speciale

alle liti Banco Popolare Società Cooperativa per atto del

18/4/2011, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI

17, presso lo studio dell’Avvocato ROBERTO SANTUCCI e rappresentata

e difesa dall’Avvocati SALVATORE SANZO;

– ricorrente –

contro

S.R.L. CIT INVEST in a.s., S.R.L. CIT HOTELS in a.s., S.P.A. VACANZE

ITALIANE in a.s., S.P.A. ELECTA in a.s., S.P.A. LA COMPAGNIA DELLE

VACANZE in a.s., S.P.A. PROGETTO ITALIANO in a.s., S.P.A. CIT

COMPAGNIA ITALIANA TURISMO in a.s., elettivamente domiciliate a

ROMA, VIA LIMA 48, presso lo studio dell’Avvocato GIORGIO MEO e

rappresentate e difese dall’Avvocato MATTEO RESCIGNO e avv. GIORGIO

MEO;

e

V.G., elettivamente domiciliato a ROMA, VIA XX

SETTEMBRE 26, presso lo studio dell’Avvocato GAETANO TASCA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’Avvocato LUCA PERRONE;

– controricorrenti –

nonchè

la S.P.A. FONDIARIA-SAI, oggi S.P.A. UNIPOLSAI ASSICURAZIONI,

elettivamente domiciliata a ROMA, VIA EMANUELE GIANTURCO 6, presso

lo studio dell’Avvocato FILIPPO SCIUTO, che la rappresenta e

difende, anche disgiuntamente, con l’Avvocato CARLINO SCOFONE;

– ricorrente incidentale –

G.G. e T.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1397/2012 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 23/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

08/06/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il PUBBLICO MINISTERO, in persona del SOSTITUTO PROCURATORE

GENERALE, Dott. PEPE Alessandro, il quale ha concluso per il rigetto

del ricorso e la dichiarazione di estinzione del giudizio tra la

ricorrente e la S.P.A. UNIPOLSAI ASSICURAZIONI;

sentito, per la società ricorrente, l’Avvocato DIANA BURRONI;

sentito, per il controricorrente l’Avvocato LUCA PERRONE.

Fatto

I FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Milano, con sentenza dell’11.14/7/2008, pronunciando sulle domande proposte dalla s.r.l. Cit Invest in a.s., s.r.l. Cit Hotels in a.s., s.p.a. Vacanze Italiane in a.s., s.p.a. Electa in a.s., s.p.a. La Compagnia delle Vacanze in a.s. e s.p.a. Progetto Italiano in a.s. nei confronti della s.p.a. Italease Gestione Beni e della s.p.a. Fondiaria-Sai, con la chiamata in causa della s.p.a. Cit Compagnia Italiana Turismo in a.s., di V.G., G.G. ed T.A., ha dichiarato la nullità, per violazione del divieto del patto commissorio, dei contratti di compravendita, preliminare di vendita e locazione aventi ad oggetto il Villaggio Turistico “(OMISSIS)”, stipulati in data 27/3/2001 tra la s.p.a. SGB, poi s.p.a. Italease Gestione Beni, le società attrici e la s.p.a. Cit, ed ha, quindi, condannato la s.p.a. Italease Gestione Beni alla restituzione, in favore della Cit Invest in a.s., del complesso turistico-alberghiero “(OMISSIS)”.

Il tribunale, inoltre, per quanto ancora rileva, ha dichiarato la litispendenza della causa relativa alla polizza fideiussoria rilasciata il 27/3/2001 dalla Sai in favore della Italease su richiesta delle s.p.a. Electa, con altro giudizio pendente innanzi al Tribunale di Firenze, ed ha, infine, respinto le domande da quest’ultima proposte nei confronti dei terzi chiamati in causa V.G., G.G. ed T.A..

La s.p.a. Italease Gestione Beni ha proposto appello chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, il rigetto delle domande proposte nei suoi confronti e la declaratoria di inammissibilità delle domande tardivamente proposte ed, in subordine, la condanna al risarcimento dei danni nei confronti degli appellati V., G. e T. nonchè della Fondiaria-Sai.

Le società in amministrazione straordinaria hanno chiesto il rigetto dell’appello.

La Fondiaria-Sai ha chiesto la dichiarazione di nullità della polizza fideiussoria in relazione alla quale è stata dichiarata la litispendenza.

V.G. e G.G. hanno chiesto la conferma della sentenza mentre T.A. non si è costituto.

La corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 23/4/2012, ha riformato la sentenza nella parte in cui ha condannato la s.p.a. Italease Gestione Beni alla restituzione alla Cit Invest in a.s. del complesso turistico-alberghiero “(OMISSIS)”, confermando, per il resto, la sentenza appellata.

