Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20988 del 22/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 22/07/2021, (ud. 25/03/2021, dep. 22/07/2021), n.20988

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9799/2014 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

P.A. e P.R., rappresentati e difesi dagli

avvocati Gianfranco D’Andrea e Sergio Celentano, elettivamente

domiciliati in Roma, presso lo studio dell’Avvocato Bruno Matarazzo

– studio Vassalli e associati, via Eleonora Duse 35;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Puglia, sezione staccata di Foggia, n. 225/25/13, depositata il 8

ottobre 2013, non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/03/2021

dal Consigliere Adet Toni Novik.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con sentenza n. 225/25/13, emessa in data 10 settembre 2013, depositata l’11 aprile 2014, la Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Foggia, (CTR), accoglieva l’appello proposto da Autobrand Srl e dai soci P.R. e P.A. (di seguito, i contribuenti) avverso l’avviso di accertamento per Irpef, IRES, Iva 2007 con cui l’Agenzia delle entrate (di seguito, l’Agenzia), in esito ad una verifica fiscale della Guardia di Finanza, aveva recuperato a tassazione costi non riconosciuti e ritenuti fittizi;

2. la CTP, aveva rigettato il ricorso richiamando un proprio precedente concernente la società e affermando che i contribuenti non avevano fornito elementi di prova tali da inficiare la validità degli atti di accertamento quanto alla distribuzione degli utili extra bilancio in proporzione alle rispettive quote di partecipazione al capitale sociale;

3. la CTR, nel riformare la sentenza di primo grado, ne censurava la motivazione ritenendo inidoneo a supportare la presunzione di interposizione fittizia “il semplice rinvenimento di un fax inviato dal fornitore e riferito ad un acquisto di autovetture da effettuare all’estero”; dato atto che non erano contestate l’effettività delle operazioni riportate in contabilità e dei pagamenti effettuati a favore della ditta fornitrice, la CTR riteneva che questi elementi costituissero già di per sé prova dei costi sostenuti, né poteva andare a danno della società, che aveva confidato in buona fede sull’effettiva esistenza della ditta, la circostanza che il fornitore avesse evaso l’Iva sugli acquisti; in conseguenza, la CTR riteneva fondati anche gli appelli dei soci, mancando la prova della distribuzione degli utili, ed avendo l’ufficio applicato il principio della doppia presunzione, più volte censurato in giurisprudenza;

4. l’agenzia ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza per quattro motivi.

P.A. e P.R. resistono con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. – Vanno prioritariamente esaminati i motivi sub 1 e 4 per la loro consequenzialità logica.

2. – Con il primo motivo la ricorrente deduce: “Violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, comma 1, e art. 54, comma 2, degli artt. 2697 e 2729 c.c.. nonché dei principi indicati nelle sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 12.1.2006 (in cause C-354/03, 355/03 e 484/03) e 6.7.2006 (in cause C-439/04 e 140/04) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. In sintesi, in relazione alla mancanza di prova della fittizietà della ditta fornitrice (Gran Bazar di Pi.Fr.) e della consapevolezza dei contribuenti di partecipare ad una frode “carosello”, ad avviso della ricorrente agenzia, la CTR avrebbe errato nel ritenere necessaria la prova della diretta partecipazione della società alla frode, essendo sufficiente, in linea con la giurisprudenza Europea e di legittimità, che vi fossero elementi obbiettivi che dimostrassero che la cessione sia stata effettuata nei confronti di un soggetto che per le circostanze del caso sapesse o avrebbe dovuto sapere, anche sulla base di indizi, di partecipare ad una operazione che si iscriveva in una frode all’imposta; in altro errore, la CTR era incorsa addossando all’amministrazione finanziaria l’onere di provare la fittizietà della ditta fornitrice, in tal modo sovvertendo i principi sull’onere della prova in base alle indagini dell’organo tecnico, aveva fornito una serie di elementi sulle cartiere e sui rapporti con il contribuente che costituivano “pesanti presunzioni” della frode carosello, con la conseguenza che, in base ai presupposti giuridici validati dalla CTR, era onere del contribuente “contrapporre specifiche prove contrarie, mai fornite, e non invece l’ufficio, come erroneamente sostiene la sentenza, a dover fornire una “prova appagante” della frode stessa”; la decisione aveva svalutato illegittimamente il valore delle presunzioni poste dalle norme sull’Iva e sulle imposte dirette;

2. Il motivo di censura, che involge questioni di diritto e non di fatto, come erroneamente si afferma nel controricorso, è fondato.

