Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20998 del 22/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 22/07/2021, (ud. 14/04/2021, dep. 22/07/2021), n.20998

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26980/2014 R.G. proposto da:

Cedats s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avv. Alfredo Lovelli, in virtù di

procura conferita in calce al ricorso, elettivamente domiciliata

presso lo studio dell’Avv. Vincenzo Sinopoli, in Roma, Viale

Angelico, n. 38;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Basilicata, n. 260/3/2014, depositata il 7 aprile 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14 aprile

2021 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale della Basilicata accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Matera (n. 107/1/2010), che aveva accolto il ricorso presentato dalla Cedats s.r.l. contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, per l’anno 2002, dall’Agenzia delle entrate, che aveva qualificato il contributo pubblico percepito dalla società come contributo in conto capitale. In particolare, la società nel ricorso introduttivo aveva evidenziato: che nel 1999 aveva intrapreso un progetto di risanamento conservativo di immobili, parte in proprietà e parte in concessione, localizzati nel “(OMISSIS)”; che tali immobili sarebbero stati destinati, una volta ultimato il progetto, ad attività “turistico alberghiera”; che l’avviso di accertamento era stato notificato prima dello scadere del termine di 60 giorni a seguito della chiusura delle operazioni di controllo, ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7; che, peraltro, l’accertamento era illegittimo in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 55, comma 3, in quanto il contributo doveva essere considerato “in conto impianti” in quanto finalizzato alla realizzazione di un impianto “indipendentemente dal fatto che l’investimento riguardava la realizzazione di opere di risanamento”; eccepiva inoltre l’inapplicabilità delle sanzioni per la sussistenza di obiettive condizioni di incertezza sulle norme. Il giudice d’appello, invece, rilevava che, per quanto concerneva gli immobili non di proprietà e non contabilizzati, per i quali la società aveva ricevuto i contributi dal Comune di (OMISSIS), la qualificazione degli stessi doveva essere effettuata ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88, comma 3, lett. b, e della relativa interpretazione giurisprudenziale; poiché i fondi erano stati percepiti da soggetti che producevano reddito di impresa, gli stessi costituivano, insieme alle altre fonti di reddito ed a prescindere dalla natura del soggetto pubblico erogatore, sopravvenienze attive, tassabili ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88, comma 3, lett. b.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

4. Il Procuratore Generale, Dott. De Matteis Stanislato, ha depositato conclusioni scritte, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità dei motivi primo, terzo e quarto ed il rigetto del secondo motivo.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce la “violazione ed omessa ovvero erronea applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti nei gradi di merito del processo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto il giudice di appello ha omesso l’esame di un fatto storico risultante dagli atti processuali e che ha costituito oggetto di discussione tra le parti, decisivo per il giudizio. In particolare, non ha tenuto conto che l’avviso di accertamento è stato notificato il 12 ottobre 2007, a meno di un mese dalla data del processo verbale di constatazione redatto dei funzionari dell’ente impositore in sede di accesso presso la sede della società, in data (OMISSIS), per acquisire le modalità di contabilizzazione dei contributi ricevuti. Ne è stata indicata in alcun modo la particolare e motivata urgenza che avrebbe potuto giustificare la notifica dell’atto impugnato prima del termine di 60 giorni, in violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7. Il giudice di primo grado ha accolto il ricorso originario della contribuente, ritenendo assorbito anche tale motivo. Il giudice di appello non ha preso in considerazione tale fatto oggetto di discussione tra le parti.

1.1. Il motivo è inammissibile.

1.2. Invero, per questa Corte è inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità, o comunque in sintesi, nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (Cass., sez. 2, 20 agosto 2015, n. 17049).

Infatti, una volta accolto il ricorso della contribuente da parte della Commissione tributaria provinciale, ed a seguito dell’appello articolato dalla Agenzia delle entrate, la società avrebbe dovuto riproporre tutte le doglianze contenute nel ricorso di primo grado e rimaste “assorbite”, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56. In difetto di “riproposizione” specifica delle questioni da parte della società nelle controdeduzioni del giudizio di appello, le stesse si intendono rinunciate (Cass., sez. 5, 6 giugno 2018, n. 14534; Cass., sez. 5, 18 maggio 2018, n. 12191; Cass., sez. 5, 18 dicembre 2014, n. 26830; Cass., sez. un., 21 marzo 2019, n. 7940; Cass., sez. un., 19 aprile 2016, n. 7700; Cass., sez. un., 12 maggio 2017, n. 11799; Cass., sez. 5, 24 gennaio 2007, n. 1545).