La corte, dopo aver premesso che sono inammissibili i capitoli di prova orale della cui mancata ammissione si è doluta all’appellante perchè, in parte, vertenti su circostanze generiche ed, in altra parte, ininfluenti o irrilevanti, ha rilevato, a sostegno della decisione assunta, che le risultanze di causa hanno dimostrato il collegamento negoziale e giuridico (non contestato dalla stessa appellante) che il tribunale ha accertato tra i contratti impugnati dalle società attrici: ed infatti, – ha osservato la corte – tali contratti, e cioè il contratto di compravendita, il preliminare di retrovendita ed il contratto di locazione, aventi ad oggetto il Villaggio Turistico “(OMISSIS)” e contestualmente stipulati in data 27/3/2001 tra la s.p.a. SGB, poi s.p.a. Italease Gestione Beni, e le società del Gruppo Cit, miravano ad ottenere l’erogazione di un finanziamento dalla SGB in favore della Cit Invest con la garanzia costituita dalla “… provvisoria vendita del complesso immobiliare, il cui utilizzo avrebbe potuto permanere in capo alla venditrice a titolo di locazione sino al termine previsto per la restituzione del finanziamento e la retrovendita dell’immobile stesso, mentre, in caso di inadempimento, la soc. SGB avrebbe incassato la prevista penale di 11 miliardi di Lire, garantita da fideiussione a prima richiesta, e ritenuto definitivamente gli immobili”; “tali dati dai fatto – ha rilevato ancora la corte unitamente alle difficoltà economiche del Gruppo Cit, alla sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente nonchè tra le rispettive prestazioni, alla temporaneità della vendita e della locazione, costituiscono dunque… elementi sintomatici atti a evidenziare che la vendita è stata posta in essere in funzione di garanzia ed era volta, pertanto, ad aggirare il divieto del patto commissorio”; in particolare, ha aggiunto la corte: “quanto alla sproporzione tra il valore commerciale degli immobili trasferiti alla soc. SGB ed il corrispettivo da questa per essi versato, come esattamente rilevato dal Tribunale è documentalmente provato e sostanzialmente ammesso dalla stessa appellante che, a fronte del valore commerciale del compendio immobiliare concordemente riconosciuto dalle parti di 22 miliardi di Lire, il Gruppo Cit incasso soltanto 17,5 miliardi”; “a fronte di tale incasso, Cit avrebbe dovuto versare per il riacquisto dell’immobile ben 26,817 miliardi di Lire, oltre a 181 milioni di Lire per ogni anno di durata del preliminare ed oltre a 16,65 miliardi di Lire per canoni di locazione e, in caso di inadempimento, una penale di 11 miliardi di Lire, oltre naturalmente la perdita definitiva del complesso immobiliare”; “… con il contratto di locazione… venne previsto a carico di Cit Hotels il canoni di 1,850 miliardi di Lire, laddove il canone sino ad allora da essa pagato era meno della metà (850 milioni di Lire)” e, come accertato dal tribunale, “… posto che ai sensi degli artt. 1599 e 1602 c.c., l’acquirente sarebbe subentrata nel previgente contratto, la stipulazione di un nuovo contratto a condizioni così macroscopicamente svantaggiose si rivela del tutto ingiustificata e sintomatica, viceversa, della reale funzione di corrispettivo del mutuo delle somme stabilite per canone”; “il carattere di provvisorietà del trasferimento degli immobili, inoltre, era incontrovertibilmente palesato dalla contestuale stipulazione del preliminare di retrovendita, con obbligo per la promissaria acquirente di pagamento annuale di ben 1,5 miliardi a titolo di cauzione infruttifera, con l’evidente funzione di assicurare in ogni caso a SGB la restituzione del finanziamento ed il mantenimento della proprietà dei beni sino alla fine”; “… il Gruppo societario Cit versava nell’urgente necessità di ottenere un ingente finanziamento in denaro, vuoi per la pregressa assunzione dell’impegno di realizzare un progetto turistico che richiedeva enorme investimenti (364 miliardi di Lire), vuoi per la già ottenuta concessione di un finanziamento pubblico, rilevante (100 miliardi di Lire) ma insufficiente per la realizzazione del programma…, vuoi anche, verosimilmente, per la già latente preesistenza di una situazione di difficoltà finanziaria, prodromica della crisi che, infatti, ha portato alla messa in amministrazione straordinaria di tutte le società del Gruppo”; “risulta altresì che Cit invest si rivolse per il finanziamento alla Banca Italease, la quale la indirizzò alla SGB… la quale, dunque, era a conoscenza della descritta situazione di bisogno”.

La corte, quindi, dall’accertato collegamento negoziale dei tre contratti ha tratto la convinzione che “il meccanismo negoziale attraverso il quale doveva compiersi il trasferimento dei beni immobili” sia stato “effettivamente finalizzato non già alla funzione di scambio, bensì ad uno scopo di garanzia, con la conseguente nullità degli stessi per violazione del divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c.”, confermando, per l’effetto, la dichiarazione dei nullità dei tre contratti del 27/1/2013 e, di conseguenza, delle polizze fideiussorie e della fideiussione già ritenute tali dal tribunale.

La corte ha, invece, dichiarato l’inammissibilità della domanda di restituzione del complesso immobiliare, riformando, sul punto, la sentenza appellata, sul rilievo che tale domanda era stata proposta solo in sede di udienza di precisazione delle conclusioni ed era, quindi, tardiva.

La corte, inoltre, dichiarando l’inammissibilità delle prove orali invocate, ha confermato la sentenza pronunciata dal tribunale nella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni che, a norma dell’art. 2043 c.c., la società appellante aveva proposto nei confronti di V., G. e T. nonchè della Fondiaria – Sai, rilevando, per un verso, che la ricorrente, peraltro consapevole dell’urgente necessità del Gruppo Cit di ottenere finanziamenti, non può dolersi della stipulazione di contratti nulli per violazione del divieto del patto commissario, della cui illiceità è stata partecipe, e, per altro verso, che non ha provato nè specificamente allegato nell’atto di appello alcuna determinata condotta colpevole di V., G. e T. e della Fondiaria – Sai.

La corte, infine, ha rigettato l’appello incidentale proposto da Fondiaria – Sai in ordine alla dichiarata litispendenza rispetto al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo pendente innanzi al Tribunale di Firenze, rilevando che il decreto ingiuntivo opposto è stato notificato in data 18/3/2005, e cioè prima del presente procedimento, introdotto con citazione notificata in data 21/3/2005.

La s.p.a. Italease Gestione Beni, con ricorso notificato in data 10/6/2013 alle società in amministrazione straordinaria presso l’avv. Matteo Rescigno, in data 11/6/2013 alla s.p.a. Fondiaria-Sai presso l’avv. Ruggiero Barile, in data 10.11/6/2013 a G.G. ed a V.G. presso l’avv. Luca Perrone, ed il 10/6/2013 ad T.A., contumace nel giudizio di appello (manca l’avviso: sembra tornata per incompletezza dell’indirizzo), e depositato il 28/6/2013, ha (tempestivamente, ai sensi del comb. disp. dell’art. 327, nel testo in vigore ratione temporis e art. 155 c.p.c., commi 4 e 5 e della L. n. 742 del 1969, art. 1, nel testo in vigore ratione temporis) chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza.

La s.r.l. Cit Invest in a.s., la s.r.l. Cit Hotels in a.s., la s.p.a. Vacanze Italiane in a.s., la s.p.a. Electa in a.s., s.p.a., la Compagnia delle Vacanze in a.s., la s.p.a. Progetto Italiano in a.s. e la s.p.a. CIT Compagnia Italiana Turismo in a.s. hanno resistito con controricorso notificato il 19/7/2013 e depositato il 23/9/2013.

Ha resistito anche la s.p.a. Fondiaria-Sai, con controricorso notificato in data 17.18/7/2013 e depositato in data 29/7/2013, nel quale, per l’ipotesi di accoglimento, anche parziale, del ricorso principale, ha proposto ricorso incidentale.

Ha resistito, infine, V.G., con controricorso notificato in data 22.23/7/2013 e depositato in data 26/9/2013.

Con atto depositato in data 1/6/2017 e sottoscritto dall’avv. Salvatore Sanzo, munito dei poteri previsti dall’art. 390 c.p.c., la s.p.a. Italease Gestione Beni ha dichiarato di rinunciare al ricorso nei confronti della la s.p.a. Fondiaria-Sai, oggi s.p.a. Unipolsai Assicurazioni, con la compensazione tra loro delle spese di lite.