Va premesso che, secondo il consolidato orientamento della Corte di Giustizia, la circostanza che l’operazione si inserisca in una fattispecie fraudolenta di evasione dell’Iva non comporta ineludibilmente la perdita, per il cessionario, del diritto di detrazione. La buona fede del soggetto passivo non può essere sanzionata, con il diniego del diritto di detrazione, se “non sapeva e non avrebbe potuto sapere che l’operazione interessata si collocava nell’ambito di un’evasione commessa dal fornitore o che un’altra operazione facente parte della catena delle cessioni, precedente o successiva a quella da detto soggetto passivo, era viziata da evasione dell’Iva” (Corte di Giustizia 6 luglio 2006, Kittel, C-439/04 e C-440/04; Corte di Giustizia 21 giugno 2012, Mahage’ben e David, C-80/11 e C-142/11; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14);

– sul piano della prova, la Corte di Giustizia, nella sentenza da ultimo citata, ha espressamente escluso la compatibilità con il diritto unionale di una previsione di legge nazionale che consideri inesistente, in base a criteri predeterminati, il soggetto emittente la fattura e, conseguentemente, neghi al destinatario il diritto a detrazione;

– in linea con i principi generali, spetta, quindi, all’Amministrazione tributaria provare, sia pure anche solo in base a presunzioni, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente, con l’emissione della relativa fattura, aveva evaso l’imposta o partecipato a una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale dubbio ovvero, con espressione efficace, “a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente” (Corte di Giustizia 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; Corte di Giustizia, Ppuh, C-277/14, par. 50);

– nel caso in esame, la CTR non ha fatto corretta applicazioni dei principi espressi dalla Corte di Giustizia, recepiti dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili” (Sez. 5, Sentenza n. 428 del 14/01/2015, Rv. 634233 – 01);

– è superfluo precisare, trattandosi di principi generali, che la prova dell’inesistenza delle operazioni può ben consistere in presunzioni semplici, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass. n. 9108 del 2012, cit.);

– pertanto, nel caso in cui l’Ufficio ritenga che la fattura concerna operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, cioè sia una mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno o siano intercorse tra soggetti che non siano le genuine controparti, e quindi contesti l’indebita detrazione dell’IVA e/o deduzione dei costi, ha l’onere di fornire elementi probatori del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (ad esempio, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera”, quali ad es. la mancanza di sede, la mancanza di iscrizione, l’omesso versamento delle imposte) o è stata emessa da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, e a quel punto passerà sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate;

– in relazione al tema delle fatture per operazioni (solo) soggettivamente inesistenti, sorge, tuttavia, l’esigenza della tutela della buona fede del contribuente, anche in applicazione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea (cfr. sentenze 6 luglio 2006, Kittel e Recolta Recycling, C439/04 e C- 440/04; 21 giugno 2012, Mahage’ ben e David, C- 80/11 e C142/11; 6 settembre 2012, Toth, C- 324/11; 6 dicembre 2012, Bonik, C285/11; 31 gennaio 2013, Stroy Trans, C- 642/11);

– si rende necessario, quindi, tenere conto della concreta vicenda e delle circostanze di volta in volta presenti, spettando all’Amministrazione dimostrare, ed al giudice verificare, “alla luce di elementi oggettivi e senza esigere dal destinatario della fattura verifiche che non gli incombono, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata per fondare il suo diritto alla detrazione si iscriveva in un’evasione dell’Iva”;

– sulla scorta di tale principio, questa Corte ha ritenuto che in alcuni casi “l’onere probatorio dell’amministrazione finisce con l’appesantirsi, in quanto, di norma, non è possibile esigere che il cessionario/committente, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’Iva, o che disponga dei relativi documenti” (Cass. n. 24490 del 02/12/2015; v. successivamente anche Cass. n. 17290 del 13 luglio 2017), rimarcando, tuttavia, che continua a prospettarsi un obbligo di verifica in capo al cessionario a fronte di indizi che gli consentano di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasione, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione;

– in particolare, (come già sottolineato da Cass. n. 24490 del 2015 cit.), se al destinatario non compete, di norma, conoscere la struttura e le condizioni di operatività del proprio fornitore, sorge, tuttavia, un obbligo di verifica, nei limiti dell’esigibile, in presenza di indici personali od operativi anomali dell’operazione commerciale ovvero delle scelte dallo stesso effettuate ovvero tali da evidenziare irregolarità e ingenerare dubbi di una potenziale evasione, la cui rilevanza è tanto più significativa atteso il carattere strutturale e professionale della presenza dell’imprenditore nel settore di mercato in cui opera e l’aspettativa, fisiologica ed ordinaria, che i rapporti commerciali con gli altri operatori siano proficui e suscettibili di reiterazione nel tempo;

– rileva in proposito Cass. n. 9851 del 2018 che “In via meramente esemplificativa, poiché la valutazione va in ogni caso ancorata alla concreta vicenda, possono costituire elementi di rilevanza sintomatica: l’acquisto dei beni ad un prezzo inferiore di mercato; la limitatezza dell’eventuale ricarico; la presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto e nella fatturazione; la scelta di operare secondo canali paralleli di mercato (che esige una più attenta e approfondita valutazione dei propri interlocutori, proprio per verificarne l’effettività), poco importa se i giustificata da esigenze di accelerazione e di margini produttivi; la tempistica dei pagamenti, in ispecie se incrociati od operati su conti esteri a fronte di interlocutori nazionali, ovvero se effettuati cash; la qualità del concreto intermediario con il quale sono state intrattenute le operazioni commerciali; il numero, la qualità e la durata delle transazioni, in ispecie a fronte di rapporti contigui e frequentazioni reiterate con i titolari della cartiera, ovvero nel caso in cui il contribuente abbia rapporti commerciali con una pluralità di soggetti aventi la quantità di cartiera”;

