Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20982 del 06/08/2019

Cassazione civile sez. VI, 06/08/2019, (ud. 12/04/2019, dep. 06/08/2019), n.20982

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17283-2018 proposto da:

BELLADONNA SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, e

B.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE XXI APRILE

21, presso lo studio dell’avvocato MARCO CIANFARINI, rappresentati e

difesi dall’avvocato MARCO ESPOSITO;

– ricorrenti –

contro

CAMERA DI COMMERCIO INDUSTRIA ARTIGIANATO E AGRICOLTURA DI SALERNO,

in persona del Segretario Generale pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato MARIO ROMANO;

– controricorrente avverso la sentenza n. 1109/2017 della CORTE

D’APPELLO di SALERNO, depositata il 27/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 12/4/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO

CARRATO.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Con ricorso depositato il 27 maggio 2016 la s.r.l. Belladonna, in persona del legale rappresentante pro-tempore, e B.E., in proprio, proponevano appello avverso la sentenza n. 5392/2015 del Tribunale di Salerno, con la quale era stata rigettata l’opposizione dagli stessi proposta avverso l’ordinanza-ingiunzione n. 985/2014, con cui la Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Salerno aveva irrogato la sanzione pecuniaria di Euro 20.041, 21, in ordine alla violazione di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, commi 49 e 49 bis, consistita nell’importazione, a fini di commercializzazione, di “altri mobili in metallo” di provenienza ed origine cinese, recanti unicamente un marchio registrato di proprietà della suddetta società e i dati relativi alla stessa, configurando, quindi, fallaci indicazioni di origine e provenienza ai sensi dei riportati commi della richiamata L. n. 350 del 2003.

La Corte di appello di Salerno, con sentenza n. 1109/2017 (depositata il 27 novembre 2017), rigettava il gravame e confermava l’impugnata pronuncia di prime cure, respingendo, oltre alle varie doglianze relative all’asserita irritualità del procedimento amministrativo sanzionatorio, anche quelle riguardanti propriamente il merito della suddetta violazione, ritenendo che si erano concretate tutte le condizioni per la sussistenza della stessa.

Avverso la sentenza di secondo grado hanno proposto congiuntamente ricorso per cassazione la s.r.l. Belladonna, in persona del legale rappresentante pro-tempore, e B.E., in proprio, affidato ad un unico complesso motivo.

L’intimata Camera di Commercio ha resistito con controricorso.

Con l’avanzato motivo i ricorrenti hanno denunciato – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione e falsa applicazione della L. n. 350 del 2003, artt. 49 e 49 bis (rectius: L. n. 350 del 2003, art. 4, commi 49 e 49-bis), asserendo l’erroneità dell’impugnata sentenza, con quale si era ravvisata la configurazione di tutte le condizioni concretanti la violazione a loro ascritta, sul presupposto che sui prodotti in ordine ai quali era stata elevata la contestazione non era riscontrabile alcun elemento tale da poter indurre in errore gli acquirenti sulla loro provenienza italiana.

Su proposta del relatore, il quale rilevava che il motivo potesse essere ritenuto manifestamente infondato, in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

Rileva il collegio che la complessa censura formulata con il ricorso in esame è, effettivamente, priva di fondamento giuridico.

In via preliminare si profila opportuno riportare il disposto dei due commi (49 e 49 bis) dell’art. 4 della legge finanziaria per il 2004 (n. 350 del 2003) che vengono in rilievo in questa sede:

comma 49. L’importazione e l’esportazione a fini di commerciabilità ovvero la commercializzazione o la commissione di atti diretti in modo non equivoco alla commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza o di origine costituisce reato ed è punita ai sensi dell’art. 317 c.p.. Costituisce la falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure. o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana incluso l’uso fallace o filoniante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis. Le fattipecie sono commesse sin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l’immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio. La fallace indicazione delle merci può essere sanata sul piano amministrativo con Pa3portazione a cura ed a spese del contravventore dei segni o delle figure o di quant’altro induca a ritenere che si traili di un prodotto di origine italiana. La falsa indicazione sull’origine o sulla provenienza di prodotti o merci può essere sanata sul piano amministrativo attraverso l’esatta indicazione dell’origine o l’asportazione della stampigliatura “made in Italy”.

comma 49-bis. Costituisce fallace indicazione l’uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull’origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull’origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Per i prodotti alimentari, per effettiva origine si intende il luogo di coltivazione o di allevamento della materia prima agricola utilizzata nella produzione e nella preparazione dei prodotti e il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 ad Euro 250.000.

Esclusa la rilevanza penale della condotta ascritta alle parti ricorrenti, nel caso che ci occupa la condotta loro ascritta viene qui in rilievo quale fattispecie sanzionata in via amministrativa.