La s.p.a. Fondiaria-Sai, oggi Unipolsai Assicurazioni con nota depositata il 18/6/2017, sottoscritta dall’avv. Carlo Scofone, munito dei poteri previsti dall’art. 390 c.p.c., ha dichiarato di rinunciare al controricorso ed al ricorso incidentale proposto nei confronti della s.p.a. Italease Gestione Beni, con la compensazione tra loro delle spese di lite.

La ricorrente, infine, ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

1.In via preliminare, la Corte dà atto che la s.p.a. Italease Gestione Beni ha dichiarato di rinunciare al ricorso nei confronti della la s.p.a. Fondiaria-Sai, oggi s.p.a. Unipolsai Assicurazioni, con la compensazione tra loro delle spese di lite, e che la s.p.a. Fondiaria-Sai, oggi s.p.a. Unipolsai Assicurazioni ha dichiarato di rinunciare al controricorso ed al ricorso incidentale proposto nei confronti della s.p.a. Italease Gestione Beni, con la compensazione tra loro delle spese di lite.

La Corte, pertanto, a norma dell’art. 391 c.p.c., deve dichiarare l’estinzione del giudizio nei confronti di tali parti.

2. Con il primo motivo, intitolato “omessa o insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, la società ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per aver affermato la sussistenza di una violazione del divieto del patto commissorio sulla base di mere presunzioni, senza il compimento di alcuna attività istruttoria e con una motivazione sviluppata in forma assiomatica, che, senza pronunciarsi in modo consapevole sulle molteplici censure, analitiche ed assorbenti, svolte sul punto dall’appellante con l’atto di appello, ha respinto l’impugnazione reiterando i principi affermati dal giudice di primo grado e ribadendone acriticamente le statuizioni.

La sentenza della corte d’appello, infatti, non contiene rileva la ricorrente – alcun passaggio che tenga conto delle diffuse argomentazioni svolte dalla parte appellante per confutare la sussistenza degli indici necessari a fondare, a fronte di negozi in sè leciti, la prova presuntiva della violazione della norma prevista dall’art. 2744 c.c., in tal modo integrando l’omessa o insufficiente valutazione di fatti decisivi per la controversia: fatti che, se correttamente apprezzati, avrebbero condotto all’affermazione della perfetta liceità dei contratti impugnati.

2.1. In particolare, ha osservato la ricorrente, la corte d’appello non ha minimente considerato che – come evidenziato nell’atto di appello – la qualificazione giuridica del rapporto in termini di spin off (o comunque di negozio avente una sua ragionevolezza e non convenuto allo scopo di eludere il divieto di cui all’art. 2744 c.c.) era stata fatta, in termini confessori, con documenti diretti a terzi estranei ai fatti di causa, da società del Gruppo CIT, in epoca anteriore alla stipulazione dei contratti poi impugnati, con la conseguente necessità, in mancanza di prova contraria rispetto ai fatti così documentati, che la domanda fosse rigettata.

2.2. La corte d’appello, inoltre – ha aggiunto la società ricorrente – non ha sviluppato una congrua motivazione quando ha affermato, sulla base di semplici indici presuntivi del tutto opinabili ed incerti, la sussistenza degli indici sintomatici della violazione del divieto del patto commissorio contenuto nell’art. 2744 c.c..

2.3. Ed infatti, quanto alla sussistenza di una significativa discrepanza tra il valore venale del complesso immobiliare compravenduto (pari, all’epoca, a 22 miliardi di Lire) e la somma effettivamente versata da I. a Cit Invest (pari a 17,5 miliardi di Lire), la corte d’appello si è limitata a recepire acriticamente l’affermazione del tribunale secondo la quale il prezzo effettivamente pagato deve essere determinato sottraendo al prezzo di acquisto la somma di Lire 4.500.000.000, “versati a titolo di cauzione in conto prezzo dalla promissaria acquirente Electa s.p.a.”: sennonchè, ha osservato la ricorrente, tale ragionamento – come già specificamente dedotto in appello – non tiene conto del fatto che ogni operazione di sale and lease back, della cui legittimità il tribunale non ha dubitato, prevede il versamento, al momento della stipulazione, del cd. maxi-canone da parte dell’utilizzatore in favore della società concedente.

2.4. Irrilevante – continua la ricorrente – è l’affermata provvisorietà dell’alienazione, cui il tribunale ha parimenti attribuito valenza indiziaria per dimostrare che l’operazione compiuta aveva violato il divieto previsto dall’art. 2744 c.c., posto che, come già dedotto in appello, nel sale and lease back il trasferimento del bene alla concedente non è mai provvisorio, fino a quando l’utilizzatore non riscatterà il bene.

2.5. Nè – ha osservato ancora la ricorrente – può rilevare la clausola che prevede il pagamento periodico della cauzione infruttifera: come già dedotto in appello, le cauzioni imputate a titolo di acconto sul prezzo, nella specie neppure versate, in caso di mancato perfezionamento dell’acquisto sarebbero state restituite al netto della penale.

2.6. Neppure rileva – ha aggiunto la ricorrente – la affermata sproporzione tra il prezzo di vendita incassato dalle società del Gruppo CIT ed il prezzo che le stesse avrebbero dovuto versare per riacquistare il bene, riguardando al più la domanda, proposta in via subordinata, di rescissione per lesione. Del resto, tale sproporzione è stata affermata sulla base di una mera ricostruzione contabile che, stravolgendo il senso dei contratti stipulati tra la IGB e le società del Gruppo CIT, ha ritenuto che la somma complessivamente mutuata è stata quantificata nel prezzo di acquisto versato da IGB (Lire 22.000.000.000), al netto della cauzione di Lire 4.500.000.000, per un totale di Lire 17.500.000.000, mentre il totale della somma da restituire è stata individuata nel prezzo pieno al quale la promissaria acquirente si sarebbe resa proprietaria del bene, vale a dire Lire 26.817.000.000, senza, cioè, dedurre la somma già versata al momento della stipulazione del preliminare di Lire 4.500.000.000, così determinando una differenza apparente ed erronea pari al doppio di quella effettiva.

2.7. La corte d’appello ha, poi, affermato l’esosità del canone di locazione convenuto tra IGB e Cit Hotel, omettendo, però, di considerare – ha osservato ancora la ricorrente – che, come documentalmente dimostrato, quel canone è risultato in linea con quanto indicato nella perizia redatta nell’interesse delle società attrici; del resto, non può darsi particolare rilevanza ad un canone di locazione pattuito tra società del medesimo gruppo.

