Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20981 del 01/10/2020

Cassazione civile sez. II, 01/10/2020, (ud. 30/01/2020, dep. 01/10/2020), n.20981

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20639-2019 proposto da:

M.H.M., rappresentato e difeso dall’Avvocato LUIGI

MIGIACCIO ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in

NAPOLI, PIAZZA CAVOUR 139;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore,

rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE dello

STATO e domiciliato presso i suoi Uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 25/2019 della CORTE d’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 4/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/01/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.H.M., cittadino del (OMISSIS), ha impugnato la sentenza della Corte d’appello di Bologna n. 25/2019, pubblicata il 4/01/2019, con la quale è stato respinto l’appello proposto per la riforma dell’ordinanza del Tribunale di Bologna, comunicata il 16/01/2017, a definizione del ricorso n. 855/16rg presentato il 22/01/2016 avverso la decisione Id.FC0000806 della Commissione territoriale di Bologna – sez. Forlì Cesena.

Il ricorrente ha richiesto il riconoscimento del proprio diritto a protezione internazionale, deducendo di avere lasciato il suo paese nel 2012 avendo contratto un ingente debito; stabilitosi in Libia, vi aveva lavorato per tre anni, essendo costretto, a causa del conflitto ivi perdurante, al nuovo espatrio in Italia nel 2015. In particolare, il ricorrente ha riferito di essere scappato dal proprio Paese nel 2012 a causa della estrema povertà della propria famiglia, che aveva dovuto lasciare la casa di proprietà, a causa di dissidi insorti con i parenti, prendendone un’altra in locazione; affermando tuttavia di temere, in caso di rientro, di essere picchiato dai creditori a cui non aveva restituito i soldi che gli avevano prestato a tassi usurari.

La Corte d’appello (rigettando il ricorso avverso la pronuncia del Tribunale, che ha ritenuto veritiero il racconto dello straniero) ha, in particolare, rilevato che nella vicenda personale del medesimo – quale desumibile dalla sua stessa prospettazione dei fatti – non sono ravvisabili gli estremi costitutivi di alcuna fattispecie legittimante il riconoscimento della protezione sussidiaria, giacchè la vicenda è connotata da una mera questione economica, che non può costituire il danno grave delineato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale).

Escluso qualsiasi riferimento alla situazione in Libia, che non è paese di origine, dal rapporto Easo del dicembre 2017, emerge che la politica di tolleranza zero nei confronti del terrorismo adottata dal Governo ha consentito alle autorità statali di proseguire efficacemente la cooperazione antiterrorismo con la comunità internazionale; sicchè queste informazioni, pur non consentendo di affermare l’esistenza in Bangladesh di standard di sicurezza pubblica paragonabili a quelli dei paesi UE, attestano tuttavia che, per quanto faticosamente, le autorità bengalesi sono impregnate, in modo efficace e significativo, nel migliorare la tutela dei diritti umani e nel contrastare conccretamente le attività terroristiche. Conseguentemente, la Corte di merito ha escluso la possibilità di riconoscere al ricorrente la protezione sussidiaria, essendo insussistenti in concreto le ragioni di timore espresse dal medesimo in caso di rientro in patria e non ravvisandoosi nell’attuale situazione sociopolitica del Paese fenomeni di violenza indiscriminata. Ed esclude altresì che sussistano i presupposti per la protezione umanitaria, richiesta, peraltro, in modo del tutto generico.

Propone ricorso per la cassazione di tale decisione M.H.M. affidandosi a due motivi, illustrati da memoria. Resiste il Ministero dell’Interno con conttroricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta l'”error in judicando in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e relativo al rischio di danno grave rilevante ai fini del riconoscimento di protezione sussidiaria nella ipotesi indicata al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b)”, con riferimento al profilo di rischio dedotto dal ricorrente ai sensi dell’art. 14, lett. b), di detto D.Lgs. al cui riconoscimento era subordinato il riconoscimento della protezione sussidiaria.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce l'”error in judicando – omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio e relativo ai presupposti per il riconoscimento di protezione umanitaria, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica, i motivi vanno esaminati e decisi congiuntamente. Essi sono inammissibili.

