Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20976 del 12/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/10/2011, (ud. 13/07/2011, dep. 12/10/2011), n.20976

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

A.R.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 30/2008 della CORTE D’APPELLO di TRENTO,

depositata il 23/09/2008 r.g.n. 40/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/07/2011 dal Consigliere Dott. BERRINO Umberto;

udito l’Avvocato FEDELI VERDIANA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza dell’11/9 – 23/9/08 la Corte d’Appello di Trento rigettò l’impugnazione proposta dal Ministero della Giustizia sia avverso la sentenza non definitiva n. 121/07 del giudice del lavoro del Tribunale del capoluogo trentino, con la quale era stato dichiarato il diritto di A.R., direttrice di cancelleria “C3”, a percepire, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, la differenza tra il trattamento economico previsto per la superiore posizione dirigenziale ricoperta all’interno della segreteria della Procura generale della Repubblica di Trento nel periodo 4/3/01 – 31/12/05 e quella effettivamente percepita, eccettuati i giorni di assenza dal lavoro e quelli dal 26/9/02 al 28/4/03, sia avverso quella definitiva n. 104/08 dello stesso giudice, il quale aveva condannato l’amministrazione convenuta al pagamento in favore della ricorrente della somma di Euro 56.027,52, maggiorata degli accessori di legge. A fondamento della decisione di rigetto del gravame la Corte territoriale spiegò che era condivisibile il ragionamento del primo giudice in base al quale lo stesso Ministero aveva ricondotto le superiori mansioni assegnate alla A. alla figura del dirigente di segreteria attribuendole una tale denominazione e riconoscendole, altresì, lo svolgimento di fatto delle stesse, come attestato anche nella nota del Procuratore Generale; inoltre, apparivano infondati i rilevi svolti dal Ministero avverso i criteri adottati dal primo giudice in merito alla quantificazione delle differenze retributive.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso il Ministero della Giustizia che affida l’impugnazione a cinque motivi di censura.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il Ministero della Giustizia denunzia l’omessa ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5), dolendosi della eccessiva valenza data dai giudici del merito al provvedimento dell’amministrazione (p.d.g. del 19/5/03) col quale era stato conferito alla dipendente l’incarico di funzionario delegato per la sola gestione delle spese di giustizia, al punto da ritenerlo come una sorta di esplicita ammissione datoriale dello svolgimento, da parte della A., delle mansioni dirigenziali per il periodo oggetto di contestazione, dando così ingresso all’accoglimento della domanda diretta al conseguimento delle relative differenze retributive.

Secondo il ricorrente la Corte di merito avrebbe anche omesso di considerare che il suddetto p.d.g. non poteva ritenersi equivalente ad un provvedimento di nomina a dirigente in mancanza dell’atto di conferimento della reggenza dell’ufficio, che sarebbe stato, invece, di per sè indicativo, almeno sotto il profilo formale, della volontà dell’Amministrazione di attribuire al funzionario reggente le mansioni dirigenziali nel periodo di vacanza dell’ufficio. Ciò trovava riscontro anche nel fatto che gli atti a rilevanza esterna non erano stati mai sottoscritti dalla dipendente, bensì dal Procuratore Generale di quell’ufficio, così come il controllo formale dei modelli di pagamento e dei relativi allegati non era stato mai effettuato dalla medesima, bensì dalla segreteria contabile della Procura Generale. In definitiva, la A. si era occupata esclusivamente della mera gestione del personale (pari a 19 unità) mediante atti interni, ma la esecutività di tali ordini di servizio era, comunque, subordinata alla sottoscrizione del Capo dell’ufficio giudiziario che se ne assumeva la responsabilità. Nè poteva condividersi la motivazione del giudice d’appello in ordine alla imputabilità all’Amministrazione del mancato conferimento degli obiettivi da perseguire, caratteristica, questa, che differenziava in modo saliente il ruolo dei dirigenti da quello dei funzionari, in quanto la A. aveva avuto, comunque, degli obiettivi da raggiungere nell’espletamento della funzione attribuitale, alla stregua di una obbligazione di risultato. Il motivo è infondato.

Invero, come è stato già statuito da questa Corte (Cass. sez. lav.

n. 2272 del 2/2/2007), “il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse”. Orbene, nella fattispecie in esame può tranquillamente affermarsi che, nel loro complesso, le valutazioni del materiale probatorio operate dal giudice d’appello appaiono sorrette da argomentazioni logiche e perfettamente coerenti tra di loro, oltre che aderenti ai risultati fatti registrare dalla disamina dei documenti prodotti in ordine a punti qualificanti della controversia, per cui le stesse non meritano affatto le censure di omessa ed insufficiente disamina mosse col presente motivo di doglianza.

