Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 21010 del 18/10/2016


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Cassazione civile sez. II, 18/10/2016, (ud. 18/05/2016, dep. 18/10/2016), n.21010

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. MATERA Lina – Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8600-2012 proposto da:

P.C., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

ANIENE 14, presso lo studio dell’avvocato CARLO FOSCO, rappresentato

e difeso dall’avvocato GIUSEPPE BARBARO;

– ricorrente –

contro

I.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA RICCARDO G.

LANTE, 78, presso lo studio dell’avvocato NICOLA DI NAPOLI,

rappresentata e difesa dall’avvocato RICCARDO OCCHINEGRO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 267/2011 della CORTE D’APPELLO di LECCE

sezione distaccata di TARANTO, depositata il 15/10/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/05/2016 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito l’Avvocato BARBARO Giuseppe, difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUZIO Riccardo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 22 gennaio 2000 la sig.ra I.A. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Taranto, sezione distaccata di Grottaglie, P.C., figlio delle prime nozze del defunto marito, per sentire dichiarare la revocazione della donazione della nuda proprietà dell’immobile sito in (OMISSIS), da lei effettuata in favore del suddetto P. con atto per notaio S.G. del 29 luglio 1994, per ingratitudine del donatario.

L’attrice esponeva che:

P.C., assieme alla sua famiglia, aveva instaurato con lei una coabitazione, durante la quale erano sorte incomprensioni che avevano reso insostenibile la convivenza;

ella aveva chiesto più volte a P.C. di lasciare l’immobile nella sua piena disponibilità;

il 14 giugno 1999 ella era stata costretta ad allontanarsi dalla sua abitazione in seguito ad una lite e, successivamente, non era più riuscita a rientrare nell’immobile, perchè P.C. aveva apposto un nuovo lucchetto al cancello di ingresso.

Si costituiva il convenuto, il quale esponeva che:

l’attrice era decaduta dall’azione di revocazione della donazione, poichè era trascorso il termine annuale di decadenza di cui all’art. 801 c.c., decorrente dalla completa conoscenza, da parte della donante, della causa di ingratitudine, già ampiamente nota all’attrice nel dicembre 1998, epoca delle prime richieste di rilascio del possesso dell’immobile;

– esso convenuto si era recato a vivere presso la donante su richiesta di quest’ultima.

Il Tribunale di Taranto, sezione distaccata di Grottaglie, con sentenza n. 123/06, accoglieva la domanda dell’attrice e revocava la donazione.

P.C. proponeva appello, chiedendo la riforma della sentenza impugnata.

La Corte di Appello di Lecce, con sentenza n. 207/11, rigettava l’appello.

A sostegno della propria decisione adottata la Corte di Appello di Lecce evidenziava che:

– sussisteva la denunciata ingiuria;

– non si era verificata l’eccepita decadenza.

P.C. proponeva ricorso per cassazione sulla base di tre motivi.

I.A. ha resistito con controricorso.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 18.5.16, per la quale non sono state depositate memorie illustrative ex art. 378 c.p.c. e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo P.C. lamenta la violazione dell’art. 802 c.c., nonchè l’omessa, apparente, illogica ed incongruente motivazione della sentenza in ordine all’individuazione del momento in cui I.A. avrebbe acquisito la consapevolezza dei fatti che giustificavano la domanda di revocazione della donazione.

Ad avviso del ricorrente, la corte territoriale avrebbe dovuto individuare nel dicembre del 1998 l’epoca in cui la resistente aveva conseguito detta consapevolezza.

La doglianza va respinta.

Ai sensi dell’art. 801 c.c., la domanda di revocazione per ingratitudine può essere proposta quando il donatario abbia commesso uno dei fatti previsti dai numeri 1, 2 e 3 dell’art. 463, ovvero si sia reso colpevole d’ingiuria grave verso il donante od abbia dolosamente arrecato grave pregiudizio al patrimonio di lui o gli abbia rifiutato indebitamente gli alimenti dovuti ai sensi degli artt. 433, 435 e 436.

In particolare, l’ingiuria grave richiesta, ex art. 801 c.c., quale presupposto necessario per la revocazione di una donazione per ingratitudine – la quale trae dal diritto penale il suo significato intrinseco e l’individuazione del bene leso, senza, però, essere del tutto sovrapponibile alle condotte di cui agli artt. 594 e 595 c.p. – consiste in un comportamento suscettibile di ledere in modo rilevante il patrimonio morale del donante ed espressivo di un reale sentimento di avversione da parte del donatario, tale da ripugnare alla coscienza collettiva (Cass., Sez. 2, n. 7487 del 31 marzo 2011).