2.1. – Pregiudizialmente, va rilevato come entrambi i motivi sono formulati con riferimento al paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo novellato dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 4 gennaio 2019). Esso consente consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’è idonea indicazione. Laddove, poi, va rilevato che nell’ambito applicativo di detta norma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

2.2. – Nella specie, la censura si scontra manifestamente con la considerazione che non sia dato ravvisare nessuna omesso esame di fatti decisivi riscontrabile nella sentenza impugnata. Sicchè, le censure formulate con entrambi i motivi si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta al giudice di legittimità di una complessiva (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della medesima sentenza (come si deduce dalla produzione tardiva della informative EASO COI sulla condizione dei debitori in Bangladesh dell’11.06.2019: v. ricorso, pag. 11); nella quale viceversa è stato affrontato analiticamente l’esame circa la sussistenza dei presupposti per il riconoscimnto della protezione sussidiaria e, in subordine, di quella umanitaria.

2.3. – Così, la Corte di merito ha, correttamente, esaminato ed escluso che fossero ravvisabili gli elementi costitutivi di alcuna fattispcie legittimante il riconoscimento della protezione sussidiaria, essendo escluse dalla stessa prospettazione dei fatti le ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b) (condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte, tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante), nonchè l’ipotesi di cui alla lett. c), ossia la (non provata) esistenza dell’effettivo e concreto rischio di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del ricorrente qualora ritornasse nel paese di origine derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Essendo evidente, per la Corte d’appello, che la vicenda del ricorrente abbia natura e carattere personale o familiare ricollegabile alla sfera ordinaria; e che la mancata estinzione del debito non potrebbe determinare l’esposizione al rischio per la vita o l’incolumità fisica del richiedente (là dove, dalla parteza ad oggi i familiari non hanno subito violenze ma, a suo stesso dire, solo richieste di restituzione del denaro prestato, accompagnate da minacce) a cagione della mancata protezione dei soggetti ai quali è demandata la pubblica sicurezza, così da determinare una situazione di violenza indiscriminata.

2.4. – Orbene (premesso che, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito; per cui il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5: Cass. n. 3264 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018), questa Corte ha, infatti, rievato che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), deve essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria. Il grado di violenza indiscriminata deve aver pertanto raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019; Cass. 9090 del 2019).

2.5. – Con riguardo al richiesto riconoscimento della protezione umanitaria (cui si estendono le considerazioni svolte in ordine alla non riferibilità delle doglianze al parametro dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5); nonchè all’apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, censurabile in cassazione nei limiti consentiti dal suo novellato ambito applicativo), questa Corte ha chiarito che “in materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. 4455 del 2018).

Ora, la Corte d’appello ha ritenuto insussistente una situazione di vulnerabilità personale, meritevole di tutela, del richiedente il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, essendosi lo stesso limitato a riferire di una situazione personale di rischio di subire danni o minacce in ragione del non saldato debito. La genericità del racconto del ricorrente (pur se ritenuto, nel complesso, credibile), collegato a vicende generate nel passato in un contesto familiare di povertà (rimaste prive di elementi di riscontro), ha giustificato la pronuncia.

Come detto, tale giudizio è sorretto da una valutazione che, essendo adeguatamente motivata, non è censurabile in questa sede, implicando accertamenti di merito che sono per loro natura estranei al giudizio di legittimità (Cass. n. 2858 del 2018).

Laddove, poi, la Corte di merito ha significativamente rilevato che il ricorrente si era limitato a produrre due contratti a tempo indeterminto nel settore tessile (riferibili al periodo 20172018), senza tuttavia fornire valida prova del suo corretto inserimento ed integrazione nella società civile italiana.

3. – Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va respinto. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2020

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