Tra l’altro, non va dimenticato che “in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la “ratio decidendo” venga a trovarsi priva di base. (Nella specie la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo di ricorso in quanto che la ricorrente si era limitata a riproporre le proprie tesi sulla valutazione delle prove acquisite senza addurre argomentazioni idonee ad inficiare la motivazione della sentenza impugnata, peraltro esente da lacune o vizi logici determinanti).” (Cass. Sez. 3 n. 9368 del 21/4/2006; in senso conf. v. anche Cass. sez. lav. n. 15355 del 9/8/04).

Nella fattispecie, la Corte d’appello di Trento ha attentamente valutato con argomentazioni logiche e ben motivate, immuni da vizi giuridici, il materiale istruttorie raccolto, per cui le doglianze appena riferite non scalfiscono la validità della relativa “ratio decidendi”.

Infatti, la Corte di merito è partita dalla constatazione che a seguito di sollecitazione del Procuratore generale alla nomina di un nuovo funzionario delegato per la gestione delle spese di giustizia, stante il trasferimento del dirigente nominato, il Ministero provvide a nominare la A. con la indicazione di “Dirigente segreteria Procura generale Corte appello di Trento”, finendo, in tal modo col prendere atto dello svolgimento delle mansioni dirigenziali già espletate in via di fatto dalla medesima dipendente, così come attestato nella nota del Procuratore Generale; da ciò è poi giunta alla conclusione che il mancato conferimento di obiettivi era addebitabile esclusivamente all’amministrazione, senza che ciò potesse arrecare nocumento alla lavoratrice, la quale aveva di fatto svolto con carattere di prevalenza le mansioni di dirigente dell’ufficio affidatele, maturando il diritto a conseguire le relative differenze retributive. Inoltre, con argomentazione altrettanto immune da vizi di carattere logico-giuridico, la Corte di merito ha evidenziato che i documenti concernenti le comunicazioni tra i rispettivi capi della Procura Generale e della Procura della Repubblica di Trento in ordine alle questioni inerenti il mancato rispetto del termine nella rendicontazione delle spese di giustizia da parte del Procuratore della Repubblica non erano idonei ad attestare, contrariamente all’assunto del Ministero, la diretta assunzione di responsabilità del magistrato dirigente dell’ufficio gerarchicamente superiore, trattandosi semplicemente di uno scambio di note tra i capi dei due uffici giudiziari interessati.

2. Col secondo motivo il Ministero denunzia la violazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 17, 21 e 52 del e della previsione contenuta nell’allegato “A” del ccnl comparto Ministeri 16/2/1999 laddove trascrive le specifiche professionali dell’area “C” posizione economica “C3”, contestando che il riconoscimento delle superiori funzioni sia stato basato sul solo atto documentale del p.d.g 19/5/03 di conferimento dell’incarico di funzionario delegato per la gestione delle spese di giustizia.

A conclusione del motivo è formulato il seguente quesito di diritto:

“Dica l’Ecc.ma Suprema Corte adita se – ai fini del riconoscimento delle differenze retributive pretese dal dipendente per l’asserito svolgimento di mansioni dirigenziali – sia necessario, nel giudizio di merito ove tali mansioni superiori siano rivendicate, verificare, come richiesto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 3, il ricorrere del presupposto della prevalenza temporale e qualitativa dell’impegno professionale asseritamente impiegato nella mansione superiore di natura dirigenziale e se dunque incorra nella violazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 17, 21 e 52 e della previstone contenuta nell’allegato A del CCNL Comparto Ministeri 16/2/1999 laddove descrive le specifiche professionali dell’area “C”, posizione economica C3 (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), la sentenza che ritenga accertato lo svolgimento di mansioni superiori dirigenziali sulla sola base di un atto (il p.d.g. 19/5/2003) contenente la nomina della dipendente a funzionario delegato per la gestione delle spese di giustizia, e quindi per tabulas senza necessità di un articolato accertamento sui concreti compiti affidati alla dipendente e sul ricorrere dei caratteri propri della posizione dirigenziale, cosi come descritti dal D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 17 e 21.” Anche tale motivo è infondato.

Anzitutto, in caso di effettivo svolgimento di mansioni superiori, così come nella specie è stato accertato in base alle considerazioni appena svolte in occasione della disamina del primo motivo di doglianza, il dipendente ha diritto in ogni caso, anche quando non possa essergli riconosciuto il diritto all’inquadramento nella qualifica superiore, alla corresponsione delle differenze retributive corrispondenti alle mansioni effettivamente svolte.

