Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20973 del 08/09/2017


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Cassazione civile, sez. II, 08/09/2017, (ud. 07/07/2017, dep.08/09/2017),  n. 20973

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17092/2016 proposto da:

M.B., M.G., L.S.L., Z.L.,

elettivamente domiciliati in ROMA, presso la Cancelleria della Corte

di Cassazione e rappresentati e difesi dall’avvocato ANTONIO AUTILIO

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO DI POTENZA, depositato il

19/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

07/07/2017 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con ricorso depositato dinanzi alla Corte d’appello di Potenza in data 8/2/2016 gli odierni ricorrenti chiedevano la condanna del Ministero della Giustizia all’equa riparazione per l’irragionevole durata del procedimento penale, in relazione al periodo dal 26 gennaio 2004, allorquando era stato loro notificato l’avviso di conclusione delle indagini in relazione ai reati di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 73,74 ed 80, sino alla data del 15/09/2015 allorquando era divenuta irrevocabile la sentenza del Tribunale di Potenza che aveva assolto i ricorrenti perchè i fatti non sussistevano.

Con decreto del 19/2/2016 il Consigliere delegato della Corte d’Appello, dichiarava inammissibile la domanda, ritenendo che non era stata avanzata istanza di accelerazione nel processo penale presupposto nel termine previsto dalla legge.

Avverso tale provvedimento proponevano opposizione i ricorrenti e, nella contumacia del Ministero, la Corte di Appello in composizione collegiale, con decreto del 19/05/2016, confermava il decreto opposto, ritenendo che la previsione introdotta dalla riforma del 2012 fosse applicabile a tutti i giudizi penali già pendenti.

Per la cassazione di questo decreto il ricorrente ha proposto ricorso affidato a due motivi.

L’intimato Ministero non ha svolto difese in questa fase.

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quinquies, lett. e) e l’erroneità della declaratoria di inammissibilità, nonchè l’insufficiente e contraddittoria motivazione.

Si evidenzia in primo luogo che il ricorso era stato proposto allorquando era entrata in vigore la riforma dei cui alla L. n. 208 del 2015, che non prevede più il rimedio dell’istanza di accelerazione.

Inoltre il superamento della durata ragionevole del processo che aveva visto i ricorrenti imputati, era avvenuto in epoca anteriore all’entrata in vigore della L. n. 134 del 2012, non potendo quindi trovare applicazione la norma invece ritenuta impeditiva del diritto all’indennizzo da parte della Corte distrettuale.

Il secondo motivo denunzia la violazione sempre della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 quinquies, assumendosi l’inapplicabilità del rimedio preventivo di cui alla norma ora citata e l’omessa motivazione.

Si sostiene che erroneamente la domanda è stata dichiarata inammissibile sulla base della previsione di cui alla novella del 2015, laddove la disciplina di cui all’art. 2, comma 2 quinquies, quale risultante dalla L. n. 134 del 2012, prevede un’ipotesi di rigetto della domanda.

Si ribadisce comunque l’impossibilità di invocare la norma de qua ai casi in cui i processi penali fossero già pendenti alla data di entrata in vigore della novella ed avessero già superato i termini di durata ragionevole.

I motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente per la loro evidente connessione, sono fondati e pertanto devono essere accolti.

Ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, lett. e), come introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, “Non è riconosciuto alcun indennizzo: (…) e) quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini cui all’art. 2-bis”. La disposizione de qua, in forza del medesimo art. 55, comma 2, si applica “ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, e postula che l’istanza di accelerazione venga presentata nel procedimento penale allorquando questo abbia appena superato la durata ragionevole stabilita dall’art. 2.

Successivamente, con la L. n. 208 del 2015, in vigore dal 1 gennaio 2016, il legislatore ha modificato la disciplina dell’equa riparazione, introducendo l’istituto dei rimedi preventivi quale condizione per la possibilità di proporre la domanda di equa riparazione (L. n. 89 del 2001, art. 1-bis, comma 2, introdotto dalla citata L. n. 208 del 2015), ha abrogato l’art. 2, comma 2-quinquies, lett. e), prevedendo che “l’imputato e le altre parti del processo penale hanno diritto di depositare, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, un’istanza di accelerazione almeno sei mesi prima che siano trascorsi i termini di cui all’art. 2, comma 2-bis” (della L. n. 89 del 2001, art. 1-ter, comma 2, introdotto dalla L. n. 208 del 2015), ma, in risposta a quanto evidenziato nel secondo motivo di ricorso, deve escludersi che la novella del 2015 sia applicabile alla vicenda in esame.

Ed, invero alla luce di quanto previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 6, comma 2 bis, sempre come modificato dalla L. n. 208 del 2015, che prevede che “Nei processi la cui durata al 31 ottobre 2016 ecceda i termini ragionevoli di cui all’art. 2, comma 2-bis, e in quelli assunti in decisione alla stessa data non si applica dell’art. 2, comma 1”, non è possibile invocare le conseguenze derivanti dal mancato esperimento dei rimedi preventivi.

Tornando quindi alla previsione di cui all’art. 2, comma 2 quinquies, lett. e), nella formulazione scaturente dalla novella del 2012, ritiene la Corte che la stessa non sia applicabile ratione temporis alla fattispecie, in quanto nessuna disposizione transitoria prevede espressamente la sua applicabilità nei procedimenti pendenti che, alla data di entrata in vigore della Legge di Conversione n. 134 del 2012 (11 settembre 2012), abbiano superato la ragionevole durata.

