Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20977 del 12/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/10/2011, (ud. 13/07/2011, dep. 12/10/2011), n.20977

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.V., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato DOTTA MARCO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI

12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 443/2008 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 22/04/2008 r.g.n. 975/07;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/07/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato FEDELI VERDIANA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 16/4 – 22/4/08 la Corte d’Appello di Torino accolse parzialmente l’impugnazione proposta dal Ministero della Giustizia avverso la sentenza del 9/1 -4/4/07 del giudice del lavoro del Tribunale dello stesso capoluogo piemontese, con la quale era stato condannato a corrispondere a L.V., operante presso il settore UNEP di Torino con livello C1, le differenze di retribuzione tra quelle del livello di appartenenza ed il livello C2 per il periodo 9/7/01 – 29/9/06, e, per l’effetto, condannò l’amministrazione appellante al pagamento delle stesse solo a decorrere dall’1/3/05, mentre respinse l’appello incidentale del lavoratore diretto al riconoscimento del superiore inquadramento.

La Corte torinese spiegò che, in ossequio al precedente n. 13931/06 della suprema Corte, i compiti di direzione, coordinamento e disciplina del lavoro degli ufficiali giudiziari dirigenti, inquadrati nella 7^ qualifica funzionale, non potevano essere assimilati a quelli comportanti una eventuale responsabilità esterna, ma rientravano tra quelli, caratteristici di tale qualifica, di eventuale responsabilità di unità organiche, di indirizzo e di coordinamento di personale non svolgente attività a rilevanza esterna. Diversamente, secondo il giudice d’appello, l’incarico di responsabile dei servizi connessi all’informatizzazione dell’ufficio, attività, quest’ultima, commissionata a ditta esterna operante in appalto, attribuito al L. con decreto dell’11/2/2005 del Presidente della Corte d’appello di Torino, rappresentava un’incombenza complessa che presupponeva approfondite conoscenze ed era, pertanto, inquadrabile nell’ambito della posizione economica C2, mentre il rivendicato diritto al superiore inquadramento era espressamente precluso dal disposto di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 1. Per la cassazione della sentenza propone ricorso il L., il quale affida l’impugnazione a tre motivi di censura. Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente denunzia la violazione di legge e dei principi di diritto in relazione agli artt. 115-116 c.p.c. e all’art. 118 disp. att. c.p.c., nonchè l’errata motivazione su un punto decisivo della controversia.

Nel corso dell’illustrazione del motivo il ricorrente fa riferimento al fatto che già con l’ordine di servizio n. 30/03 del 9/12/03 gli era stata affidata la funzione di responsabile dell’informatizzazione dell’UNEP di Torino, per cui non era dato comprendere la ragione per la quale la decorrenza dello svolgimento delle mansioni superiori, rientranti nel livello C2, era stata fissata all’1/3/2005, salvo voler ipotizzare che la Corte territoriale si fosse lasciata trarre in inganno dall’esistenza del decreto dell’11/2/2005 del Presidente della Corte d’appello di Torino col quale era stato confermato nel ruolo di responsabile della predetta informatizzazione. Il L. indica, inoltre, due documenti, vale a dire la comunicazione di servizio del 10/6/08 della società IPEC s.a.s, appaltatrice del servizio informatico, e la circolare del 13/3/06 della Dirigenza UNEP, che attesterebbero l’importanza del ruolo da lui svolto e dichiara di allegare il verbale della “commissione di controllo organizzazione e servizi del 22/6/05” contenente dati significativi al riguardo dell’attività da lui svolta.

Il motivo si conclude col seguente quesito di diritto: “Dica la Suprema Corte se siano stati violati dalla Corte giudicante i diritti dell’appellante in materia di accertamento delle prove presentate e di corretta decisione rispetto alla motivazione della sentenza su un punto decisivo della causa, e se sussista erroneità in detta decisione proprio alla stregua di quanto accettabile ed accertato.” Il motivo è infondato.