Questo diritto deriva direttamente dall’art. 36 Cost., comma 1, in base al quale “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione corrispondente alla quantità e qualità del suo lavoro”.

D’altronde, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire (Cass. sez. Lav. n. 27887 del 30/12/2009), “in materia di pubblico impiego, il dipendente pubblico assegnato, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, allo svolgimento di mansioni corrispondenti ad una qualifica superiore rispetto a quella posseduta ha diritto, anche in relazione a tali compiti, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente secondo le previsioni dell’art. 36 Cost., a condizione che dette mansioni siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate ad esse, dovendosi ritenere estensibile a tale ipotesi la previsione di cui all’art. 2103 cod. civ. (In applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha ritenuto che, rispetto ad un dipendente del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, avente la nona qualifica professionale di direttore coordinatore ed adibito allo svolgimento di mansioni superiori presso l’Ufficio provinciale di Grosseto di detto Ministero per circa dodici anni, dal 1993 al 2005, andasse riconosciuto il diritto al trattamento economico corrispondente a quello di primo dirigente di fascia B anche per il periodo successivo all’entrata in vigore del D.M. 2 agosto 2000, n. 148 con il quale erano state fissate tutte le posizioni dirigenziali degli uffici periferici, tra le quali non era compresa quella dell’Ufficio occupato dal dipendente).” In pratica, tale precedente rappresenta l’applicazione dell’indirizzo già segnato dalle Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 25837 dell’11/12/07 per la quale “in materia di pubblico impiego contrattualizzato – come si evince anche dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, nel testo, sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 e successivamente modificato dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 ora riprodotto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 32 l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori (anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento) ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.; che deve trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni. (Principio di diritto enunciato ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, per la particolare importanza della questione di diritto risolta)”.

Ebbene, nel caso concreto la Corte di merito, con accertamento immune da vizi logico-giuridici, ha potuto verificare che le superiori mansioni dirigenziali vennero svolte dalla A. con pienezza sulla scorta delle attestazioni del Procuratore Generale in merito all’effettivo svolgimento, nel periodo preso in considerazione, delle funzioni di dirigente dell’ufficio da parte della lavoratrice.

3. Col terzo motivo si segnala la violazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sostenendosi che il “periodo di effettiva prestazione”, contemplato dalla norma in esame ai fini del riconoscimento al trattamento economico superiore, non può ritenersi comprensivo dei riposi settimanali durante i quali la prestazione lavorativa non è resa, per cui il giudice d’appello non avrebbe dovuto considerarli ai fini del calcolo delle differenze retributive. Al riguardo si pone il seguente quesito di diritto: “Se, in applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 4, debbano computarsi nelle differenze stipendiali riconosciute al dipendente che abbia agito assumendo di aver svolto per un certo periodo mansioni dirigenziali superiori alla qualifica di appartenenza (C3), i periodi di assenza dal servizio per il godimento dei riposi settimanali.” Il motivo è infondato.

Invero, il riposo settimanale, che assolve precipuamente alla nota funzione di recupero delle energie psico-fisiche del lavoratore e che è tutelato sia dall’art. 36 Cost., comma 3 (“il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunciarvi”) che dall’art. 2109 cod. civ., comma 1(“il prestatore di lavoro ha diritto ad un giorno di riposo ogni settimana, di regola in coincidenza con la domenica), non può essere riduttivamente equiparato, seppur nell’ottica del diritto alle sole differenze retributive connesse all’espletamento di mansioni superiori, ad una sorta di periodo di assenza dal servizio non retribuirle. In pratica, il diritto al riposo settimanale non può essere frazionato, come vorrebbe il Ministero, nel senso che esso spetta sempre nella sua interezza, e come tale deve essere retribuito, a prescindere dalla circostanza, puramente occasionale, che la prestazione lavorativa svolta corrisponda di fatto all’espletamento di mansioni superiori. Anzi, atteso che il riposo settimanale cadenza naturalmente lo svolgimento dell’attività lavorativa, costituendone una pausa fisiologica insopprimibile e di regola non procrastinabile, in mancanza di esso sarebbe lo stesso espletamento delle mansioni superiori più impegnative a risentirne.