1.3. Il richiamo fatto dalla contribuente alle difese di prime cure, a pagina 8 del ricorso per cassazione, ove si legge che “la società appellata si costituiva in giudizio ritualmente e tempestivamente al fine di contestare la fondatezza del ricorso in appello proposto dall’Agenzia delle entrate-direzione provinciale di (OMISSIS), e riprodusse le ragioni già dedotte ed illustrate nel precedente grado del processo tributario a sostegno della proposta impugnazione all’avviso di accertamento emesso dall’ente impositore”, non è sufficiente a dimostrare la reiterazione specifica, chiara ed analitica, in appello, delle questioni già sollevate dalla contribuente con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

Infatti, per questa Corte, nel processo tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, impone la specifica riproposizione in appello, in modo chiaro ed univoco, sia pure “per relationem”, delle questioni non accolte dalla sentenza di primo grado, siano esse domande o eccezioni, sotto pena di definitiva rinuncia, sicché non è sufficiente il generico richiamo del complessivo contenuto degli atti della precedente fase processuale – nella specie, la S.C. ha affermato che i motivi posti a fondamento del ricorso introduttivo del primo grado di giudizio erano da intendersi rinunciati, essendosi la parte limitata nelle controdeduzioni depositate nel giudizio di appello a richiamare i fatti e agli argomenti esposti nel suddetto ricorso- (Cass., sez. 6-5, 19 dicembre 2017, n. 30444; Cass., n. 25131 del 2016, par. 5.1.; Cass., n. 26830 del 2014, par. 2.2.1.; Cass., n. 21506 del 2010; Cass., n. 15641 del 2005; Cass., n. 4625 del 2003; Cass., n. 3653 del 2001).

1.4. Va, peraltro, osservato che la ricorrente, nel ricorso per cassazione, ha fatto menzione specifica di una delle questioni già sollevate in primo in grado, ossia quella attinente alla pretesa decadenza della Amministrazione dal potere di accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, pur precisando che in quel caso l’Ufficio si era “rimesso” alla decisione del giudice di prime cure (cfr. pagina 7 del ricorso per cassazione “in ordine alle eccezioni sollevate dalla Società in merito alla decadenza dall’azione di accertamento emesso oltre il limite previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, l’ufficio si rimise alla decisione del Giudice adito, pur ribadendo la legittimità dell’accertamento”).

La circostanza che le altre questioni, pure incasellate nel ricorso di primo grado, non siano state in alcun modo richiamate nel ricorso per cassazione, quali questioni riproposte in modo analitico e preciso nelle controdeduzioni di appello, conferma l’assoluta genericità del richiamo contenuto nelle difese della società sul punto e, quindi, il difetto di autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione.

1.5. Si aggiunge che al ricorso per cassazione non risultano allegate le controdeduzioni articolate dalla società nel giudizio di appello. La Commissione regionale, sul punto, ha evidenziato che “in data 28-3-2012 si costituiva in giudizio la contribuente con controdeduzioni con le quali contestando i motivi di impugnazione insiste per la conferma della decisione di primo grado”. Nella sentenza di appello, dunque, non si fa alcun riferimento alla eventuale riproposizione da parte della contribuente delle questioni già dedotte con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione ed omessa ovvero erronea applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88, comma 3, lett. b), e del medesimo testo normativo, artt. 102 e 104, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto il giudice d’appello ha erroneamente qualificato i contributi pubblici come contributi in conto capitale, e quindi come sopravvenienze attive, in base al principio di cassa, escludendo la possibilità di ammortamento, essendo i contributi riferiti a beni demaniali, non suscettibili di ammortamento. Al contrario, trattasi di contributi in conto impianti, in quanto i prodotti delle attività di miglioramento e risanamento rispondono, sia pure in senso lato, alla generale nozione di beni fornita dall’art. 810 c.c.. Tali beni, finché la concessione dura, sono di proprietà della concessionaria, con la conseguente deducibilità dei costi relativi. I beni che il concessionario acquista o costruisce per l’espletamento delle attività oggetto della concessione amministrativa devono essere divisi in due categorie: da un lato, la “proprietà industriale”, che annovera i beni che, al termine della concessione restano di proprietà della concessionaria o sono ceduti alla concedente dietro corrispettivo; dall’altro, la “proprietà di concessione”, che comprende beni che, alla scadenza della concessione sono trasferiti agli enti concedenti gratuitamente ed in condizioni di normale funzionamento, ossia “gratuitamente devoluti”, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 104. Afferiscono, poi, alla “proprietà di concessione” anche i beni consistenti nel prodotto dell’attività di ampliamento, ammodernamento o miglioramento degli elementi strutturali di immobilizzazioni di proprietà della concedente, se ne comportino un incremento significativo e misurabile di capacità o di produttività o di sicurezza o di vita utile. In tali ipotesi, le migliorie e le spese implementative, se non sono separabili dei beni cui afferiscono, vanno a sostanziare le “immobilizzazioni immateriali”. I costi necessari per l’acquisto di tali beni consentono l’ammortamento degli stessi, se connotati da utilità pluriennale. Tali attività, sia che diano luogo ad immobilizzazioni immateriali, sia che costituiscano immobilizzazioni materiali, afferiscono comunque alla categoria dei beni “gratuitamente devolvibili”, perché concernenti beni di proprietà del Comune e dello Stato, che a questi vanno restituiti, come migliorati e risanati in ottimo stato di conservazione. Correttamente, allora, la società ha utilizzato l’ammortamento finanziario di quel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 104, che è alternativo all’ammortamento tecnico stabilito, del D.P.R. n. 917 del 1986, per i beni materiali dell’art. 102, e per quelli immateriali dell’art. 103. Trattasi, dunque, di beni che, prodotti o acquisiti dalla concessionaria, sono ammortizzabili “al netto” dei contributi in conto impianti concessi dall’ente concedente. Dei due metodi differenti di contabilizzazione, entrambi coerenti con i principi contabili internazionali (IAS 20), la società ha utilizzato il primo. Pertanto, i contributi percepiti concorrono indirettamente alla formazione del reddito sotto forma di minori quote di ammortamento, contabilizzate e dedotte nei periodi di imposta successivi. I contributi, quindi, sono stati considerati in riduzione del costo di investimento. L’intero importo del contributo è stato portato a diretta diminuzione del costo degli investimenti effettuati con l’effetto che lo stesso ha partecipato alla determinazione del reddito d’impresa mediante riduzione delle quote di ammortamento deducibili.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Invero, questa Corte (Cass., 23 novembre 2020, n. 26545) si è già pronunciata in una fattispecie simile, in cui il contributo pubblico del Comune o della Regione, indicato anche in quel caso in “conto capitale”, era stato erogato in favore di una società cooperativa non a mutualità prevalente; questa caratteristica della concessionaria ha influenzato la decisione della Corte, soprattutto perché era pacifico in quella controversia che gli immobili oggetto dei lavori sarebbero stati utilizzati dai soci della cooperativa, non essendo prevista la restituzione degli stessi al Comune o allo Stato subito dopo il termine della concessione. Le agevolazioni fiscali spettavano, poi, solo alle società cooperative a mutualità prevalente, ex art. 223-duodecies disp. att. c.c..