2.8. La corte d’appello, infine, ha concluso la società ricorrente, ha affermato la sussistenza dello stato di bisogno e la sua conoscenza da parte della IGB senza tener conto di quanto dedotto dalla stessa nell’impugnazione della sentenza del tribunale, quando, in particolare, aveva eccepito che, pur a fronte del mancato assolvimento dell’onere della prova da parte delle società attrici, il primo giudice aveva erroneamente affermato che le società del Gruppo CIT avevano fatto ricorso all’operazione in questione perchè versavano in stato di bisogno laddove non può sostenersi che un imprenditore versi in stato di bisogno per il fatto stesso di aver chiesto un finanziamento, specie se si considera che, come dimostrato in primo grado, il Gruppo CIT ha ricevuto finanziamenti a fondo perduto per Lire 100.000.000.000.

3. Il motivo, sebbene ammissibile, non è fondato. Premesso che, nel caso in esame, la sentenza impugnata è stata depositata prima dell’11/9/2012 e che trova, dunque, applicazione l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore precedentemente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni con la L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, rileva la Corte che, ove nel ricorso per cassazione venga prospettato un vizio di motivazione della sentenza, il ricorrente, il quale denunzi l’insufficiente spiegazione logica relativa all’apprezzamento dei fatti della controversia o delle prove, non può limitarsi a prospettare una spiegazione di tali fatti e delle risultanze istruttorie con una logica alternativa – pur se essa sia supportata dalla possibilità o dalla probabilità di corrispondenza alla realtà fattuale essendo, invece, necessario che tale spiegazione logica alternativa appaia come l’unica possibile (Cass. n. 25927/2015, in motiv.).

Il riferimento al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implica, invero, che il fatto riguardo al quale la motivazione sulla ricostruzione della quaestio facti doveva essere contraddittoria, insufficiente od omessa, fosse stato oggetto di una valutazione tale da parte del giudice del merito da essere affetta da contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, non già nel senso dell’evidenza della mera possibilità della contraddizione o della mera possibilità dell’insufficiente considerazione o della mera possibilità di rilievo del fatto omesso, in modo tale da rendere soltanto possibile in via alternativa una motivazione diversa da quella resa dal giudice di merito sul fatto controverso, bensì nel senso che la contraddizione, l’insufficienza o l’omissione dovesse determinare la logica insostenibilità della motivazione resa da quel giudice (Cass. n. 17037/2015, per la quale, pertanto, “in tema di ricorso per cassazione, il riferimento – contenuto nell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, applicabile “ratione temporis”) – al “fatto controverso e decisivo per il giudizio” implicava che la motivazione della “quaestio facti” fosse affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che fosse tale da determinare la logica insostenibilità della motivazione”; in senso conf., Cass. n. 11892/2016, in motiv., secondo la quale, “l’esegesi del n. 5 tanto nella versione della riforma del 1950, quanto in quella della riforma del 2006, palesava che la deduzione del cattivo esercizio del potere di prudente apprezzamento di cui all’art. 116 c.p.c. e, dunque, della valutazione della prova, era deducibile solo evidenziando che detto esercizio fosse avvenuto con la conseguenza di determinare un esito del giudizio inteso alla ricostruzione del fatto probatorio del tutto insostenibile sul piano logico e non invece tale da suggerire solo la possibilità di un esito alternativo”).

Nel caso di specie, come visto, la società ricorrente ha, in effetti, dedotto che la sentenza impugnata non contiene una, motivazione che abbia dato sufficientemente conto della sussistenza degli indici necessari a fondare, a fronte di negozi in sè leciti, la prova presuntiva della violazione della norma prevista dall’art. 2744 c.c., ignorando fatti che, invece, se correttamente apprezzati, avrebbero condotto all’affermazione della perfetta liceità dei contratti impugnati.

Del resto, l’accertamento del carattere fittizio di un contratto di sale and lease back, per la presenza di indizi sintomatici di un’anomalia nello schema causale socialmente tipico del contratto in questione, costituisce un’indagine di fatto, insindacabile in sede di legittimità solo se adeguatamente e correttamente motivata (Cass. n. 9324/2003).

Stabilito, dunque, che il motivo è ammissibile, si tratta di stabiLire se è, o meno, fondato.

La Corte, come già accennato, ritiene che il motivo in esame non è fondato.

La corte territoriale ha, in effetti, reputato che le risultanze di causa abbiano provato il collegamento tra i contratti impugnati, e cioè il contratto di compravendita, il preliminare di retrovendita ed il contratto di locazione, aventi ad oggetto il Villaggio Turistico “(OMISSIS)” e contestualmente stipulati in data 27/3/2001 tra la s.p.a. SGB, poi s.p.a. Italease Gestione Beni, e le società del Gruppo Cit, in quanto volti, in realtà, ad ottenere l’erogazione di un finanziamento dalla SGB in favore della Cit Invest con la garanzia costituita dalla “… provvisoria vendita del complesso immobiliare”: solo che l’attribuzione del suo utilizzo alla stessa venditrice “… a titolo di locazione sino al termine previsto per la restituzione del finanziamento”, la contestuale “stipulazione del preliminare di retrovendita”, con l’impegno dell’acquirente alla retrovendita dell’immobile stesso”, e la previsione che, “… in caso di inadempimento, la soc. SGB avrebbe… ritenuto definitivamente gli immobili” costituiscono – ha rilevato la corte – “dati di fatto” che “unitamente alle difficoltà economiche del Gruppo Cit, alla sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente nonchè tra le rispettive prestazioni,…, costituiscono… elementi sintomatici atti a evidenziare…” che “il meccanismo negoziale” sia stato “… finalizzato non già alla funzione di scambio, bensì ad uno scopo di garanzia”, e cioè “con l’evidente funzione di assicurare in ogni caso a SGB la restituzione del finanziamento ed il mantenimento della proprietà dei beni sino alla fine”, traendone, quindi, la conclusione della “conseguente nullità” degli atti compiuti “per violazione del divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c.”.

Si tratta, come è evidente, di un ragionamento senz’altro idoneo a sorreggere, sul piano logico, le conclusioni esposte nella sentenza impugnata.

Il contratto di sale and lease back si configura come un’operazione negoziale complessa, frequentemente applicata nella pratica degli affari poichè risponde all’esigenza degli operatori economici di ottenere, con immediatezza, liquidità, mediante l’alienazione di un bene strumentale, di norma funzionale ad un determinato assetto produttivo e, pertanto, non agevolmente collocabile sul mercato, conservandone l’uso con la facoltà di riacquistarne la proprietà al termine del rapporto (Cass. 13580/2004).