D’altra parte, questa Corte, nel pronunziarsi in ordine al compimento del periodo di assegnazione a mansioni superiori necessario per l’acquisizione della promozione di cui all’art. 2103 c.c., seguendo una analoga “ratio”, ha escluso dal computo dello stesso solo i periodi di ferie e di sospensione di attività lavorativa a causa di malattia, ma non di certo quelli dovuti a riposi settimanali e compensativi, ritenendo (Cass. sez. lav. n. 1983 del 3/2/2004) che questi ultimi costituiscono parte integrante di un lavoro che si sta svolgendo, come suoi necessari momenti di pausa, o che, costituendo una pausa fisiologicamente insopprimibile e di regola non procrastinabile, per effetto della loro mancanza lo stesso espletamento delle mansioni più impegnative risulterebbe pregiudicata (Cass. sez. lav. n. 15766 del 13/12/2001).

4. Col quarto motivo il Ministero ricorrente, nel contestare la quantificazione delle differenze stipendiali con particolare riferimento all’inserimento nel relativo calcolo della retribuzione di risultato, denunzia la violazione dell’art. 44, comma 3, del CCNL 1998/2001 e 57, comma 3, del CCNL 2002/2003, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e pone il seguente quesito di diritto:” Se debba computarsi nelle differenze stipendiali riconosciute al dipendente che abbia agito assumendo di avere svolto per un certo periodo mansioni dirigenziali superiori alla qualifica di appartenenza (C3) la retribuzione di risultato, pur in assenza di un provvedimento di incarico formale contenente una preventiva attribuzione di obiettivi e di una successiva verifica, con esito positivo, circa il raggiungimento dei risultati da parte del dipendente, in fedele applicazione di quanto stabilito dall’art. 44, comma 3 CCNL 1998/2001 e dall’art. 57, comma 3 CCNL 2002/2003.” Il ricorrente contesta la decisione dei giudici di merito, i quali hanno ritenuto di poter riconoscere l’indennità in esame nella sola porzione della misura fissa minima annua, adducendo le seguenti argomentazioni: la retribuzione di risultato, che a norma dell’art. 44, comma 3, ccnl 1998/2001 e dell’art. 57, comma 3, ccnl 2002/2003 può essere erogata solo a seguito di preventiva determinazione degli obiettivi annuali e della verifica e certificazione dei risultati di gestione conseguiti in coerenza coi predetti obiettivi, è sempre eventuale e variabile per definizione; inoltre, il riferimento delle richiamate clausole contrattuali all’importo annuo individuale non inferiore al 20% del valore annuo della retribuzione di posizione in atto riguarda unicamente il “quantum” della stessa retribuzione di risultato, ove dovuta, per cui è erroneo quanto sostenuto dai giudici d’appello circa l’esistenza di una quota fissa della retribuzione di risultato, ossia di una quota dovuta in ogni caso ed indipendentemente dal raggiungimento degli obiettivi assegnati. Il motivo è fondato.

Infatti, l’art. 44, comma 3 del CCNL 1998/2001 del personale dirigente dell’area 1^ stabilisce che “le amministrazioni e gli enti definiscono i criteri per la determinazione e per l’erogazione annuale della retribuzione di risultato ai dirigenti di seconda fascia anche attraverso apposite previsioni nei contratti individuali di ciascun dirigente. Nella definizione dei criteri di cui al comma 1, le amministrazioni e gli enti devono prevedere che la retribuzione di risultato possa essere erogata solo a seguito di preventiva, tempestiva determinazione degli obiettivi annuali, nel rispetto dei principi di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 14, comma 1, e della positiva verifica e certificazione dei risultati di gestione conseguiti in coerenza con detti obiettivi, secondo le risultanze della valutazione dei sistemi di cui all’art. 35.” L’art. 44, comma 4 dello stesso ccnl prevede, inoltre, che “l’importo annuo individuale della componente di risultato di cui al presente articolo non può in nessun caso essere inferiore al 20% del valore annuo della retribuzione di posizione in atto percepita nei limiti delle risorse disponibili, ivi comprese quelle derivanti dall’applicazione del principio dell’onnicomprensività:” Analoghe disposizioni a quelle appena trascritte sono, poi, contenute nei commi 3 e 4 dell’art. 57 del CCNL 2002/2005 dell’Area 1^ – Dirigenza.