2.3. Invero, la peculiarità della L. n. 771 del 1986, è proprio quella di consentire l’erogazione di contributi “in conto capitale” per la conservazione ed il recupero dei rioni (OMISSIS), che sono caratterizzati dalla “demanialità” dei beni.

Ai sensi della L. n. 771 del 1986, art. 4, tra i soggetti “attuatori” figurano anche le imprese cooperative ed i loro consorzi (oltre al Comune di (OMISSIS) ed ai privati, quindi anche le “imprese”). Il comune può affidare in sub-concessione quota parte degli interventi alle cooperative, ma anche a “singoli” o “associati” (dell’art. 4, comma 2).

La L. n. 771 del 1986, art. 6, comma 1, lett. c), dispone che il Comune di (OMISSIS) provvede alla concessione di contributi ai proprietari ed ai sub-concessionari per la esecuzione delle opere previste nel programma biennale. La L. n. 771 del 1986, art. 7, comma 1 (interventi dei privati-contributi-obblighi), prevede che “sono assistititi da contributi in conto capitale nella misura massima del quaranta per cento della spesa ritenuta ammissibile dal comune…gli interventi realizzati ai sensi dell’art. 4, a cura dei proprietari”.

La L. n. 771 del 1986, art. 8, comma 1 (interventi dei sub-concessionari), poi, dispone che “sono assistiti da contributo in conto capitale nella misura massima del cinquanta per cento, elevabile al settanta per cento per le cooperative di abitazione, della spesa ritenuta ammissibile dal comune…gli interventi…realizzati ai sensi dell’art. 4, a cura dei soggetti sub-concessionari, singoli o associati o cooperative di abitazione o loro consorzi, che risultino in possesso dei requisiti per l’accesso all’edilizia agevolata previsti dalle disposizioni vigenti)”. La concessione dei contributi è subordinata alla stipula di una convenzione che deve prevedere: le prescrizioni relative alle caratteristiche dell’intervento; l’impegno ad abitare direttamente gli immobili per un periodo non inferiore a dieci anni dalla data di ultimazione dell’intervento; il canone di locazione da corrispondere al comune; l’impegno ad assicurare la manutenzione degli immobili.

La L. n. 771 del 1986, art. 8, comma 3, poi, stabilisce che “gli interventi di recupero relativi alle attività produttive, commerciali e di servizio, previsti nei programmi biennali ed affidati a soggetti sub-concessionari aventi titolo, sono assistiti da contributi in conto capitale nella misura massima del sessanta per cento”.

Si prevede, poi, all’art. 8, comma 4, che “la concessione dei contributi è subordinata alla stipula di una convenzione che deve comunque prevedere: a) le prescrizioni relative alle caratteristiche dell’intervento; b) l’impegno ad utilizzare direttamente gli immobili per un periodo non inferiore a 10 anni a partire dalla data di ultimazione degli interventi; il canone di locazione da corrispondere al Comune; l’impegno ad assicurare la manutenzione dell’immobile”.

L’art. 10 (assegnazione di immobili in locazione), quindi, prevede che “il Comune di (OMISSIS), realizzati gli interventi previsti nel programma biennale, assegna gli immobili in locazione a persone fisiche o giuridiche, che debbono utilizzarli conformemente alle destinazioni d’uso”. Nel regolamento comunale che disciplina le assegnazioni, devono essere previsti: a) requisiti soggettivi dei locatari; b) la durata della locazione e i criteri per la determinazione e la revisione periodica dei canoni; c) le sanzioni a carico dei locatari per l’inosservanza degli obblighi stabiliti nel contratto di locazione; d) le opere di manutenzione che fanno capo al locatario.