– nella vicenda in esame, la CTR ha desunto l’esistenza soggettiva delle fatture emesse dalla fornitrice in base ad indici privi di valenza probatoria, quali la regolarità formale delle scritture e le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (v. Sez. 5 -, Ordinanza n. 17619 del 05/07/2018, Rv. 649610 – 0), notoriamente presenti in tutte le operazioni di questo tipo, giustificando singolarmente elementi significativi, quali: -l’omesso versamento dell’Iva da parte della cartiera; -il fax rinvenuto nella sede della società contribuente -di cui apoditticamente si afferma l’irrilevanza probatoria- che invece ne dimostrava l’ingerenza nell’acquisto delle autovetture estere “successivamente passate al signor Pi.” (così nell’avviso di accertamento riportato alle pag. 4-5 del ricorso); – il minimo ricavo sulla vendita, ma omettendo la loro valutazione complessiva;

– ne è derivata la violazione dei canoni regolatori delle inferenze probatorie per cui “Allorquando la prova addotta sia costituita da presunzioni, le quali anche da sole possono formare il convincimento del giudice del merito, rientra nei compiti di quest’ultimo il giudizio circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire inferenze che ne discendano secondo il criterio dell'”id quod prelumque accidit”, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità, se sorretto da motivazione immune da vizi logici o giuridici e, in particolare, ispirato al principio secondo il quale i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi, pur senza omettere un apprezzamento così frazionato, al fine di vagliare preventivamente la rilevanza dei vari indizi e di individuare quelli ritenuti significativi e da ricomprendere nel suddetto contesto articolato e globale (Sez. 3 – Sentenza n. 12002 del 16/05/2017, Rv. 644300 – 01);

– analogamente, la CTR è incorsa in una violazione degli artt. 2697 e 2699 c.c., allorquando, a fronte di elementi obbiettivi e specifici in ordine al fatto che la contribuente-cessionaria dei beni o dei diritti conoscesse o avrebbe dovuto conoscere, secondo i criteri dell’ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, e tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell’affare ed afferenti alla sua sfera di azione, che la realtà documentalmente espressa non corrispondeva a quella effettiva (Cass. n. 24490 del 2015), e che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato a una frode, spettava al contribuente medesimo l’onere di fornire la prova contraria (Sez. 5 -, Ordinanza n. 15369 del 20/07/2020, Rv. 658429 – 01; Cass. n. 23560 del 2012; Cass. n. 25575 del 2014).

3 – con il quarto motivo, si deduce “Infine, in relazione alla ratio decidendi sub c): Violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38, 39 e 41-bis, nonché degli artt. 26972729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, per aver la CTR annullato gli atti nei confronti dei soci non avendo l’ufficio fornito la prova che vi sia stata una effettiva distribuzione dei maggiori utili tra di essi e censurato l’operato dell’ufficio che si era basato su una doppia presunzione;

– anche questo motivo è fondato;

– sul punto della presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati alla società a ristretta base partecipativa, Sez. V, n. 15824 del 2016 ha, ancora da ultimo, affermato, con i principi che questa Sezione condivide, che “E, infatti, assolutamente consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale, in materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale è legittima la presunzione di distribuzione pro quota ai soci di utili extracontabili accertati nei confronti della società: ciò non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza dei maggiori redditi della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, la quale implica, normalmente, un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale, nonché un elevato grado, da parte loro, di compartecipazione e di conoscenza degli affari sociali; resta salva la facoltà del socio di fornire la prova del fatto che i maggiori ricavi non sono stati distribuiti, ma accantonati dalla società o da essa reinvestiti” (tra molte, Cass. n. 6780 del 2003, Cass. n. 18640 del 2008, Cass. n. 5076 del 2011, Cass. n. 18032 del 2013, Cass. n. 24572 del 2014);

– nel caso in esame, trattandosi di società di capitali a ristretta base azionaria (con due soci), l’accertamento di utili non contabilizzati legittima la presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci degli utili stessi, sui quali, in conseguenza, ricadeva l’onere di provare di non averli percepiti ovvero che gli stessi erano stati accantonati o reinvestiti;

4 – il secondo e il terzo motivo, con cui la sentenza impugnata in subordine viene censurata sotto il profilo motivazionale sono assorbiti.

5. – In conclusione il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo e il quarto motivo di ricorso, assorbiti il secondo ed il terzo; cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità alla CTR della Puglia in diversa composizione per nuovo esame.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

 

 

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