Orbene, dalla lettura del suddetto terzo comma emerge chiaramente che la retribuzione di risultato è erogata solo a seguito di una preventiva e tempestiva determinazione degli obiettivi annuali e solo dopo la positiva verifica e certificazione dei risultati di gestione conseguiti coerentemente agli obiettivi prefissati, per cui è da escludere che essa possa spettare automaticamente per il solo fatto dello svolgimento delle funzioni dirigenziali; inoltre, dalla lettura del quarto comma dello stesso art. 44 si ricava che non esiste una quota fissa della retribuzione di risultato, che di per sè è solo eventuale, essendo subordinata alle suddette condizioni di cui al comma 3, ma che solo nell’ipotesi in cui la stessa sia dovuta, per effetto della positiva verifica della sussistenza di tali condizioni, essa non può essere mai inferiore al 20% del valore annuo della retribuzione di posizione in atto percepita, che rappresenta, pertanto, esclusivamente un limite minimo per la sua erogazione e non l’equivalente di una quota fissa, come erroneamente ritenuto dai giudici del merito.

D’altra parte è certo che nella fattispecie la lavoratrice non ha dimostrato di aver perseguito e conseguito, nello svolgimento di fatto delle superiori funzioni dirigenziali, degli obiettivi prefissati e certificati, rispetto ai quali poter vantare la retribuzione di risultato, tanto che la Corte di merito ha ritenuto che la mancata fissazione degli obiettivi da perseguire era addebitabile solo all’operato della pubblica amministrazione.

Pertanto, la sentenza va cassata limitatamente al quarto motivo accolto. Ne consegue che il procedimento va rinviato alla Corte d’Appello di Venezia, la quale provvederà, attenendosi ai suddetti principi, ad eseguire il calcolo della decurtazione della misura della presunta quota fissa della retribuzione di risultato, come riconosciuta nei precedenti giudizi di merito, dagli importi liquidati complessivamente alla A..

5. Con l’ultimo motivo il Ministero lamenta la violazione dell’art. 28 ccnl 1998-2001 e dell’art. 52 ccnl 2002-2005, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, contestando che nel calcolo delle differenze retributive erogate per lo svolgimento delle superiori mansioni potesse essere inclusa la tredicesima mensilità. Al riguardo la difesa di parte ricorrente osserva che la differenza dovuta per l’esercizio di fatto delle mansioni superiori non rientrerebbe in alcun modo nello stipendio tabellare del dipendente interessato, che rimane quello della qualifica di appartenenza, ma costituirebbe il ristoro, di tipo risarcitorio, per l’illegittima pretesa da parte del datore di lavoro pubblico di una prestazione non dovuta, per cui non vi sarebbe alcun collegamento tra la tredicesima mensilità e l’effettivo svolgimento in via di fatto della prestazione lavorativa superiore alla qualifica di appartenenza.

Viene, quindi, posto il seguente quesito. “Dica l’Ecc.ma Corte adita se debba computarsi nelle differenze stipendiali riconosciute ai dipendente che abbia agito assumendo di avere svolto per un certo periodo mansioni dirigenziali superiori alla qualifica di appartenenza (C3) la tredicesima mensilità prevista appunto per la qualifica superiore e non per quella di appartenenza.” Il motivo è infondato.

Invero, con argomentazione logico-giuridica assolutamente corretta, la Corte di merito ha rilevato che la tredicesima mensilità costituisce una componente dello stipendio tabellare del dirigente, quindi un corrispettivo del lavoro complessivamente svolto nel corso dell’anno, ragione per la quale la stessa non può non essere valutata nella determinazione della differenza fra il trattamento economico percepito rispetto a quello previsto per la posizione superiore ricoperta per un determinato periodo dalla lavoratrice.

In effetti, l’art. 38 del ccnl 1998-01 del personale dirigente dell’area 1^ prevede espressamente che il trattamento economico fisso annuo è comprensivo de rateo della 13A mensilità, per cui, entrando tale specifico emolumento nella struttura dello stipendio tabellare, lo stesso non può essere escluso dal calcolo delle differenze retributive che competono in relazione allo svolgimento delle superiori mansioni dirigenziali.

D’altronde, ciò risponde anche al principio costituzionale di proporzionalità espresso dall’art. 36 che comporta l’obbligo di integrare il trattamento economico nella misura corrispondente alla qualità del lavoro effettivamente prestato, evitando di produrre all’amministrazione un ingiustificato arricchimento ai danni del lavoratore (in tal senso v. anche Cons. di Stato sent. n. 72 del 21/1/97). In definitiva vanno rigettati i motivi nn. 1, 2, 3 e 5, mentre va accolto solo il motivo n. 4 del ricorso; la sentenza va, perciò, cassata in relazione al motivo accolto ed il procedimento va rinviato alla Corte d’Appello di Venezia che si pronunzierà, attenendosi ai suddetti principi, anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta i primi tre motivi ed il quinto, accoglie il quarto e cassa la sentenza in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia che si pronunzierà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2011

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