Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20971 del 22/07/2021

Cassazione civile sez. trib., 22/07/2021, (ud. 09/06/2021, dep. 22/07/2021), n.20971

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 5169/2015 R.G. proposto da:

Fraver s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avv. Alessandro Riccioni, elettivamente

domiciliata giusta procura notarile presso il suo studio in Roma,

Viale Bruno Buozzi n. 49;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui Uffici domicilia in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Puglia, sezione distaccata di Lecce, n. 1480/23/2014 depositata il

27 giugno 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 9 giugno 2021

dal Consigliere Luigi D’Orazio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. Mauro Vitiello, che ha concluso chiedendo il rigetto

del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione distaccata di Lecce, rigettava l’appello proposto dalla società Fraver s.r.l. e dai soci T.M., C.R.G., C.A. e Ca.Ro., avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Brindisi (n. 254/4/2010), che aveva respinto i ricorsi presentati dalla società e dai soci, per gli anni 2004 e 2005, contro gli avvisi di accertamento emessi nei confronti della società e nei confronti dei soci, trattandosi di società a ristretta partecipazione, con i quali l’Ufficio aveva ripreso a tassazione maggiori redditi, a seguito del disconoscimento di costi non deducibili perché relativi ad operazioni in parte ritenute inesistenti. In particolare, il giudice d’appello evidenziava che dalla documentazione acquisita presso la ditta M., che aveva lavorato per conto della Fraver, quale subappaltatrice, e dalle dichiarazioni rese dal M., emergeva che erano state emesse nei confronti della contribuente fatture di importo superiore al reale. La successiva ritrattazione delle dichiarazioni da parte del M., in quanto generiche e prive di elementi di supporto, rilasciate dopo molti anni dall’accertamento, dovevano considerarsi finalizzate esclusivamente ad “accontentare” la committente, “al fine di smontare delle dichiarazioni fatte alla presenza dei militari al momento della verifica, a fronte di domande e risposte specifiche verbalizzate e firmate, che risultano chiare ed inequivocabili”. Inoltre, i mezzi di pagamento non potevano costituire prova in presenza di evasione dimostrata. Il maggior reddito attribuito alla società comportava automaticamente la distribuzione dello stesso ai soci della società a ristretta base azionaria.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione esclusivamente la società.

3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce la “violazione dell’art. 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), avendo la CTR qualificato ed utilizzato come prova un mero elemento indiziario, quale le dichiarazioni di un terzo”. Invero, per la ricorrente le dichiarazioni rese alla Guardia di Finanza da M. non potevano essere utilizzate come vera e propria fonte di prova, trattandosi di meri indizi che necessitavano di un ulteriore supporto probatorio. Il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto di elementi a favore della società, costituiti dalla regolarità della documentazione prodotta dalla Fraver, dall’esistenza della prova del pagamento di quanto indicato nelle fatture, dalle controdichiarazioni dello stesso M.. Non si sarebbe tenuto conto che la ditta M. non era una cartiera, ma un’impresa che svolgeva lavori in subappalto per conto della Fraver, che vi erano opere realizzate in loco dal M.; inoltre, il M. non aveva una regolare contabilità, mentre la ritrattazione dello stesso è perfettamente credibile, essendovi una perfetta corrispondenza dei dati della ditta Fraver con la documentazione contabile tenuta dalla Fraver stessa e con i pagamenti effettuati.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2. Invero, si evidenzia, anzitutto, che il motivo di censura della sentenza, pur qualificato come violazione di legge, ai sensi dell’art. 2729 c.c., in realtà costituisce lo strumento per chiedere a questa corte, in sede di legittimità, una nuova valutazione dei fatti, non consentita.

1.3. Inoltre, per questa Corte, con riferimento alla detraibilità dell’Iva ed alla deducibilità dei costi nel caso di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, la fattura, di regola, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto e alla deducibilità dei costi in essa annotati, per cui spetta all’Ufficio di dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto (Cass., sez., 5, 14 maggio 2020, n. 8919).

Tale prova può essere fornita anche mediante elementi indiziari e presuntivi, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass., n. 9108 del 6 giugno 2012; Cass., sez. 5, 14 maggio 2020, n. 8919).