La soluzione interpretativa offerta dalla Corte d’appello, secondo cui in assenza di istanza di accelerazione nel procedimento penale la domanda di equa riparazione sarebbe sostanzialmente improponibile appare errata e non coerente con il dato letterale della disposizione citata.

Nè appare possibile assimilare l’istanza de qua alla diversa ipotesi della istanza di prelievo nel procedimento amministrativo, in quanto è sufficiente rilevare che, la formulazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 54, comma 2, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 133 del 2008, modificata nel 2010 ad opera del D.Lgs. n. 104 del 2010, art. 3, comma 23, all. 4 (poi oggetto di correzione ad opera del D.Lgs. n. 195 del 2011), prevede esplicitamente che “La domanda di equa riparazione non è proponibile se nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo in cui si assume essersi verificata la violazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 1, non è stata presentata l’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, codice del processo amministrativo, nè con riguardo al periodo anteriore alla sua presentazione”, sicchè appare evidentemente preclusa la possibilità di una equiparazione delle due discipline, l’una, propria del giudizio amministrativo, esistente sin dal 1907; l’altra, introdotta nel 2012, e prevista per il solo processo penale, finalizzata unicamente ad introdurre una condizione per poter ottenere l’equa riparazione per il caso in cui il procedimento penale si sia irragionevolmente protratto.

Osta alla possibilità di applicare l’art. 2-quinquies, lett. e) ai procedimenti pendenti che, alla data di entrata in vigore della L. n. 134 del 2012, avessero già superato la ragionevole durata, l’ulteriore considerazione secondo cui il termine per la presentazione della istanza sarebbe decorso, per tali giudizi, non dal superamento della durata ragionevole, ma dalla entrata in vigore della legge di conversione, con evidente mutamento dei presupposti applicativi della disposizione stessa.

Peraltro se la norma introdotta nel 2012, come sostanzialmente confermato anche dalla novella del 2015, laddove l’istanza di accelerazione è stata trasformata in un rimedio preventivo, assegna alla istanza de qua una funzione acceleratoria, tale finalità ha una sua ragione d’essere solo nel caso in cui il termine non sia ancora maturato ovvero sia decorso da appena trenta giorni poichè in tal modo la presentazione dell’istanza potrebbe essere lo stimolo per assicurare una sollecita definizione del giudizio, impedendo quindi il verificarsi del pregiudizio da durata irragionevole del processo.

La norma quindi conserva una sua logica se interpretata in un’ottica di prevenzione del danno, intesa cioè quale strumento in grado di impedire una dilatazione del processo, il cui omesso utilizzo implica la perdita del diritto all’indennizzo.

Effetti totalmente distorsivi avrebbe la sua estensione al diverso caso in cui, già alla data di entrata in vigore della legge del 2012, sia decorso il termine di cui all’art. 2.

In tal caso il pregiudizio derivante dalla durata eccessiva del giudizio si è già radicato nel patrimonio o comunque si è manifestato nei suoi effetti nei confronti della parte del processo, e quindi la mancata presentazione della istanza di accelerazione non potrebbe incidere anche sul danno già maturato. Alla parte verrebbe quindi imputata un’inerzia per una condotta che prima della riforma non era esigibile, mancando nell’ordinamento processuale penale una specifica disciplina dell’istanza di accelerazione così come configurata dal legislatore.

D’altronde le varie ipotesi di cui all’art. 2, comma 2 quinquies, vanno a sanzionare condotte colpevoli della parte, o per essere ab origine connotate da un abuso del processo, ovvero per avere successivamente consentito di abusare dello strumento processuale.

In tale prospettiva l’inerzia deve connotarsi per una colpevolezza del ricorrente, e conforta tale esegesi la previsione di chiusura di cui alla lett. f) dell’art. 2, comma 2 quinquies, che sanziona le condotte abusive che abbiano determinato una dilatazione dei tempi del processo.

Risulta, dunque, evidente l’errore nel quale è incorsa la Corte d’appello di Potenza nell’escludere il diritto all’equa riparazione per la irragionevole durata del procedimento penale presupposto – nel quale la durata ragionevole era stata superata da tempo – a causa della mancata presentazione della istanza di accelerazione nel termine di trenta giorni dalla entrata in vigore della L. n. 134 del 2012.

Resta, ovviamente, ferma la possibilità del giudice di merito di valutare il comportamento dell’imputato nel giudizio presupposto al fine di desumerne elementi significativi ai fini della determinazione dell’indennizzo.

Il ricorso va quindi accolto, dandosi continuità a quanto in precedenza già affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 26627/2016; Cass. n. 23448/2016) con conseguente cassazione del decreto impugnato e con rinvio alla Corte d’appello di Potenza, in diversa composizione la quale procederà a nuovo esame alla luce del seguente principio di diritto: “in tema di equa riparazione per la irragionevole durata di un procedimento penale, la disposizione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-quinquies, lett. e), – a tenore della quale non è riconosciuto alcun indennizzo “quando l’imputato non ha depositato istanza di accelerazione del processo penale nei trenta giorni successivi al superamento dei termini cui all’art. 2-bis” non è applicabile in relazione alle domande di equa riparazione relative a procedimenti penali che, alla data di entrata in vigore della stessa, avessero già superato la durata ragionevole di cui all’art. 2-bis della medesima legge”.

Al giudice di rinvio è rimessa altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di cassazione.

PQM

 

La Corte accoglie il ricorso principale e per l’effetto, cassa il decreto impugnato e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Potenza, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2017

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