Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20982 del 01/10/2020

Cassazione civile sez. II, 01/10/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 01/10/2020), n.20982

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20156-2019 proposto da:

B.T.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato GIUSEPPE

BRIGANTI ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in

FERMIGNANO (PU), VIA R. RUGGERI 2/A;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore;

– resistente –

avverso la sentenza n. 3137/2018 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 18/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/01/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

B.T.M., cittadino della Guinea, ha impugnato la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 3137/2018, pubblicata il 18/12/2018, con la quale è stato respinto l’appello proposto per la riforma dell’ordinanza del Tribunale di Bologna del 3/04/2017 a definizione del ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale di Bologna.

Il ricorrente aveva richiesto il riconoscimento della protezione internazionale, deducendo di provenire dalla Guinea, ha raccontato di appartenere al Gruppo etnico Peulh e che il 7.5.2015 era stata indetta una manifestazione contro l’organizzazione delle elezioni, e nell’occasione luì commerciante era seduto presso la propria abitazione a bere con amici, allorquando un Gruppo di militari aveva sparato contro di loro uccidendo un sue amico e ferendo lui con un coltello; era stato arrestato insieme ad altri amici e rinchiuso dapprima in una prigione di quartiere e poi nel carcere “Maison Centrale de la Suretè”, dove era rimasto per due mesi e dove lo avevano torturato; per poi riuscire a fuggire grazie al fratello che aveva corrotto un poliziotto dandogli un milione di franchi giuneiani il quale, una notte, lo aveva accompagnato alla uscita e lo aveva consegnato ad un altro uomo che lo aveva condotto in Mali.

La Corte d’appello – rigettando il ricorso avverso la pronuncia del Tribunale – ha, in particolare, rilevato che non solo non erano stati sciolti i dubbi, già emersi davanti alla Commissione ed in primo grado, circa la identità del soggetto corrotto per favorire la fuga dal carcere (un semplice poliziotto ovvero il capo del carcere); circa le modalità e le ragioni dell’attacco da parte della Polizia durante la manifestazione; circa la sua permanenza in carcere “Maison Centrale de la Suretè” asseritamente durata due mesi, senza che il medesimo sapesse riconoscere le immagini più comuni della struttura.

Parimenti, la Corte di merito ha, ulteriormente, ritenuto implausibili le dichiarazioni rese al ricorrente alla Commissione nel 2016 riguardo alla famiglia, avendo dichirato di essersi sposato nel 2012, di avere un figlio nato nel 2013 e che la moglie era di nuovo incinta nel 2015 quando lui era scappato dal Paese, senza tuttavia avere notizie telefoniche anche riguardo alla sua attività di commerciante; nonchè riguardo al fratello, che lo aveva aiutato a fuggire con il quale non aveva più contatti a cagione del mancato funzionamento del telefono; ed infine riguardo alle cicatrici alle caviglie in ragione delle asserite torture ricevute. La Corte distrettuale ha quindi ritenuto tale narrazione non credibile alla luce dei criteri dettati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, per cui in assenza di prove circa i fatti prospettati, essendo esigibile “ogni ragionevole sforzo”, ha concluso nel senso che il richiedente non avesse compiuto un adeguato sforzo per circostanziare la domanda, nè avesse fornito argomentazione alcuna della mancanza di elementi significativi.

Reputando il difetto di credibilità delle dichiarazioni, anche sul Paese di provenienza, motivo assorbente, che comportava il rigetto di tutte le richieste proposte dal ricorrente, essendo quella della credibilità del richiedente presupposto comune ai tre istituti (status di rifugiato, protezione sussidiaria e protezione umanitaria).

Propone ricorso per la cassazione di tale decisione B.T.M. affidandosi a tre motivi. L’Avvocatura generale dello Stato, per il Ministero dell’Interno pro tempore, si è costituita tardivamente al fine di eventualmente partecipare alla udienza di discussione, non tenuta poichè la causa è stata trattata in adunanza camerale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4), per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 nel testo applicabile ratione temporis e degli artt. 112 e 132 c.p.c., art. 156 c.p.c., comma 2 e art. 342 c.p.c. nonchè dell’art. 111 Cost., comma 6; in subordine, omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, in ragione del fatto che la Corte di merito – non essendo stato messo in discussione in sede di appello anche il giudizio di veridicità della narrazione operata dal giudice di primo grado – non poteva ritenersi investita della cognizione su tale aspetto e pertanto non poteva riformulare il giudizio in parte qua raggiungendo conclusioni opposte a quelle del primo giudice; dovendo, sotto altro profilo, compiere ogni più opportuna indagine (in virtù del dovere di collaborazione istruttoria) al fine di accertare la attuale situazione socioeconomica-politica della Guinea in rapporto alla specifica vicenda narrata dal ricorrente.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. -Occorre rilevare che il motivo risulta basato sulla asserita incoerenza della motivazione del giudice di appello, essendo questa fondata su un giudizio di non veridicità della narrazione mai formulato dal giudice di primo grado, il quale invece aveva basato la propria decisione sulla asserita irrilevanza della vicenda ritenuta credibile. Secondo il ricorrente, dunque, la Corte di merito si sarebbe limitata ad un generico richiamo della decisione di primo grado senza tener conto dei motivi di appello del richiedente, che avrebbero invece richiesto una valutazione alla luce delle caratteristiche specifiche della situazione.