I canoni di locazione degli immobili sono riscossi dal Comune ed inseriti in apposito capitolo di bilancio, con vincolo di spesa per la realizzazione e la manutenzione delle opere previste dalla normativa di riferimento.

2.4. La distinzione tra contributi in conto capitale, in conto impianti e contributi di esercizio è ormai stratificata nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., 23 novembre 2020, n. 26545, proprio in relazione ai contributi pubblici relativi ai “(OMISSIS)”).

2.5. Ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88, comma 3, lett. b) “si considerano sopravvenienze attive: …i proventi in denaro o in natura conseguiti a titolo di contributo o di liberalità, esclusi i contributi di cui all’art. 85, comma 1, lett. g) ed h), e quelli per l’acquisto di beni ammortizzabili indipendentemente dal tipo di finanziamento adottato”.

Per il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 85, poi, “sono considerati ricavi…g) i contributi in denaro, o il valore normale di quelli, in natura, spettanti sotto qualsiasi denominazione in base a contratto; h) i contributi spettanti esclusivamente in conto esercizio a norma di legge”. I contributi in conto esercizio in genere sono destinati a ridurre l’incidenza dei costi aziendali e ad integrare i ricavi e devono essere rilevati in contabilità per competenza e non per cassa, nell’esercizio in cui sorge il diritto a percepirli (Cass., sez. 5, 23 luglio 2020, n. 15754).

Va, poi, evidenziato che la L. 27 dicembre 1997, n. 449, ha eliminato dall’art. 76 Tuir, comma 1, lett. a), la locuzione “al lordo…degli eventuali contributi” riferita alla determinazione del “costo fiscale” dei beni ammortizzabili. Pertanto, poiché nel sistema previgente si considerava il costo fiscale dei beni come quello assunto al lordo di eventuali contributi, una volta intervenuta la suddetta abrogazione, si è sancito che il “costo fiscale” dei beni ammortizzabili deve essere considerato “al netto dei contributi ad esso afferenti”.

2.6. Va premesso che sia i contributi in conto capitale che quelli in conto impianti sono “elementi positivi di reddito”. Inoltre, entrambi hanno natura di componenti del conto economico, che alla sezione A, sub n. 5, indica gli “altri ricavi e proventi, con separata indicazione dei contributi in conto esercizio” (Cass., sez. 5, 21 marzo 2019, n. 7950). Entrambi i contributi sono apporti destinati generalmente ad integrare i ricavi e/o a ridurre i costi della gestione caratteristica dell’impresa (Cass., sez. 5, 21 marzo 2019, n. 7950).

I contributi in conto capitale sono erogati per aumentare i mezzi patrimoniali dei soggetti beneficiari, senza per ciò che la loro concessione si correli all’onere dell’effettuazione di uno specifico investimento. In particolare, si è ritenuto che sono contributi in conto capitale e, quindi, “sopravvenienze attive”, che concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui sono incassati (criterio di cassa) oppure in quote costanti nell’esercizio in cui sono incassati ed in quelli successivi, non oltre il quarto, quelli erogati per incrementare i mezzi patrimoniali del beneficiario, senza che la loro concessione si correli all’onere di uno specifico investimento in beni strumentali; sono, invece, contributi in conto impianti, che confluiscono nel reddito sotto forma di quote di ammortamento deducibili, quelli destinati all’acquisto di beni (materiali o immateriali) strumentali – in applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha confermato la sentenza con cui il giudice di merito ha configurato come contributi in conto capitale le somme erogate per la ristrutturazione di un immobile già esistente, da adibire ad azienda agricola – (Cass., sez. 5, 18 novembre 2015, n. 23555; Cass. Sez. 5, 6 luglio 2016, n. 13734).

Ciò che caratterizza i contributi in conto impianti è il loro stretto collegamento con i costi. Infatti, tali contributi devono essere collegati all'”acquisto di beni ammortizzabili”, sì da rendere operativo il criterio di “competenza” e non di “cassa”. Essi concorrono a formare il reddito di impresa nello stesso modo in cui concorrono a formare il risultato economico civilistico e devono essere ripartiti in base alla vita utile del bene per il quale sono stati concessi, sotto forma di quote di ammortamento deducibili.

I contributi che non hanno tale caratteristica, invece, o perché relativi all’acquisto di beni non ammortizzabili o per interventi su beni già ammortizzati, sono considerati contributi “in conto capitale”, e quindi costituiscono “plusvalenze”, tassabili con il criterio di cassa; ciò è conforme alla ratio economica della norma che si incentra, appunto, sullo stretto collegamento con i costi, in questo caso assente.

Il collegamento con l’acquisti di beni ammortizzabili e’, dunque, il presupposto indefettibile per riconoscere ai contributi pubblici la natura di contributi “in conto impianti”.

2.7. Del resto, quella di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 88, è norma di carattere agevolativo, quindi eccezionale e di stretta interpretazione, insuscettibile di estensione.

2.8. Va anche osservato che, proprio in relazione alla determinazione del costo fiscale di un bene ammortizzabile si deve fare riferimento, come detto, al costo “al netto dei contributi ad esso afferenti”.

Ciò implica una duplice modalità di contabilizzazione dei contributi in conto impianti, come previsto dall’OIC 16, paragrafo F della versione del 13 luglio 2005.