L’operazione è, in concreto, attuata attraverso il collegamento tra il contratto con il quale un’impresa vende un bene strumentale di sua proprietà ad una società finanziaria (concedente), la quale ne paga il prezzo, ed il contratto con il quale quest’ultima, a sua volta, lo concede contestualmente in locazione alla stessa venditrice, verso il pagamento di un canone periodico e con la possibilità di riacquisto del bene al termine del contratto, per un prezzo normalmente molto inferiore al valore del bene.

La circostanza che il bene venduto rimanga, di regola, nella disponibilità del venditore, il quale continua ad usarlo corrispondendo canoni periodici e con la possibilità di riacquisto al termine del contratto, ha indotto dottrina e giurisprudenza a interrogarsi circa la liceità dell’operazione di lease back stanti le indubbie somiglianze tra questa fattispecie contrattuale e le alienazioni a scopo di garanzia: e, segnatamente, a chiedersi se e a quali condizioni sia possibile che il contratto di lease back possa costituire il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa (art. 1344 c.c.), ovvero che, sotto le spoglie del contratto in parola, si celi un patto commissorio vietato dall’art. 2744 c.c..

La giurisprudenza di legittimità è ormai pervenuta a ritenere, in linea di massima, che, almeno in astratto, lo schema contrattuale del lease back è valido, in quanto contratto d’impresa socialmente tipico, ferma la necessità di verificare, caso per caso, l’assenza di elementi patologici sintomatici di un contratto di finanziamento assistito da una vendita in funzione di garanzia, volto cioè ad aggirare, con intento fraudolento, il divieto di patto commissorio previsto dall’art. 2744 c.c. e pertanto sanzionabile, per illiceità della causa, con la nullità, ai sensi dell’art. 1344 c.c. cit., in relazione all’art. 1418 c.c., comma 2.

Ora, gli elementi ordinariamente sintomatici della frode alla legge sono essenzialmente tre, così individuati: 1) la presenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria (concedente) e l’impresa venditrice utilizzatrice, preesistente o contestuale alla vendita; 2) le difficoltà economiche dell’impresa venditrice, legittimanti il sospetto di un approfittamento della sua condizione di debolezza; 3) la sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente, che confermi la validità di tale sospetto (Cass. n. 25552/2008, in motiv.; Cass. 13580/2004).

Soltanto il loro concorso vale a fondare ragionevolmente la presunzione che il lease back, contratto d’impresa per sè lecito, sia stato in concreto impiegato per eludere il divieto di patto commissorio e sia pertanto nullo perchè in frode alla legge (Cass. n. 5438/2006, in motiv.).

L’art. 2744 c.c., costituisce, infatti, una norma materiale, destinata a trovare applicazione non soltanto in relazione alle alienazioni a scopo di garanzia sospensivamente condizionate all’inadempimento del debitore, ma anche a quelle immediatamente traslative risolutivamente condizionate all’adempimento del debitore (Cass. SU n. 1611/1989).

Detta norma esprime un divieto di risultato, mirando a difendere il debitore da illecite coercizioni del creditore, assicurando nel contempo la garanzia della par condicio creditorum.

E’ tale risultato che giustifica il divieto di legge, non i mezzi impiegati: con la conseguenza che, ove, sulla base della corretta qualificazione della fattispecie, il versamento del denaro non costituisca il pagamento del prezzo, ma l’esecuzione di un mutuo e il trasferimento del bene non integri l’attribuzione al compratore, bensì l’atto costitutivo di una posizione di garanzia innegabilmente provvisoria, manca la funzione di scambio tipica del contratto di compravendita e si realizza proprio il negozio vietato dalla legge (Cass. n. 1675/2012, in motiv.).

Peraltro, poichè il divieto del patto commissorio va interpretato non secondo un criterio formalistico e strettamente letterale, ma secondo un criterio ermeneutico e funzionale, finalizzato ad una più efficace tutela del debitore e ad assicurare la par condicio creditorum, il patto commissorio con la conseguente sanzione di nullità – è ravvisabile anche rispetto a più negozi tra loro collegati, qualora scaturisca un assetto di interessi complessivo tale da far ritenere che il meccanismo negoziale attraverso il quale deve compiersi il trasferimento di un bene del creditore sia effettivamente collegato, piuttosto che alla funzione di scambio, ad uno scopo di garanzia, a prescindere dalla natura meramente obbligatoria, o traslativa, o reale del contratto, ovvero dal momento temporale in cui l’effetto traslativo sia destinato a verificarsi, nonchè dagli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e, persino, dalla identità dei soggetti che abbiano stipulato i negozi collegati, complessi o misti, sempre che tra le diverse pattuizioni sia ravvisabile un rapporto di interdipendenza e le stesse risultino funzionalmente preordinate allo scopo finale di garanzia (Cass. n. 9466/2004).

Nel caso in esame, la corte di merito ha accertato, con motivazione completa e coerente, la sussistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima nonchè la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente, evidenziando, in particolare:

quanto al rapporto di credito e debito tra la società acquirente e la venditrice, che “… con il contratto di locazione… venne previsto a carico di Cit Hotels il canone di 1,850 miliardi di Lire…”, avente, in realtà, la “reale funzione di corrispettivo del mutuo”;

“quanto alla sproporzione tra il valore commerciale degli immobili trasferiti alla soc. SGB ed il corrispettivo da questa per essi versato,… che, a fronte del valore commerciale del compendio immobiliare concordemente riconosciuto dalle parti di 22 miliardi di lire, il Gruppo Cit incassò soltanto 17,5 miliardi” e che “a fronte di tale incasso, Cit avrebbe dovuto versare per il riacquisto dell’immobile ben 26,817 miliardi di Lire, oltre a 181 milioni di Lire per ogni anno di durata del preliminare ed oltre a 16,65 miliardi di Lire per canoni di locazione e, in caso di inadempimento, una penale di 11 miliardi di Lire, oltre naturalmente la perdita definitiva del complesso immobiliare”;

quanto, infine, alla difficoltà economiche della società utilizzatrice ed alla loro conoscenza da parte della società acquirente, che “… il Gruppo societario Cit versava nell’urgente necessità di ottenere un ingente finanziamento in denaro, vuoi per la pregressa assunzione dell’impegno di realizzare un progetto turistico che richiedeva enorme investimenti (364 miliardi di Lire), vuoi per la già ottenuta concessione di un finanziamento pubblico, rilevante (100 miliardi di Lire) ma insufficiente per la realizzazione del programma…, vuoi anche, verosimilmente, per la già latente preesistenza di una situazione di difficoltà finanziaria, prodromica della crisi che, infatti, ha portato alla messa in amministrazione straordinaria di tutte le società del Gruppo”, e che “… Cit Invest si rivolse per il finanziamento alla Banca Italease, la quale la indirizzo alla SGB… la quale, dunque, era a conoscenza della descritta situazione di bisogno”.