Pertanto, in caso di ripresa per operazioni oggettivamente inesistenti (nella specie parzialmente inesistenti), quali quelle in contestazione nel caso di specie, ove la fattura costituisca in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’Amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27554; Cass., nn. 21953/2007; 9363/2015; Cass., 24 settembre 2014, n. 20059; Corte giustizia, 6 luglio 2006, C-439/04, 31 novembre 2013, C-642/11), del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (Corte Giustizia 4 giugno 2020, n. 430, per cui i principi che disciplinano il regime comune Iva ostano a che, in presenza di semplici sospetti non suffragati dall’amministrazione tributaria nazionale quanto alla effettiva realizzazione delle operazioni economiche che hanno portato alla emissione di una fattura fiscale, al soggetto passivo destinatario di questa fattura venga negato il diritto alla detrazione Iva se non sia in grado di fornire, oltre a detta fattura, ulteriori prove dell’effettiva esistenza delle operazioni economiche realizzate); successivamente spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.

1.4. Tale prova contraria, però, non può consistere nella mera esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poiché questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzabili proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., sez. 5, 19 ottobre 2018, n. 26453; Cass., sez. 6-5, 15 maggio 2018, n. 11873; Cass., sez. 5, 5 luglio 2018, n. 17619; Cass., nn. 28683/15; 5406/16).

Inoltre, una volta accertata l’assenza della operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo (Cass., 14 settembre 2016, n. 18118).

Va aggiunto che, in tema di IVA, il diritto alla detrazione dell’imposta non sorge per il solo fatto dell’avvenuto pagamento dell’imposta formalmente indicata in fattura, richiedendosi, altresì, l’inerenza dell’operazione all’impresa, requisito questo mancante in relazione all’IVA corrisposta per operazioni (anche parzialmente) oggettivamente inesistenti, stante la sua inidoneità a configurare un pagamento a titolo di rivalsa in quanto costituente un costo non inerente all’attività dell’impresa e potenziale espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse, tali da spezzare il detto nesso di inerenza (Cass., sez. 5, 14 maggio 2020, n. 8919; Cass., 19 gennaio 2010, n. 735; Cass., 8 aprile 2015, n. 6973).

1.5. Nella specie, il giudice di appello ha indicato tutti gli elementi idonei a dimostrare la parziale inesistenza delle operazioni sottese alle fatture emesse dalla ditta M.. In particolare, si è valorizzato il contenuto delle dichiarazioni, precise ed analitiche, rese dal M., ossia proprio dal titolare dell’impresa che ha effettuato lavori per conto della contribuente e, quindi, emesso fatture nei confronti della Fraver s.r.l.. Il M. non si è limitato ad affermare che il socio della Fraver, Ca.Ro., gli aveva imposto di indicare nelle fatture somme superiori ai lavori effettivamente espletati, ma ha anche indicato con precisione l’ammontare delle somme indicate in eccesso rispetto ai lavori in concreto effettuati. Tali dichiarazioni, peraltro, sono state rese al momento dell’accesso degli agenti della Guardia di Finanza presso la sede dell’impresa, con specifiche e puntuali risposte del M. alle domande dei verificatori. In particolare, il giudice d’appello ha evidenziato che “il dettaglio delle dichiarazioni e ricostruzioni degli importi dovuti e fatturati dalla ditta M. non lascia dubbi, considerato che in esse viene spiegato nel dettaglio quale era l’importo effettivo che doveva essere fatturato, di quanto gli importi sono stati maggiorati ed anche il motivo per cui si è ricorso a tale maggiorazione e cioè il vantaggio che veniva riconosciuto alle M. sia in termini economici con il pagamento di somme aggiuntive e sia l’opportunità lavorativa conseguente”. Si chiarisce anche che l’esistenza in loco di opere realizzate dal M. non è in alcun modo contestata, neanche dagli accertatori, ma è l’importo della fattura che non trova corrispondenza con le opere eseguite. La Commissione regionale ha anche esaminato le dichiarazioni rese dal M. molti anni dopo l’accertamento (nel 2014), giudicandole però “ritrattazioni di convenienza, generiche, fatte senza conferme, avvenute peraltro dopo molti anni dall’accertamento, finalizzate esclusivamente ad accontentare la committente, al fine di smontare delle dichiarazioni fatte alla presenza dei militari al momento della verifica; a fronte di domande e risposte specifiche verbalizzate e firmate, che risultano chiare ed inequivocabili”.