Può, infatti, utilizzarsi il metodo “diretto” o “patrimoniale” per l’ammortamento dei beni acquistati con i contributi pubblici in conto impianti. In tal modo i beni vengono contabilizzati al netto dei contributi, sicché il contributo partecipa alla formazione dell’utile attraverso le minori quote di ammortamento calcolate sul costo di acquisto del cespite al netto dei contributi (Cass., sez. 5, 23 luglio 2020, n. 15754, ove si richiama la Risoluzione della Agenzia delle entrate del 22 gennaio 2010, n. 2/E).

Il metodo “indiretto” o “reddituale”, invece, comporta l’utilizzo dei risconti passivi, mediante imputazione graduale a conto economico pari alla stessa misura adottata per gli ammortamenti del cespite agevolato. In tal modo, il contributo, imputato a conto economico tra gli “altri ricavi e proventi” (voce A5) per l’intero ammontare riconosciuto, viene rinviato per competenza agli esercizi successivi attraverso l’iscrizione in bilancio di risconti passivi. Pertanto, i maggiori ammortamenti, calcolati sul costo lordo del cespite, vengono “compensati” dalle rispettive quote di contributo di competenza di ciascun esercizio. Con tale metodo, quindi, il contributo è imputato al conto economico nel suo intero ammontare secondo il criterio di competenza; il suo concorso alla formazione del reddito avviene non per l’intero ammontare nell’esercizio di competenza, ma in quest’ultimo e nei successivi in misura proporzionale alle quote di ammortamento fiscale del cespite, rinviando ogni anno l’eccedenza rispetto a detta misura agli esercizi successivi attraverso un “risconto passivo” (IAS 20).

In tal modo “l’imputabilità del contributo a fattori di produzione ad utilità ripetuta fa sì che la determinazione dell’obbligazione tributaria non è istantanea e coincidente con l’incasso del contributo stesso – come avviene per quelli concessi in conto capitale – ma prolungata a più periodi di imposta, in quanto collegata agli ammortamenti o, comunque, alle vicende che determinano la rilevanza fiscale del costo del cespite” (cfr. anche Risoluzione del 22 gennaio 2010, n. 2/E). La modifica di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, recata dalla L. n. 449 del 1997, è stata intesa dalla dottrina, come funzionale a facilitare l’applicazione delle regole sulla contabilizzazione dei contributi in conto impianti, escludendo così in toto l’incidenza dei contributi sul costo fiscale dei beni cui ineriscono. Pertanto, per i contributi in conto impianti non contabilizzati a diretta riduzione del costo del bene, l’obbligo di far concorrere dette componenti alla formazione del reddito d’impresa imponibile in stretta correlazione con il relativo processo di ammortamento discende direttamente dalle regole generali in tema di determinazione del reddito, quindi dai principi di “derivazione” e di “competenza”, ma non dalle regole sulla formazione del costo fiscale di cui all’art. 110.

2.9. Nella specie, i contributi pubblici erogati dallo Stato o dal Comune di (OMISSIS) risultano espressamente indicati come contributi “in conto capitale” e non “in conto impianti” nella L. n. 771 del 1986, artt. 7 e 8, oltre che nella convenzione tra il Comune e la Cedats (convenzione del 15 settembre 1999, come risulta alle pagine 2 e 28 del ricorso).

Inoltre, tali contributi non ineriscono all’acquisto di beni ammortizzabili. Infatti, i contributi vengono erogati per la conservazione ed il recupero architettonico dei rioni (OMISSIS), quindi sulla base di programmi biennali di attuazione che attengono al “demanio”. Tali contributi afferiscono a beni demaniali, che poi il Comune affida in sub-concessione alle cooperative edilizie o ad altre tipologie di società, con specifiche modalità di utilizzo indicate in apposite convenzioni.

I privati, in base alla convenzione o sulla scorta di un atto unilaterale d’obbligo, devono impegnarsi a rispettare le prescrizioni relative alle caratteristiche d’intervento (L. n. 771 del 1986, art. 7, comma 5, lett. a), ad abitare o ad utilizzare gli immobili interessati per un periodo non inferiore a dieci anni, a partire dalla data di ultimazione dei lavori, ad assicurare la manutenzione degli immobili. Se gli interventi sono realizzati dai sub-concessionari (L. n. 771 del 1986, art. 8), con la stipulazione di una convenzione si prevedono le prescrizioni relative alle caratteristiche dell’intervento, l’impegno ad abitare direttamente gli immobili per un periodo non inferiore a dieci anni a partire dalla data di ultimazione dell’intervento, il canone di locazione da corrispondere al comune, l’impegno ad assicurare la manutenzione degli immobili. In particolare, il pagamento del canone al comune manifesta plasticamente la divergenza rispetto all’acquisto effettivo di beni ammortizzabili.

Proprio l’assenza di un acquisto di beni (mobili o immobili) non rende possibile il collegamento tra i contributi pubblici ed i beni ammortizzabili, che è invece necessario per procedere all’ammortamento dei beni secondo la duplice modalità prima indicata.

2.10. Si ribadisce, peraltro, che si è in presenza di una norma di agevolazione, che ha natura eccezionale e non può essere oggetto di estensione a casi non previsti dalla legge.