Nè la plausibilità di tale accertamento è scalfita dai rilievi svolti al riguardo dalla società ricorrente.

Escluso, infatti, ogni rilievo alla qualificazione giuridica (asseritamente confessoria) del rapporto in termini di spin off (o comunque di negozio avente una sua ragionevolezza e non convenuto allo scopo di eludere il divieto di cui all’art. 2744 c.c.) contenuta in documenti trasmessi a terzi da società del Gruppo CIT, posto che la confessione non può che avere ad oggetto il riconoscimento della verità di fatti storici e non certo un giudizio in ordine alla loro natura giuridica, la cui attribuzione spetta, infatti, solo al giudice (Cass. n. 11881/2003), la Corte osserva che, per ciò che riguarda l’affermata insussistenza della discrepanza tra il valore venale del complesso immobiliare compravenduto (pari a 22 miliardi di Lire) ed il prezzo della vendita effettivamente incassato (pari a 17,5 miliardi di Lire), la censura svolta dalla ricorrente, secondo la quale la corte d’appello si è acriticamente limitata a recepire, sul punto, l’affermazione del tribunale per cui il prezzo effettivamente pagato doveva essere determinato sottraendo al prezzo di acquisto la somma di Lire 4.500.000.000, “versati a titolo di cauzione in conto prezzo dalla promissaria acquirente Electa s.p.a.”, non tiene conto del fatto che la sentenza della corte d’appello (integralmente sostitutiva di quella del tribunale) si è limitata ad affermare, in ordine “alla sproporzione tra il valore commerciale degli immobili trasferiti alla soc. SGB ed il corrispettivo da questa per essi versato”, che, “… a fronte del valore commerciale del compendio immobiliare concordemente riconosciuto dalle parti di 22 miliardi di Lire, il Gruppo Cit incasso soltanto 17,5 miliardi”, senza fare alcun riferimento al fatto che il prezzo effettivamente pagato dovesse essere determinato sottraendo dal prezzo di acquisto la somma di Lire 4.500.000.000, “versati a titolo di cauzione in conto prezzo dalla promissaria acquirente Electa”: era, quindi, necessario, perchè la censura in esame fosse efficacemente scrutinabile, che la ricorrente, evidentemente dolutasi dell’erronea valutazione dei relativi documenti contrattuali, avesse adempiuto al duplice onere imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 – di produrli agli atti, indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovassero, e di indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso (Cass. n. 19048/2016).

Per ciò che riguarda, invece, l’affermata provvisorietà dell’alienazione, cui il tribunale avrebbe parimenti attribuito valenza indiziaria per dimostrare che l’operazione compiuta aveva violato il divieto previsto dall’art. 2744 c.c., la Corte rileva come, sul punto, il giudice distrettuale, la cui pronuncia come detto – sostituisce integralmente quella del primo – si sia limitato ad affermare che “il carattere di provvisorietà del trasferimento degli immobili… era incontrovertibilmente palesato dalla contestuale stipulazione del preliminare di retrovendita…”: vale a dire nient’altro che una caratteristica tipica della figura in esame e non un indizio della sua natura fraudolenta, evidenziata, piuttosto, dal rilievo successivo con il quale la corte d’appello ha evidenziato l'”… obbligo per la promissaria acquirente di pagamento annuale di ben 1,5 miliardi a titolo di cauzione infruttifera, con l’evidente funzione di assicurare in ogni caso a SGB la restituzione del finanziamento ed il mantenimento della proprietà dei beni sino alla fine”.

La ricorrente, al riguardo, si è limitata ad osservare che la clausola che prevede il pagamento periodico della cauzione infruttifera non è rilevante poichè “le cauzioni imputate a titolo di acconto sul prezzo… nell’ipotesi di mancato perfezionamento dell’acquisto, sarebbero state restituite al netto della penale”.

Tale censura, però, oltre a non cogliere la ratio decidendi che sorregge la motivazione sul punto della corte d’appello, che ha evidenziato solo come tali cauzioni annuale avevano la funzione di assicurare in ogni caso a SGB la restituzione del finanziamento ed il mantenimento della proprietà dei beni fino alla fine, è, al pari di quella prima esaminata, inammissibile: la ricorrente, infatti, lamentando l’erronea valutazione dei relativi documenti contrattuali, avrebbe dovuto non solo produrli agli atti, indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovassero, ma anche indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso.

La stessa conclusione s’impone per il rilievo con il quale la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato una insussistente sproporzione tra il prezzo di vendita incassato dalle società del Gruppo CIT ed il prezzo che le stesse avrebbero dovuto versare per riacquistare il bene, deducendo che, in realtà, tale sproporzione è stata affermata sulla base di una mera ricostruzione contabile che, stravolgendo il senso dei contratti stipulati tra la IGB e le società del Gruppo CIT, ha ritenuto che la somma complessivamente mutuata è stata quantificata nel prezzo di acquisto versato da IGB (Lire 22.000.000.000), al netto della cauzione di Lire 4.500.000.000, per un totale di Lire 17.500.000.000, mentre il totale della somma da restituire è stata individuata nel prezzo pieno al quale la promissaria acquirente si sarebbe resa proprietaria del bene, vale a dire Lire 26.817.000.000, senza, cioè, dedurre la somma già versata al momento della stipulazione del preliminare di Lire 4.500.000.000, così determinando una differenza apparente ed erronea pari al doppio di quella effettiva.

Intanto, la corte d’appello ha accertato la sproporzione sul ben più ampio rilievo, non censurato in tutta la sua ampiezza, che “Cit avrebbe dovuto versare per il riacquisto dell’immobile ben 26,817 miliardi di Lire, oltre a 181 milioni di Lire per ogni anno di durata del preliminare ed oltre a 16,65 miliardi di Lire per canoni di locazione”.

La ricorrente, del resto, lamentando anche qui l’erronea valutazione dei relativi documenti contrattuali, avrebbe dovuto quanto meno indicarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso.

Quanto, poi, al rilievo con il quale la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato l’esosità del canone di locazione convenuto tra IGB e Cit Hotel senza considerare che quel canone è risultato in linea con quanto indicato nella perizia redatta nell’interesse delle società attrici, la Corte si limita ad osservare che anche tale deduzione è inammissibile, essendo noto – come più volte detto – che il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il duplice onere, imposto a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte.