1.6. Non v’e’ dubbio, allora, che le dichiarazioni rese dal M. costituiscono indizio grave e serio della sussistenza dell’evasione parziale, ottenuta attraverso l’emissione di fatture per importi superiori ai lavori effettivamente realizzati.

Invero, per questa Corte, nel processo tributario il divieto di prova testimoniale posto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, non osta alla produzione sia da parte dell’Amministrazione finanziaria che, in ragione dei principi del giusto processo ex art. 111 Cost., del contribuente, di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale che assumono valenza indiziaria sul piano probatorio (Cass., sez. 6-5, 20 maggio 2020, n. 9316; Cass. Sez. 5, 27 maggio 2020, n. 9903; Cass., sez. 6-5, 19 novembre 2018, n. 29757; cass., sez. 5, 30 settembre 2011, n. 20028; Cass., sez.5, 20 aprile 2007, n. 9402).

In particolare, si è affermato che, nel processo tributario, le dichiarazioni del terzo, acquisite dalla polizia tributaria nel corso di un’ispezione e trasfuse nel processo verbale di constatazione, a sua volta recepito dall’avviso di accertamento, hanno valore meramente indiziario, concorrendo a formare il convincimento del giudice, qualora confortate da altri elementi di prova. Tuttavia, tali dichiarazioni del terzo possono, nel concorso di particolari circostanze ed in ispecie quando abbiano valore confessorio, integrare non un mero indizio, ma una prova presuntiva, ai sensi dell’art. 2729 c.c., idonea da sola ad essere posta a fondamento e motivazione dell’avviso di accertamento in rettifica, da parte dell’amministrazione finanziaria (Cass., sez. 5, 5 maggio 2011, n. 9876).

Per la Corte costituzionale (Corte Cost., 21 gennaio 2000, n. 18) la limitazione probatoria stabilita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale. Va, infatti, considerato che le dichiarazioni di cui trattasi, rese al di fuori e prima del processo, sono essenzialmente diverse della prova testimoniale, che è necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio. La possibilità che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, in un processo nel quale quest’ultimo non può avvalersi, per contestarne l’efficacia probatoria, della prova testimoniale, non è d’altro canto in contrasto né con il principio di eguaglianza né con il diritto di difesa del contribuente medesimo. Il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase dell’accertamento e’, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il

fondamento della decisione.

1.7. Nella specie, le dichiarazioni del M., in quanto provenienti proprio dal soggetto che ha emesso le fatture per operazioni parzialmente inesistenti e che ha indicato con precisione anche di importo maggiorato delle stesse, in relazione ai lavori effettivamente realizzati, acquisiscono una particolare rilevanza indiziaria che comporta l’inversione dell’onere probatorio a carico della contribuente.

1.8. La società contribuente, però, non ha fornito idonea prova contraria. Tale non potendo essere considerata la semplice ritrattazione delle dichiarazioni avvenuta ad istanza di molti anni dall’avviso di accertamento, in modo generico e confuso, se messa a confronto con le dichiarazioni analitiche e precise rese dal M., all’atto dell’accesso alla Guardia di Finanza, con indicazione precisa anche dei lavori effettivamente realizzati e degli importi maggiorati indicati nelle fatture.

Allo stesso modo, non costituisce idonea prova contraria la mera regolarità contabile della documentazione della società contribuente, proprio per la peculiarità della fattispecie relativa alla emissione di fatture per operazioni oggettivamente in parte inesistenti.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, (art. 360 c.p.c., n. 3), avendo la CTR qualificato ed utilizzato come prova certa e diretta un elemento indiziario, quale le dichiarazioni di un terzo”. In particolare, il giudice d’appello ha ritenuto che, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, è possibile procedere alla rettifica dei redditi, indipendentemente dalla previa ispezione della contabilità del contribuente, qualora l’esistenza di operazioni imponibili per un ammontare superiore a quello indicato nella dichiarazione risulti in modo certo e diretto e non in via presuntiva da verbali, questionari e fatture, e gli elementi allegati alle dichiarazioni di altri contribuenti o da verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti. In realtà, però, il giudice d’appello avrebbe qualificato come prova diretta e non presuntiva le dichiarazioni di terzo.