2.11. Quanto alle cooperative, poi, se non sono a mutualità prevalente, svolgendo invece in prevalenza attività commerciale, vi è l’impossibilità di avvalersi delle norme di agevolazione ai sensi dell’art. 223 duodecies disp.att. c.c..

3. La questione si presenta in modo diverso, nella fattispecie in esame, che non attiene ad una cooperativa, ma ad una società di capitali, la Cedats s.r.l..

3.1. La ricorrente, quindi, chiede l’applicazione dell’istituto dell’ammortamento finanziario di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 104.

3.2. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 104, disciplina l’ammortamento finanziario ed al comma 1, dispone che “per i beni gratuitamente devolvibili alla scadenza di una concessione è consentita, in luogo dell’ammortamento di cui agli artt. 102 e 103, la deduzione di quote costanti di ammortamento finanziario”.

Per l’art. 104, comma 2, “la quota di ammortamento finanziario deducibile è determinata dividendo il costo dei beni, diminuito degli eventuali contributi del concedente, per il numero degli anni di durata della concessione, considerando anche le frazioni”.

Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 104, comma 4, prevede infine che “per le concessioni relative alla costruzione e all’esercizio di opere pubbliche sono ammesse in deduzione quote di ammortamento finanziario differenziate da calcolare sull’investimento complessivo realizzato. Le quote di ammortamento sono determinate nei singoli casi in rapporto proporzionale alle quote previste nel piano economico-finanziario della concessione, includendo nel costo ammortizzabile gli interessi passivi anche in deroga alle disposizioni dell’art. 110, comma 1”.

3.3. Il termine concessione va inteso in senso tecnico, come provvedimento amministrativo emesso da una pubblica amministrazione, con acquisizione di una posizione giuridica soggettiva da parte del concessionario pienamente tutelabile nei confronti dei terzi, ma costituente un diritto affievolito nei confronti della pubblica amministrazione.

La concessione prevista dall’art. 104 Tuir, si configura come un atto amministrativo di carattere negoziale avente ad oggetto attività riconducibili alla competenza dell’ente concedente e comportante il trasferimento di facoltà dell’ente al privato concessionario.

3.4. L’ammortamento tecnico, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 102, è funzionale alla mera ripartizione, in una pluralità di periodi, del costo fiscalmente riconosciuto, in quanto sopportato per l’acquisizione del bene, attraverso quote non necessariamente costanti ed in stretta correlazione con le modalità d’impiego del bene nell’attività da cui deriva il reddito di impresa, in base a precise percentuali indicate con decreto ministeriale 31 dicembre 1988, richiamato dal citato art. 102, comma 2.

3.5. L’ammortamento finanziario, D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 104, invece, è un procedimento tecnico contabile di ripartizione del costo pluriennale dell’immobilizzazione gratuitamente devolvibile negli esercizi di durata della concessione, al fine di sottrarre a tassazione quanto il concessionario complessivamente sborsi per acquistare e mantenere cose destinate al concedente (Cass., 15 novembre 2013, n. 25668; Cass., 7 marzo 1997, n. 2085).

L’art. 104 Tuir, dunque, concerne i beni gratuitamente devolvibili al concedente alla fine della concessione, sicché il concessionario viene ad essere reintegrato del valore dei beni stessi. Tale tipologia di ammortamento risponde all’esigenza di fronteggiare i costi da sostenere nel corso della concessione in relazione alla restituzione dei beni e degli impianti che devono essere devoluti gratuitamente e in perfetto stato di funzionamento.

3.6. La Corte Costituzionale, poi, con sentenza 6-2-2012, n. 16, ha chiarito che l’ammortamento finanziario, prima cumulabile con l’ammortamento tecnico, ed ora alternativo allo stesso, va considerato come una “vera e propria agevolazione tributaria”, rivolta non tanto all’effettivo ammortamento dei costi relativi a beni oggetto di concessione, quanto piuttosto ad alleggerire il carico fiscale sui concessionari, sicché le quote annuali di ammortamento finanziario dedotte nel corso della concessione sono state considerate quote di “utili esenti” da imposta. Infatti, l’eventualità che, scaduta la concessione, le quote di ammortamento finanziario potessero superare il costo dei beni non ammortizzati con l’ammortamento tecnico, rivela la totale estraneità dell’ammortamento finanziario alle finalità tipiche dell’ammortamento. L’ammortamento finanziario consente al concessionario di accantonare un utile, cui potevano attribuirsi i caratteri di sopravvenienza attiva nell’esercizio in cui avviene la devoluzione.

3.7. Tuttavia, nella specie, in base alla normativa prima citata, è evidente che non si tratta di beni “gratuitamente devolvibili” al Comune o allo Stato al termine della concessione, in quanto è previsto espressamente che i beni restino per almeno 10 anni nella disponibilità delle società o delle imprese, che hanno effettuato i lavori, instaurando con il Comune un rapporto di locazione. Al contrario, i beni “gratuitamente devolvibili” devono essere restituiti alla pubblica amministrazione al momento del termine di durata della concessione.