Quanto, infine, al rilievo con il quale la società ricorrente ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato la sussistenza dello stato di bisogno e la sua conoscenza da parte della IGB per il sol fatto che le società del Gruppo CIT avevano fatto ricorso all’operazione in questione, non potendosi sostenere che “ogni qual volta un imprenditore richiede un finanziamento (di qualsivoglia natura), egli versa in stato di bisogno per il fatto stesso di avere richiesto il finanziamento”, la Corte osserva che l’accertamento operato sul punto dal giudice di merito è ben più ampio di quanto la ricorrente voglia far credere: la corte d’appello, infatti, ha sul punto evidenziato che “il Gruppo societario Cit versava nell’urgente necessità di ottenere un ingente finanziamento in denaro, vuoi per la pregressa assunzione dell’impegno di realizzare un progetto turistico che richiedeva enorme investimenti (364 miliardi di Lire), vuoi per la già ottenuta concessione di un finanziamento pubblico, rilevante (100 miliardi di Lire) ma insufficiente per la realizzazione del programma…, vuoi anche, verosimilmente, per la già latente preesistenza di una situazione di difficoltà finanziaria, prodromica della crisi che, infatti, ha portato alla messa in amministrazione straordinaria di tutte le società del Gruppo”, e che è altresì risultato che “… Cit invest si rivolse per il finanziamento alla Banca Italease, la quale la indirizzo alla SGB… la quale, dunque, era a conoscenza della descritta situazione di bisogno”.

4. Con il secondo motivo, intitolato “violazione degli artt. 1344,1345,1418 e 2744 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3)”, la società ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per aver ritenuto che il meccanismo negoziale attraverso il quale doveva compiersi il trasferimento dei beni immobili sia stato finalizzato non già alla funzione di scambio, bensì ad uno scopo di garanzia, con la conseguente nullità per violazione del divieto del patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c., laddove, al contrario, come afferma la Corte di Cassazione, non tutte le alienazioni operate anche con scopo di garanzia sono nulle, essendo a tal fine necessario che la garanzia comporti una coercizione del debitore, che si manifesta attraverso il trasferimento del bene ad un valore significativamente più basso del suo valore effettivo, con conseguente lesione della par condicio creditorum: nella specie, invece, ha evidenziato la ricorrente, il prezzo versato quale corrispettivo per l’acquisto era congruo, così come congruo è stato stimato il corrispettivo previsto per la locazione del bene, con la conseguenza che la corte d’appello ha dato luogo ad una falsa applicazione dell’art. 2744 c.c., al di fuori dei presupposti previsti dalla legge.

5. Il motivo è infondato. Come detto, la giurisprudenza di legittimità ritiene che, in linea di massima, lo schema contrattuale del lease back è valido, in quanto contratto d’impresa socialmente tipico, ferma restando, tuttavia, la necessità di verificare, caso per caso, l’assenza di elementi patologici sintomatici di un contratto di finanziamento assistito da una vendita in funzione di garanzia, volto cioè ad aggirare, con intento fraudolento, il divieto di patto commissorio previsto dall’art. 2744 c.c., come accade, in particolare, quando concorrano i seguenti elementi: 1) la presenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria (concedente) e l’impresa venditrice utilizzatrice, preesistente o contestuale alla vendita; 2) le difficoltà economiche dell’impresa venditrice, legittimanti il sospetto di un approfittamento della sua condizione di debolezza; 3) la sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente, che confermi la validità di tale sospetto. La contestuale sussistenza di tali presupposti, infatti, fonda la ragionevole presunzione che il lease back, contratto d’impresa per sè lecito, sia stato in concreto impiegato per eludere il divieto di patto commissorio e sia pertanto nullo perchè in frode alla legge.

Nel caso in esame, come in precedenza visto, la corte di merito, con apprezzamento in fatto non (più) sindacabile, ha accertato la sussistenza di una situazione di credito e debito tra la società finanziaria e l’impresa venditrice utilizzatrice, le difficoltà economiche di quest’ultima nonchè la sproporzione tra il valore del bene trasferito ed il corrispettivo versato dall’acquirente.

In particolare, quanto al rapporto di credito e debito tra la società acquirente e la venditrice, ha ritenuto che “… con il contratto di locazione… venne previsto a carico di Cit Hotels il canone di 1,850 miliardi di Lire…”, avente, in realtà, la “reale funzione di corrispettivo del mutuo”.

“Quanto alla sproporzione tra il valore commerciale degli immobili trasferiti alla soc. SGB ed il corrispettivo da questa per essi versato”, la corte d’appello ha rilevato “che, a fronte del valore commerciale del compendio immobiliare concordemente riconosciuto dalle parti di 22 miliardi di Lire, il Gruppo Cit incassò soltanto 17,5 miliardi” e che “a fronte di tale incasso, Cit avrebbe dovuto versare per il riacquisto dell’immobile ben 26,817 miliardi di Lire, oltre a 181 milioni di Lire per ogni anno dí durata del preliminare ed oltre a 16,65 miliardi di Lire per canoni di locazione e, in caso di inadempimento, una penale di 11 miliardi di Lire, oltre naturalmente la perdita definitiva del complesso immobiliare”;

Quanto, infine, alla difficoltà economiche della società utilizzatrice ed alla loro conoscenza da parte della società acquirente, la sentenza impugnata evidenzia che “… il Gruppo societario Cit versava nell’urgente necessità di ottenere un ingente finanziamento in denaro, vuoi per la pregressa assunzione dell’impegno di realizzare un progetto turistico che richiedeva enorme investimenti (364 miliardi di Lire), vuoi per la già ottenuta concessione di un finanziamento pubblico, rilevante (100 miliardi di Lire) ma insufficiente per la realizzazione del programma…, vuoi anche, verosimilmente, per la già latente preesistenza di una situazione di difficoltà finanziaria, prodromica della crisi che, infatti, ha portato alla messa in amministrazione straordinaria di tutte le società del Gruppo”, e che “… Cit Invest si rivolse per il finanziamento alla Banca Italease, la quale la indirizza alla SGB… la quale, dunque, era a conoscenza della descritta situazione di bisogno”.