Orbene, la motivazione della sentenza per relationem è ammissibile, purchè il rinvio venga operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e dell’identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio (ex plurimis Cass. n. 21978 del 2018; Cass. n. 7347 del 2012; Cass. n. 11138 del 2011). Nella specie, tuttavia, tale fattore di corrispondenza non risulta concretamente evidenziabile, non essendo stato trascritto nel ricorso il contenuto della decisione di primo grado; e ciò, tanto più, in considerazione del fatto che, viceversa, nel medesimo ricorso sono stati integralmente riportati sia l’atto di appello, sia relative conclusioni del richiedente.

In applicazione del principio processuale della “ragione più liquida”, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost., il Collegio ritiene che il motivo possa essere deciso con riguardo alla questione ritenuta di più agevole soluzione (appunto, quella della mancanza del termine di riferimento della asserita motivazione della sentenza impugnata per relationem) senza che sia necessario esaminare previamente le altre, imponendosi, a tutela di esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo piuttosto che su quello della coerenza logico sistematica e sostituisca il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. (Cass. n. 11458 del 2018; conf. Cass. sez. un. 9936 del 2014; Cass. n. 363 del 2019).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento all’art. 2 Cost., art. 10 Cost., comma 3 e art. 32 Cost.; alla L. n. 881 del 1977, art. 11; al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27, e 32 e all’art. 16 direttiva Europea n. 2013/32 nonchè agli art. 2, 3 – anche in relazione agli artt. 115 e 117 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5, 6, 7 e 14 e al TU n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 2, nel testo applicabile ratione temporis”.

2.1. – Il motivo è infondato.

2.2. – Va premesso che, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016). Ciò in quanto, il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

2.3. – Il motivo del ricorso deve, dunque, necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c.; essendo, pertanto, inammissibile la critica generale (e inevitabilemente generica) della sentenza impugnata, formulata con una articolazione di doglianze riferibili ad una eterogeneità di profili non chiaramente individuabili e collegabili ad una delle fattispecie di vizio enucleate dal codice di rito (Cass. n. 11603 del 2018).

Ne consegue che le censure, come rapsodicamente articolate, appalesano piuttosto lo scopo del ricorrente di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili, onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c. per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, dunque, cercando di attribuire al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse (Cass. n. 22355 del 2019; Cass. n. 2051 del 2019).

2.4. – Peraltro, questa Corte (Cass. n. 16925 del 2018) ha chiarito che “in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona”, cosicchè “qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori”.

Come precisato, inoltre, da questa Corte (Cass. n. 14006 del 2018) con riguardo alla protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), “l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia”. Nel ricorso, viceversa non si spiegano e ragioni per le quali, nello specifico caso in esame, sussisterebbero i presupposti per il riconoscimento della tutela in favore del ricorrente, limitandosi il ricorrente a riferire del rischio in caso di suo rientro nel paese d’origine, di subire persecuzioni politiche ed atti di violenza e tortura in ragione della sua appartenenza al Gruppo etnico Peulh.

La parte ricorrente mira, insomma, del tutto inammissibilmente, a confutare le valutazioni di merito operate dalla Corte distrettuale, tra e quali quella relativa alla sua inattendibilità, tenuto conto che il riconoscimento della protezione sussidiaria, cui il motivo sostanzialmente si riferisce, presuppone che il richiedente rappresenti una condizione, che, pur derivante dalla situazione generale del paese, sia, comunque, a lui riferibile e sia caratterizzata da una personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la “violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in riferimento agli artt. 6 e 13 della convenzione EDU, all’art. 47 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e all’art. 46 della direttiva Europpea n. 2013/32”.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – Ribadite le considerazioni svolte sub 2.2., va rilevato che il richiamo alla normativa convenzionale, risulta nel caso di specie inconferente rispetto alla “liquidità” e specificità della ratio decidendi sottesa alla concreta vicenda in esame.

4. – Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va respinto. Nulla per le spese in ragione del fatto che l’intimato non ha svolto alcuna difesa. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2020

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