E’ sufficiente osservare che, ai sensi della L. n. 771 del 1986, art. 14, vi sono casi in cui i beni, dopo l’effettuazione di lavori, vengono assegnati in modo definitivo ai privati, senza che siano restituiti gratuitamente alla pubblica amministrazione. Infatti, l’art. 14, comma 2, dispone che “possono conseguire in assegnazione definitiva gli alloggi in godimento coloro che, alla data di entrata in vigore della presente legge, occupino alloggi realizzati ai sensi della legislazione speciale per il risanamento dei Rioni (OMISSIS) e risultino alla medesima data: a) subentrati nel rapporto di locazione agli originari assegnatari a seguito della volturazione di detto rapporto locativo; b) assegnatari a titolo provvisorio di alloggi ad opera della Commissione di cui alla citata L. n. 119, art. 10; c) occupanti di fatto, ma in possesso dei requisiti per l’accesso all’edilizia agevolata previsti dalle disposizioni vigenti e che si siano messi in regola con versamento dei canoni dovuti dalla data di occupazione dell’alloggio”. Si prevede, inoltre, all’art. 14, comma 5, che “in deroga a quanto disposto dalla L. 30 aprile 1976, n. 386, art. 11, comma 2, gli immobili destinati ad uso di abitazione e di bottega artigiana del borgo (OMISSIS) ed acquisiti al patrimonio dell’ente di sviluppo agricolo della Basilicata dalla UNRRA-Casas sono trasferiti in proprietà all’Istituto autonomo per le case popolari, al prezzo a suo tempo corrisposto alla UNRRA Casas. Detti immobili possono essere assegnati in via definitiva agli attuali possessori”.

All’art. 14, comma 6, si stabilisce che “in caso di futura cessione degli immobili, i canoni versati sono computati ai fini della determinazione del prezzo di riscatto”.

Pertanto, come si vede, è previsto il “riscatto” degli immobili in cui sono stati effettuati lavori, oggetto dei finanziamenti, in alcune ipotesi stabilite dalla stessa normativa.

E’ proprio questa, probabilmente, la ragione che ha indotto il legislatore a qualificare i contributi in questione come contributi in “conto capitale”, invece che in “conto impianti”.

3.8. Per tale motivo, non può trovare applicazione il principio stabilito da questa Corte, ed invocato dalla ricorrente, per cui, in tema di rimborso di un credito IVA ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 30, che disciplina l’eccedenza detraibile dell’imposta per acquisto o importazione di beni ammortizzabili, anche se gli interventi di ampliamento, ammodernamento e potenziamento degli impianti e di una infrastruttura ferroviaria di trasporto operati da una società concessionaria di un ente pubblico danno luogo a beni, materiali o immateriali, gratuitamente devolvibili, (che cioè, alla scadenza della concessione, vanno retrocessi all’ente concedente, quale ipotesi di proprietà di concessione), essi sono soggetti ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 104, e sussistendone i presupposti, ad ammortamento finanziario, alternativo a quello tecnico trattandosi di costi comunque incontrati dall’imprenditore concessionario che tali opere utilizza – ma, ai fini della quantificazione del rimborso della relativa eccedenza detraibile dell’IVA, vanno defalcati i contributi del concedente che abbiano neutralizzato l’onere economico dell’imposta o parte di esso, ricalcolando, citato D.P.R. n. 917, ex art. 19, anche l’incidenza dell’IVA sui contributi pubblici ricevuti (Cass., sez. 5, 15 novembre 2013, n. 25668).

Nella specie, invece, i lavori sono stati effettuati, con l’ausilio dei contributi pubblici, definiti espressamente dalla normativa di settore come finanziamenti in “conto capitale”, su immobili, che sono oggetto di contratti di locazione, almeno per 10 anni successivi alla ultimazione dei lavori, con la possibilità anche di assegnazione definitiva agli utilizzatori, pure soltanto di fatto, che regolarizza non la loro posizione.

Inoltre, nella decisione di questa Corte richiamata dalla ricorrente, è stato comunque ritenuto necessario il consenso del collegio sindacale, ai sensi dell’art. 2426 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., 25668/2013 cit; in senso conforme anche Cass., sez. 5, 6 novembre 2013, n. 24939).

Tale consenso, nella specie, non risulta essere stato rilasciato dal collegio sindacale.

3.9. La somma relativa ai contributi in conto impianti erogata doveva, allora; essere inserita nel conto economico dell’anno 2003 ed assoggettata a tassazione.

4. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione ed omessa ovvero erronea applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 163, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3″. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti nei gradi di merito del processo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Il giudice d’appello, dunque, non si è pronunciato su un fatto decisivo della controversia, costituito dalla avvenuta “tassazione” dei contributi oggetto dell’avviso di accertamento; infatti, la società ha considerato gli stessi contributi in “conto impianti”, facendoli partecipare alla determinazione del reddito di impresa, tramite minori quote di ammortamento delle spese sostenute, mentre l’Ufficio ha ripreso a tassazione l’intero importo incassato nel periodo d’imposta, come sopravvenienza attiva, qualificando i contributi in “conto capitale”. Nel caso in esame, sarebbero state trascurate le imposte già versate dalla società ricorrente sui medesimi contributi sotto forma di minori quote di ammortamento.