6. Con il terzo motivo, intitolato “violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. in correlazione con gli artt. 2729 e 2744 (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3)”, la ricorrente ha censurato la sentenza gravata per aver omesso di considerare tutti gli elementi istruttori portati all’attenzione del tribunale e, poi, attraverso la deduzione di specifici motivi di impugnazione, anche all’attenzione della corte d’appello, completamente trascurando: – le dichiarazioni rese dalle attrici in primo grado a terzi, con lettera del 18/11/2000 e comunicazione del 5/12/2000, con le quali si esprimeva l’intenzione di realizzare la ristrutturazione della proprietà immobiliare con un’operazione di spiri off immobiliare, quando non esisteva alcun rapporto con il Gruppo Banca Italease; – le richieste di prove orali formulate (e riprodotte in appello) per far dichiarare ai soggetti che quei negozi avevano concepito ed attuato quale fosse la volontà dei contraenti ed il contesto storico in cui i negozi furono posti in essere; – l’istruttoria necessaria per appurare se effettivamente vi sia stata sproporzione tra il prezzo convenuto ed il valore del bene oggetto della compravendita e se vi sia stata sproporzione nell’ammontare del canone di locazione convenuto tra le parti.

I giudici di merito, invece, ha osservato la ricorrente, hanno fondato la pronuncia di nullità dei contratti sulla base di meri indici presuntivi, utilizzabili solo a seguito di una approfondita indagine sui fatti posti a loro fondamento, che devono essere molteplici, precisi e concordanti, trascurando, in particolare, di considerare che la sussistenza dello stato di bisogno delle società attrici era smentito dalla produzione documentale della ricorrente e che nessuna prova è stata offerta in ordine al fatto che le società del Gruppo CIT non avessero avuto accesso alle ordinarie forme di finanziamento.

7. Il motivo è inammissibile. Le presunzioni semplici consistono, infatti, nel ragionamento del giudice, il quale, una volta acquisita, tramite fonti materiali di prova (o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione) la conoscenza di un fatto secondario, deduce da questo l’esistenza del fatto principale ignoto. L’apprezzamento del giudice di merito circa il ricorso a tale mezzo di prova e la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di produzione, sono incensurabili in sede di legittimità, l’unico sindacato in proposito riservato al giudice di legittimità essendo quello sulla coerenza della relativa motivazione (Cass. n. 2431/2004).

Il motivo è, in ogni caso, infondato. La ricorrente, infatti, dichiaratamente censura la sentenza impugnata per aver omesso di considerare, “anche solo al fine di escluderne la rilevanza”, tutti gli elementi istruttori portati all’attenzione del tribunale e, poi, attraverso la deduzione di specifici motivi di impugnazione, anche all’attenzione della corte d’appello, senza, tuttavia, riprodurre, in ricorso, il contenuto di questi ultimi.

Ed è noto, invece, come sia inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione con il quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame (quali avrebbero dovuto essere quelli con cui l’appellante censura la sentenza del tribunale che avesse, in ipotesi, trascurato i predetti elementi istruttori), se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass. n. 17049/2015).

Nella specie, invece, sebbene sia chiaro che l’appellante si sia doluto della mancata ammissione delle prove orali (v. p. 20 della sentenza impugnata), i cui capitoli sono stati riprodotti tanto in sede di conclusioni d’appello v. p. 3, 4, 5 e 6 della sentenza impugnata), quanto in ricorso (v. p. 38, 39, nt. 2), non è altrettanto chiaro come la questione della loro mancata ammissione sia stata proposta in fase di appello.

Nè la società ricorrente ha specificamente contestato le ragioni che la corte d’appello ha addotto a sostegno della (conferma della declaratoria di) inammissibilità delle prove orali, vale a dire la genericità delle circostanze dedotte, la loro ininfluenza ed irrilevanza.

Irrilevante è, del resto, almeno ai fini desiderati dalla ricorrente, il contenuto dei documenti che la stessa richiama nella parte in cui si legge l’intenzione delle società attrici di realizzare la ristrutturazione della proprietà immobiliare con “un’operazione di spio off immobiliare”, trattandosi di una qualificazione del tutto priva di rilievo giuridico ed, in ogni caso, non esclusiva della sua illiceità ove diretta a frodare una norma imperativa quale l’art. 2744 c.c..

Quanto, infine, alla sproporzione tra il prezzo convenuto ed il valore del bene oggetto della compravendita, la corte d’appello ha, come visto, accertato, con apprezzamento non più sindacabile, “che, a fronte del valore commerciale del compendio immobiliare concordemente riconosciuto dalle parti di 22 miliardi di Lire, il Gruppo Cit incassò soltanto 17,5 miliardi” e che “a fronte di tale incasso, Cit avrebbe dovuto versare per il riacquisto dell’immobile ben 26,817 miliardi di lire, oltre a 181 milioni di Lire per ogni anno di durata del preliminare ed oltre a 16,65 miliardi di Lire per canoni di locazione…”.

8. Con il quarto motivo, intitolato “violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., in correlazione con l’art. 2043 (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3); omessa o insufficiente motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5)”, la ricorrente censura la sentenza impugnata per aver rigettato, per mancanza di prova della condotta colpevole, la domanda proposta, ai sensi dell’art. 2043 c.c., nei confronti dei terzi chiamati, laddove è la stessa corte d’appello ad aver omesso di dare ingresso alle prove richieste, così integrando, simultaneamente, sia violazione della disciplina in materia di prova che vizio di motivazione.

9. Il motivo è inammissibile.

La corte d’appello, infatti, con motivazione sufficiente e congrua, ha confermato la sentenza pronunciata dal tribunale nella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni che, a norma dell’art. 2043 c.c., la società appellante aveva proposto nei confronti di V., G. e T. nonchè della Fondiaria – Sai, sulla base di due rilievi: il primo è che la ricorrente non può dolersi della stipulazione di contratti nulli per violazione del divieto del patto commissario, della cui illiceità è stata partecipe; il secondo è che non ha specificamente allegato nell’atto di appello alcuna determinata condotta colpevole di V., G. e T. e della Fondiaria – Sai.

Entrambi i rilievi sono rimasti incontestati, avendo la ricorrente censurato la sentenza solo perchè ha ritenuto la domanda risarcitoria proposta infondata perchè priva del necessario supporto probatorio.

10. Il ricorso dev’essere, quindi, respinto.

11. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate, d’ufficio, in dispositivo.

12. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

 

La Corte così provvede: dichiara l’estinzione del giudizio tra la ricorrente e la s.p.a. Unipolsai-Assicurazioni e compensa tra loro le spese del giudizio; rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente a rimborsare le spese di lite, che liquida in Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, alle società controricorrenti in a.s., in solido tra loro, ed Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, in favore di V.G., oltre alle spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge. Dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 8 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2017

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