2.1. Il motivo è infondato.

2.2. Invero, per questa Corte, in tema di I.V.A., in ipotesi di fatture che l’Amministrazione ritenga relative ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, l’accertamento, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. c), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, può fondarsi su verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti, senza che per l’utilizzabilità dei medesimi sia richiesta l’instaurazione di un previo contraddittorio nei confronti del soggetto cui è riferita la rettifica, non potendosi tale onere desumere in via interpretativa, sul piano sistematico, dall’ordinamento tributario in sede di mera raccolta degli elementi di prova (Cass., sez. 5, 13 luglio 2017, n. 17260).

Si e’, anche, ritenuto che l’uso di elementi acquisiti nell’ambito di procedure riguardanti altri soggetti non viola disposizioni che regolano l’accertamento o il principio del contraddittorio, né il riparto dell’onere probatorio, in quanto il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e il citato D.P.R., art. 54, comma 2, del dispongono che gli Uffici possono procedere alla rettifica sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, tratte da atti e documenti in loro possesso, anche quando si tratti di verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti. ‘‘accertamento induttivo può, dunque, essere fondato anche su documentazione reperita presso terzi e sulle annotazioni elaborate da terzi, purché tale documentazione sia resa nota al contribuente ed esibita in giudizio (Cass., sez. 5, 8 novembre 2010, n. 22724).

Nella specie, l’accertamento induttivo del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. c), e del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 54, comma 3, si è fondato proprio sulle dichiarazioni rese dal M., quale soggetto che ha effettuato lavori per conto della Fraver e che ha emesso fatture per importi maggiorati rispetto ai lavori effettivamente eseguiti, di concerto con Ca.Ro., socio della Fraver.

A fronte dell’indizio grave e preciso costituito dalle dichiarazioni del M., rese all’atto dell’accesso degli agenti della Guardia di Finanza, analitiche e dettagliate, anche in relazione ai concreti ed effettivi lavori eseguiti, di valore inferiore a quello indicato nelle fatture maggiorate negli importi, la società non ha fornito adeguata prova contraria sulla esistenza di tutte le prestazioni effettuate riferibili alle fatture.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole “dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5), quale le dichiarazioni 17 marzo 2014 del sig. M.”. Infatti, per la ricorrente il giudice d’appello non ha preso in considerazione le controdichiarazioni rese il 17 marzo 2014 dal M..

3.1. Il motivo è infondato.

3.2. Invero, la sentenza del giudice d’appello è stata depositata in data 27 giugno 2014, sicché il vizio di motivazione della sentenza d’appello deve essere articolato esclusivamente come omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti, in ragione della modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, da parte del D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze depositate a decorrere dall’11 settembre 2012.

Nella specie, il giudice d’appello ha espressamente preso in considerazione le dichiarazioni difformi rese dal M. nel 2014, e spiegato in modo chiaro e preciso le ragioni per cui ha ritenuto maggiormente attendibili le precedenti dichiarazioni. Infatti, il M., all’atto dell’accesso da parte degli agenti della Guardia di Finanza, non soltanto ha ammesso di avere emesso fatture per importi superiori rispetto ai lavori effettivamente eseguiti per conto della Fraver, ma ha indicato con precisione i lavori effettivamente realizzati e gli importi maggiori indicati nelle fatture, su espressa richiesta di Ca.Ro., socio della Fraver. Il M., nelle prime dichiarazioni ha anche precisato il “vantaggio” che gli veniva riconosciuto, sia in termini economici, attraverso il pagamento di somme aggiuntive, sia con l’opportunità lavorativa conseguente.

Le dichiarazioni successive del 2014 da parte del M. sono state, quindi, esaminate in modo espresso dal giudice d’appello, non configurandosi in alcun modo il vizio di omesso esame di un fatto decisivo.

4. Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione dell’art. 2729 c.c., nonché falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5 (art. 360 c.p.c., n. 3), in quanto un elemento meramente presuntivo è stato qualificato dalla CTR come “prova legale” da cui discenderebbe “in maniera automatica” l’imputazione del reddito a carico dei soci della società”. Il giudice d’appello avrebbe errato nell’affermare che, una volta accertato il maggior reddito nei confronti della società, ne discende in maniera automatica la distribuzione del reddito evaso ai soci nelle società a ristretta base. La Commissione regionale, dunque, avrebbe confuso la situazione propria delle società di capitali con quella delle società di persone. Tale circostanza, pur essendo stata evidenziata nell’appello, non è stata presa in considerazione dal giudice del gravame.

5. Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione dell’art. 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) per erroneo utilizzo della presunzione di distribuzione degli utili ai soci nelle società a ristretta base sociale, coniata dalla giurisprudenza solamente con riferimento ai casi in cui il maggior reddito accertato a carico della società derivi dall’accertamento di utili extracontabili e non invece a quelli in cui il maggior reddito derivi da disconoscimento della deducibilità di costi”. Il giudice d’appello avrebbe errato nell’aver ritenuto applicabile la presunzione di attribuzione dei maggiori redditi della società ai soci, che si riferisce ai maggiori incassi in nero, alla diversa ipotesi in cui il maggior reddito accertato derivi dal disconoscimento della deducibilità di costi.

6. Con il sesto motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “violazione dell’art. 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione al principio “praesumptum de praesumpto non admittitur” in riferimento alla individuazione del reddito dei soci”. La presunzione di secondo grado, infatti, non poggia su un fatto certo conosciuto bensì su un’altra presunzione semplice.

6.1. I motivi quarto, quinto e sesto, sono inammissibili.

6.2. Invero, il ricorso per cassazione è stato presentato esclusivamente dalla società Fraver S.r.l., in persona di T.M., ma non dai quattro soci della stessa. Nella procura speciale in atti T.M. ha conferito l’incarico difensore, nella sua qualità di amministratore unico e legale rappresentante della Fraver s.r.l., quindi non quale socia.

Pertanto, con riferimento a tali motivi di impugnazione, che attengono esclusivamente alla posizione dei soci di società a ristretta base partecipativa, la società è carente di interesse ad impugnare.

E’, quindi, passata in giudicato quanto ai soci la sentenza della Commissione regionale che ha rigettato i quattro appelli presentati dai soci, non sussistendo una ipotesi di litisconsorzio necessario (cass. sez. 5, 31 gennaio 2011, n. 2214).

7. Con il settimo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “nullità della sentenza per omesso esame di uno dei motivi in appello (art. 100 c.p.c., 12:03, 160, n. 4) relativo al particolare regime comunitario Iva”. Invero, nell’atto di appello si è evidenziata l’illegittimità del recupero Iva, in quanto si verificherebbe un’ipotesi di doppia imposizione, dovendosi recuperare l’Iva anche alla ditta M. Costruzioni. In caso di rettifica Iva avvenuta sia nei confronti dell’emittente (ditta M.), sia nei confronti dell’utilizzatore (Fraver) si realizzerebbe in capo all’Erario un indebito arricchimento. Da una parte l’emittente le fatture è tenuto a versare l’Iva, dall’altra utilizzatore non può detrarre la stessa Iva, sicché il principio cardine della neutralità dell’Iva ne uscirebbe stravolto.

7.1. Il motivo è inammissibile.

7.2. Invero, l’Agenzia delle entrate ha eccepito la novità del motivo proposto solo in sede di appello, relativo alla pretesa doppia imposizione in ragione del recupero dell’Iva, sia nei confronti dell’impresa che ha emesso le fatture ( M.) sia nei confronti della società che ha ricevuto le fatture con importi maggiorati e detratto l’Iva.

La stessa ricorrente ammette di aver presentato tale motivo soltanto in sede di appello, come risulta pagina 17 del ricorso per cassazione, senza indicare se tale motivo fosse stato proposto originariamente con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado.

8. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della società, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente Agenzia delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 luglio 2021

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