4. Il motivo è infondato.

4.1. Il motivo non è nuovo, in quanto dal ricorso per cassazione emerge che la società aveva dedotto, come secondo motivo di doglianza nei confronti dell’avviso di accertamento, che vi era “La situazione di doppia tassazione che si è concretizzata in quanto il contributo recuperato a tassazione aveva partecipato alla formazione del reddito di impresa mediante minori quote di ammortamento” (cfr. pagine 4 e 5 del ricorso per cassazione).

Tra l’altro, lo stesso giudice di appello, conferma che vi sia stata la riproposizione di questa specifica questione, laddove fa un, sia pure generico, riferimento a “quanto eventualmente già corrisposto dalla contribuente”.

4.2. In effetti, la società, utilizzando l’istituto dell’ammortamento finanziario, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 104, ha proceduto alla deduzione di quote costanti relative al costo dei beni, ma “diminuito degli eventuali contributi del concedente”. Infatti, la quota di ammortamento finanziario deducibile è determinata dividendo il costo dei beni, diminuito degli eventuali contributi del concedente, per il numero degli anni di durata della concessione.

L’Agenzia delle entrate, invece, considerando i contributi pubblici come contributi in “conto capitale”, li ha ritenuti “sopravvenienze attive” tassabili, dunque, per cassa, nell’anno in cui sono stati ricevuti.

4.3. Da una parte, quindi, i contributi pubblici sono stati assoggettati ad imposta nel loro insieme nell’anno di ricezione da parte della società contribuente; dall’altra, la società, nel dedurre le spese per le opere da realizzare, ha proceduto all’ammortamento finanziario, sottraendo alle spese sostenute i contributi del concedente, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 104, comma 2. Invero, per questa Corte, in tema di reddito d’impresa, il recupero dei costi in base al criterio di competenza temporale non determina una duplicazione di imposta in quanto la dichiarazione del costo in una determinata annualità consente l’accertamento dell’Ufficio sulla base del corretto impiego di detto criterio, non essendo consentito al contribuente di scegliere il periodo in cui registrare le passività secondo la propria convenienza, così da alterare i risultati economici dell’esercizio, mentre, in caso di effettivo pagamento per due volte della medesima imposta, dispone dei rimedi ordinamentali della dichiarazione integrativa e del rimborso (Cass., sez. 5, 15 luglio 2020, n. 15019).

Inoltre, si è chiarito che, in tema di reddito d’impresa, le regole sull’imputazione temporale dei componenti negativi, dettate in via generale dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, sono inderogabili, non essendo consentito al contribuente scegliere di effettuare la detrazione di un costo in un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come esercizio di competenza, così da alterare il risultato della dichiarazione; né l’applicazione di detto criterio implica di per sé la conseguenza, parimenti vietata, della doppia imposizione, che è evitabile dal contribuente con la richiesta di restituzione della maggior imposta, la quale è proponibile, nei limiti ordinari della prescrizione ex art. 2935 c.c., a far data dal formarsi del giudicato sulla legittimità del recupero dei costi in relazione alla annualità non di competenza (Cass., sez. 5, 10 marzo 2008, n. 6331).

5. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione ed omessa ovvero erronea applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti nei gradi di merito del processo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”. Il giudice d’appello, nella sentenza impugnata, ha omesso di pronunciarsi sulla non applicabilità delle sanzioni, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, in considerazione delle obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni applicate. Peraltro, la contribuente si è adeguata al comportamento adottato dagli enti che hanno concesso i contributi, in quanto sia il Comune di (OMISSIS) che la Regione Basilicata non hanno assoggettate i contributi erogati alla ritenuta del 4% prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 28, per qualsiasi forma di contributo, ad eccezione di quelli per l’acquisto di beni strumentali. Tale norma prevede l’assoggettamento a ritenuta del 4% su qualsiasi forma di contributo, ad eccezione di quelli relativi a beni strumentali; sicché, la mancata applicazione della ritenuta è dovuta al fatto che i due enti territoriali concedenti hanno ritenuto che gli investimenti effettuati con opere di risanamento su beni non di proprietà, sono riferiti, comunque, a beni strumentali. Vi e’, dunque, sostanziale identità ed assimilazione tra investimento in beni strumentali e investimento in opere su beni di terzi. Inoltre, nulla si può rimproverare alla contribuente che ha operato correttamente dal punto di vista contabile fiscale, avendo proceduto ad ammortizzare l’intero importo sostenuto per realizzare l’investimento sui beni demaniali, “al netto dei contributi del concedente”, facendo comunque concorrere alla determinazione del reddito di impresa minori quote di ammortamento per tutta la durata della concessione (o subconcessione) dei beni gradualmente devolvibili alla fine della concessione in perfetto stato di conservazione.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Valgono le medesime considerazioni sviluppate con riferimento al primo motivo, non avendo la contribuente indicato nel ricorso per cassazione le questioni, rimaste assorbite a seguito dell’accoglimento del ricorso introduttivo, ma non specificamente ed analiticamente riproposte nelle controdeduzioni della società in sede di appello.

6. Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso (infondati i motivi secondo e terzo e inammissibili il primo ed i quarto motivo).

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 2.300,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio il 14 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

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