Pertanto, in presenza di una pluralità di atti offensivi fra loro strettamente connessi, perchè possa iniziare a decorrere il termine decadenziale previsto dall’art. 802 c.c. – in base al quale “La domanda di revocazione per causa d’ingratitudine deve essere proposta dal donante o dai suoi eredi, contro il donatario o i suoi eredi, entro l’anno dal giorno in cui il donante è venuto a conoscenza del fatto che consente la revocazione” – deve guardarsi al momento in cui questi raggiungono un livello tale da non potere essere più ragionevolmente tollerati secondo una valutazione di normalità.

Nella specie, la corte territoriale ha ritenuto, con una motivazione logica e completa, che, benchè l’ingratitudine del donatario si fosse concretizzata in una progressione di atti ingiuriosi, era a partire dal giorno in cui tale progressione era arrivata al suo culmine che occorreva computare il termine di decadenza di cui all’art. 802 c.c., culmine che “si ebbe con la estromissione della donante dall’appartamento donato” del 14 giugno 1999.

La citazione introduttiva del giudizio di revocazione della donazione, risalente al 22 gennaio 2000, è dunque tempestiva rispetto al dies a quo individuato dalla corte di appello (14 giugno 1999). Ma detta citazione risulta tempestiva anche rispetto al diverso ed anteriore dies a quo individuato dal giudice di primo grado (a cui pure fa riferimento la sentenza di appello, con un salto logico che tuttavia non inficia la complessiva tenuta della relativa motivazione), ossia il momento in cui, ancora in costanza di coabitazione, la I. aveva esercitato nei confronti del P. un’ azione possessoria; azione che, nella narrativa del ricorso per cassazione, si precisa essere stata esercitata con ricorso ex art. 703 c.p.c. depositato il 26 aprile 1999 per la manutenzione del possesso di usufrutto della ricorrente sull’immobile in questione.

In definitiva quindi, secondo la stessa narrativa di fatto prospettata nel ricorso, il termine annuale per l’esercizio dell’azione di revocazione della donazione risulta tempestiva tanto con riferimento al momento in cui il comportamento ingiurioso del P. raggiunse, secondo il motivato l’apprezzamento della corte territoriale, il proprio culmine (giugno 1999), quanto con riferimento al momento il cui tale comportamento ingiurioso, senza essersi ancora spinto fino all’estromissione della donante dall’abitazione donata, aveva tuttavia raggiunto un grado così significativo da indurre la I. ad esperire un’azione di manutenzione del possesso (aprile 1999).

Con il secondo ed il terzo motivo (che possono essere trattati congiuntamente stante la loro stretta connessione) il ricorrente deduce la violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 801 c.c. e il vizio di omessa, apparente ed incongruente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

Ad avviso del ricorrente, la corte territoriale non aveva valutato il materiale istruttorio in maniera adeguata e conforme ai principi giurisprudenziali formatasi sull’art. 801 c.c., non rendendosi conto che la condotta dallo stesso tenuta nel giugno 1999 non doveva essere considerata ingiuriosa, ma essere valutata, alla luce del contesto in cui era la stessa era maturata, semplicemente come espressione di una reazione momentanea attribuibile ad un particolare stato emotivo di ansia, provocato da una violenta lite intervenuta in precedenza con la donante e dalla necessità di impedire che la resistente entrasse nell’immobile nelle ore più disparate e lo privasse del suo compossesso.

I motivi non possono trovare accoglimento.

La corte di appello ha espressamente esaminato gli elementi di prova emergenti dagli atti dei giudizi penali e civili svoltisi fra le parti e ne ha ricavato la convinzione che “il donatario P.C. ha consapevolmente, pervicacemente e reiteratamente compresso e/o negato il diritto di usufrutto che la donante si era riservata a vita, fino al punto da impedirle di rientrare nell’abitazione (l’unica di cui la donante disponesse, peraltro) apponendovi un lucchetto e comunque comportandosi come reale padrone della stessa”.

In particolare la corte territoriale, con un giudizio congruamente motivato, ha reputato la condotta del ricorrente palesemente ingrata, alla luce dell’ambiente, dell’istruzione, del temperamento e dell’educazione delle parti, e tale da legittimare il pentimento dell’anziana matrigna in ordine all’atto di liberalità.

Il ricorrente non condivide l’apprezzamento delle risultanze istruttorie operato dalla corte territoriale, ma non evidenzia specifici vizi logici o lacune argomentative nel ragionamento decisorio svolto nella sentenza gravata, limitandosi a contrapporre all’apprezzamento del materiale istruttorio ivi operato il diverso apprezzamento ritenuto dal medesimo preferibile. La censura risulta dunque inammissibile, perchè, come questa Corte ha più volte affermato (cfr. sent. n. 7972/07), nel giudizio di cassazione la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata,contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito.

Tutti i motivi di ricorso vanno in definitiva rigettati; le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere alla contro ricorrente le spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.800, oltre 200 per esborsi ed oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2016

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