La disciplina sulla tutela del made in Italy trova la sua esplicazione proprio nella norma fondamentale di riferimento costituita dalla L. n. 350 del 2003 cit., art. 4, e, specificamente, nei riportati commi 49 e 49-bis. Questi ultimi riportano essenzialmente -nei termini appena richiamati – tutta la disciplina nazionale sul tema della tutela della corretta etichettatura di origine, con sanzioni sia di carattere amministrativo, la cui irrogazione è devoluta alle Camere di commercio territorialmente competenti in ragione del luogo in cui si è verificata la violazione, sia di carattere penale.

A livello di definizione, costituisce falsa indicazione la stampigliatura “Made in Italy” su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine, con riferimento alle norme doganali del Reg. 2913/92 (avuto riguardo, in particolare, agli artt. 22-26), in tema di origine non preferenziale.

Costituisce, invece, fallace indicazione (condotta che rileva propriamente nella vicenda in esame), l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana, incluso l’uso fallace o fuorviante di marchi aziendali ai sensi della disciplina sulle pratiche commerciali ingannevoli, fatto salvo quanto previsto dal comma 49-bis, ovvero l’uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa Europea sull’origine senza l’indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro Paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera.

Orbene, sulla base di tale inquadramento normativo, il collegio ritiene che la Corte territoriale non sia affatto incorsa nella denunciata violazione. Sulla base di accertamenti di merito adeguatamente motivati (e supportati da argomentazioni logiche e sistematiche rispondenti al testo e alla ratio della normativa in questione), essa ha appurato che l’etichetta apposta sui prodotti oggetto di contestazione raffigurava il marchio “Belair” nonchè l’indicazione della s.r.l.

Belladonna (con sede in Italia e con il relativo indirizzo) ma non recava alcuna ulteriore indicazione idonea – in modo univoco – ad esteriorizzare che gli stessi erano stati importati dalla Cina. Ed in modo altrettanto conferente la Corte salernitana ha rilevato che l’apposizione di un mero marchio denominato “Zown” in alto a sinistra dei medesimi prodotti non poteva certamente qualificarsi come un riferimento chiaro ed esplicito dal quale desumere, senza equivoci, la provenienza estera della merce controllata.

Sulla base di tali congrui accertamenti fattuali, la condotta ascritta alle ricorrenti è stata legittimamente sussunta in quella normativizzata nelle disposizioni prima richiamate sotto la specie di “fallace indicazione di origine e provenienza” dei prodotti in discorso, dal momento che le riportate indicazioni non consentivano – indiscutibilmente – di comprendere che i prodotti industriali erano stati importati dalla Cina (non contenendo nemmeno un dato sicuramente interpretabile in tale direzione, come il disegno dei colori della bandiera dello Stato di provenienza o una sigla riconducibile sul mercato a tale Stato, del tipo “made in PRC”), così essendo – senza alcun dubbio – in grado di indurre in errore la platea dei consumatori sulla effettiva origine dei prodotti.

A conforto della corretta interpretazione del dato normativo in questione da parte del giudice di appello (che ha confermato la statuizione del giudice di primo grado) soccorre anche la più recente giurisprudenza penale, sulla scorta della quale (al fine di distinguere le condotte concretanti reato da quelle configuranti solo violazioni amministrative), in tema di tutela dei prodotti dell’industria e del commercio, integra l’illecito amministrativo previsto dalla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49-bis, l’importazione dall’estero di prodotti recanti un’etichetta raffigurante un marchio idoneo, in assenza di precise indicazioni sulla esatta provenienza o della dichiarazione di impegno a rendere tali informazioni in fase di commercializzazione, a trarre in inganno anche un consumatore esperto sull’effettiva origine del prodotto (cfr. Cass. pen. 52029/2014). Si è ancora più incisivamente affermato che la “fallace indicazione” di provenienza o di origine dei prodotti presentati in dogana per l’immissione in commercio integra l’illecito amministrativo previsto dalla L. n. 350 del 2003, art. 4 cit., comma 49-bis, qualora, a causa di indicazioni di provenienza insufficienti o imprecise (e non necessariamente ingannevoli), il consumatore è indotto in errore sulla effettiva origine dei prodotti (v. Cass. pen. 54521/2016 e Cass. pen. 25030/2017). In definitiva, alla stregua delle svolte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto, con la conseguente condanna delle soccombenti parti ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo, con attribuzione al difensore della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Salerno, per dichiarato anticipo.

Sussistono, inoltre, le condizioni per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 1, comma 17, che ha aggiunto al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, il comma 1- quater – dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le parti ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario nella misura del 15% ed accessori nella misura e sulle voci come per legge, con attribuzione al difensore antistatario della controricorrente Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Salerno.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2 Sezione civile della Corte di cassazione, il 12 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 agosto 2019

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