Invero, contrariamente all’assunto del ricorrente, per il quale la Corte di merito sarebbe incorsa in un probabile errore materiale nella individuazione della decorrenza del diritto ad una parte delle differenze retributive, cioè quelle connesse allo svolgimento dell’attività di informatizzazione dell’ufficio, si rileva chiaramente dalla decisione che la data dell’1/3/2005 rappresenta la data di decorrenza dell’incarico di responsabile dei servizi connessi all’informatizzazione dell’ufficio attribuitogli con decreto dell’11/2/2005 del Presidente della Corte d’appello di Torino. Se ne ricava, quindi, che il giudice d’appello ha inteso fissare con certezza la data di decorrenza del diritto alle differenze retributive ancorandola al dato ufficiale rappresentato dalla formale decorrenza dell’incarico, a sua volta basata su un preciso decreto di attribuzione del servizio di informatizzazione , per cui a nulla possono valere le deduzioni dell’odierno ricorrente sulla supposta pregressa esperienza da lui maturata in quel settore.

Tra l’altro tali supposizioni sono inammissibilmente ancorate ad un documento non prodotto, per cui vi è un evidente motivo di improcedibilità per quel che concerne il richiamo all’ordine di servizio n. 30/03 del 9/12/2003, atteso che in spregio a quanto prescritto dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, tale documento non risulta in atti, tanto che non figura nemmeno nell’elenco dei documenti indicati in calce al ricorso.

Infatti, come le Sezioni unite di questa Corte hanno già avuto modo di statuire (Sez. Un. Ordinanza n. 7161 del 25/3/2010), “in tema di ricorso per cassazione, l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, novellato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, oltre a richiedere l’indicazione degli atti, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento risulti prodotto; tale prescrizione va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 per cui deve ritenersi, in particolare, soddisfatta: a) qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purchè nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; b) qualora il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l’indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di controparte, pur se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per il caso in cui la controparte non si costituisca in sede di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o lo produca senza documento; c) qualora si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito, relativo alla nullità della sentenza od all’ammissibilità del ricorso (art. 372 p.c.) oppure di documento attinente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l’esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione del documento, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell’ambito del ricorso.” Quanto alla generica doglianza di presunta violazione dei diritti dell’appellante in materia di accertamento delle prove presentate, si osserva che, come è stato già statuito da questa Corte (Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/2004) “il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva riconosciuto il diritto del ricorrente alla qualifica di quadro di secondo livello Q2, sulla base dell’accertato svolgimento delle mansioni di tenuta della contabilità e di gestione della cassa, a lui delegate, in un ufficio postale di rilevante importanza, dal direttore preposto)”.

Orbene, nella fattispecie in esame può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni del materiale probatorio operate dal giudice d’appello appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro, oltre che aderenti ai risultati fatti registrare dalla disamina dei documenti prodotti in ordine a punti qualificanti della controversia, per cui le stesse non meritano affatto le censure di omessa ed insufficiente disamina mosse col presente motivo di doglianza.

2. Col secondo motivo il ricorrente denunzia la violazione di legge e di disposizioni aventi efficacia di legge (artt. 114 – 115 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c.) per errata applicazione dell’art. 25 contenuto nell’Accordo integrativo al CCNL 1998 – 2001, nonchè del CCNL Comparto Ministeri. In particolare, il ricorrente non solo si limita a contestare la valutazione eseguita dai giudici di appello in ordine alla non riconducibilità delle mansioni da lui svolte al superiore livello di inquadramento preteso, ma tenta anche un improponibile confronto con qualifiche riconosciute in diversi giudizi ad altri ufficiali giudiziari del suo ufficio di livello superiore al suo. A conclusione del motivo pone il seguente quesito:

” Dica la Corte se siano stati violati dalla Corte giudicante i diritti dell’appellato in tema di accertamento delle prove presentate dal predetto nel presente procedimento e di corretta motivazione e decisione su punto decisivo della causa, vista la contrattazione collettiva di cui si è fatta sopra menzione e le richiamate disposizioni di legge. ” Osserva la Corte che il motivo presenta diversi profili di inammissibilità: anzitutto, per quel che concerne il negato riconoscimento del diritto alle differenze retributive connesse allo svolgimento delle mansioni asseritamente superiori, ad eccezione delle attività di informatizzazione dell’ufficio per le quali il riconoscimento è avvenuto, si rileva che il quesito non intacca minimamente la “ratio decidendi” della sentenza; invero, questa è imperniata sull’orientamento (Cass. sez. lav. n. 13931/2006) condiviso di questa stessa Corte in base al quale le attività svolte dagli ufficiali giudiziari, a diretto contatto col pubblico e di natura dichiarativa, certificativa o esecutiva non sono assimilabili a quelle svolte da uffici a rilevanza esterna, che è nozione che si riferisce non all’attività materiale, ma al potere di formare ed esternare ai terzi la volontà dell’amministrazione, mentre i dipendenti UNEP comunicano o eseguono atti del giudice o di privati e, nell’assolvimento di questi pur delicatissimi compiti, non esprimono all’esterno alcuna volontà dell’amministrazione di appartenenza. Sempre in base a tale orientamento, per gli ufficiali giudiziari dirigenti (anch’essi inquadrati nella 7^ qualifica funzionale) i compiti di direzione, coordinamento e disciplina del lavoro non possono essere assimilati a quelli comportanti una eventuale responsabilità esterna, ma rientrano tra quelli, caratteristici della 7^ qualifica funzionale, di eventuale responsabilità di unità organiche, di indirizzo e di coordinamento di personale non svolgente attività a rilevanza esterna.

Inoltre, lo stesso quesito è formulato in maniera del tutto generica e non è nemmeno indicata dal ricorrente l’adozione di una “regula iuris” alternativa a quella stabilita nella sentenza impugnata:

invero, non può che essere qualificata come assolutamente generica e priva di indicazione di una regola di diritto alternativa a quella sulla quale si regge la sentenza impugnata la semplice richiesta di verificare se siano stati violati dalla Corte di merito i diritti dell’appellato in tema di accertamento delle prove presentate dal predetto nel presente procedimento e di corretta motivazione e decisione su punto decisivo della causa. E’ stato, infatti, affermato (Cass. sez. lav. n. 7197 del 25/3/2009) che “il quesito di diritto deve essere formulato, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una “regula iuris” suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione sia del tutto inidonea ad assumere rilevanza ai fini della decisione del motivo e a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in relazione alla concreta controversia.” Anche in precedenza si era ribadito che “il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve comprendere l’indicazione sia della “regula iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo. La mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile”.

( Cass. sez. 3, sent. n. 24339 del 30/9/2008) In maniera ancora più esplicita (Cass. sez. 3, Ordinanza n. 4044 del 19/2/2009) si è affermato che “il quesito di diritto prescritto dall’art. 366 bis cod. proc. civ. a corredo del ricorso per cassazione non può mai risolversi nella generica richiesta rivolta alla Corte di stabilire se sia stata o meno violata una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, e deve investire la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto”.

3. Con l’ultimo motivo si deduce la violazione di legge e dei principi di diritto (artt. 114, 115 e 118 disp. att. c.p.c.) in relazione all’applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52. In pratica, si vuol sostenere che nella fattispecie non troverebbero applicazione i commi 4 e 5 di quest’ultima norma in materia di retribuibilità dell’espletamento di fatto delle mansioni superiori in quanto l’esercizio delle stesse sarebbe dipeso nel caso in esame da un formale provvedimento dell’amministrazione, con conseguente possibilità di riconoscimento del superiore inquadramento. Il motivo, che come è dato vedere contiene la denunzia di norme di legge, è, tuttavia, inammissibile in quanto a conclusione dello stesso non è formulato il prescritto quesito di diritto di cui all’art. 366-bis c.p.c. Si è, infatti, statuito (Cass. Sez. Lav. n. 4556 del 25/2/2009) che “l’art. 366-bis cod. proc, civ., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del ricorso in cassazione, comporta, ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso medesimo, una diversa valutazione da parte del giudice di legittimità a seconda che si sia in presenza dei motivi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ovvero del motivo previsto dal n. 5 della stessa disposizione. Nel primo caso ciascuna censura deve, all’esito della sua illustrazione, tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va funzionalizzata, come attestato dall’art. 384 cod. proc. civ., all’enunciazione del principio di diritto ovvero a “dieta” giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza, mentre, ove venga in rilievo il motivo di cui all’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (il cui oggetto riguarda il solo “iter” argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione.” Il ricorso va, pertanto, rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 2000,00 per onorario, oltre Euro 30,00 per esborsi, nonchè IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge.

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2011

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