Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20970 del 17/10/2016


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Cassazione civile sez. lav., 17/10/2016, (ud. 09/06/2016, dep. 17/10/2016), n.20970

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3268-2014 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA,

che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.S.P., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DELLA GIULIANA 85, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO TALLADIRA,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO ROSARIO BONGARZONE,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6554/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/09/2013 R.G.N. 5323/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2016 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito l’Avvocato SOZZI CARLO per delega verbale avvocato MARESCA

ARTURO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 6554/2013, depositata il 2 agosto 2013, la Corte di appello di Roma respingeva il gravame di Poste Italiane S.p.A. nei confronti della sentenza del Tribunale di Frosinone che, in accoglimento del ricorso proposto da D.S.P., aveva dichiarato Illegittimo il licenziamento allo stesso intimato in data (OMISSIS) a seguito di sentenza di condanna per peculato emessa dal Tribunale di Cassino in relazione a fatti del (OMISSIS).

La Corte osservava, a sostegno della propria decisione, che il D.S. era stato assolto in secondo grado, con sentenza divenuta irrevocabile, per insussistenza del fatto; che il giudicato così formatosi aveva effetto preclusivo nel giudizio civile, posto che l’assoluzione non era stata pronunciata ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2; che le conclusioni cui era pervenuto il giudice penale erano comunque da condividere, in quanto fondate su di un puntuale e corretto esame delle risultanze probatorie, ivi comprese le dichiarazioni rese dalle persone offese successivamente alla pronuncia di primo grado, e, d’altra parte, la società non aveva dedotto alcun concreto elemento probatorio nè articolato alcun mezzo di prova che consentisse di giungere in sede civile ad una diversa ricostruzione della vicenda.

Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la S.p.A. Poste Italiane con tre motivi; il lavoratore ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 652 e 654 c.p.p. e degli artt. 2119 e 2697 c.c., censura la sentenza impugnata per avere la Corte di appello, sul presupposto di un inesistente carattere vincolante della sentenza penale di assoluzione, erroneamente escluso l’avvenuta lesione dell’elemento fiduciario che deve sussistere tra le parti del rapporto, senza tener conto dell’assenza di pregiudizialità tra il processo del lavoro ed il processo penale e senza valutare che, ove si discuta di un licenziamento di natura disciplinare, come nella specie, il giudice del lavoro è chiamato ad un autonomo accertamento dei fatti materiali e delle relative responsabilità.

Con il secondo motivo di ricorso, deducendo omesso esame di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., n. 5 nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 51 e 53 CCNL dell’11 luglio 2003, la S.p.A. Poste Italiane lamenta che la sentenza di secondo grado abbia del tutto trascurato di vagliare le norme collettive citate (rispettivamente in tema di ipotesi di licenziamento senza preavviso e di doveri del dipendente), anche laddove esse richiamano gli artt. 2104 e 2105 c.c. e (implicitamente) il Codice Etico adottato dalla società, nonostante che dal combinato disposto di tali norme legali e contrattuali dovesse evincersi l’estrema gravità della condotta contestata al dipendente D.S. e la sua indubbia idoneità ad incidere irrimediabilmente sulla permanenza del rapporto fiduciario.

Con il terzo motivo, deducendo violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere omesso di pronunciarsi sulla domanda subordinata di accertamento della condotta contestata al dipendente quale giustificato motivo soggettivo, con conseguente conversione del licenziamento per giusta causa.

Il ricorso è inammissibile.

E’ da premettere che la sentenza impugnata, dopo di avere richiamato la pronuncia (irrevocabile) di assoluzione emessa in secondo grado nei confronti del lavoratore, affermando di doverne condividere le conclusioni, e ricordato che il giudicato penale di assoluzione ha effetto preclusivo nel giudizio civile, ex artt. 652 e 654 c.p.p., ove contenga un accertamento effettivo e specifico (quale reputa essere intervenuto con la suddetta sentenza) circa l’insussistenza del fatto o della partecipazione dell’imputato; ha, con ciò esprimendo un’autonoma ragione decisoria, rilevato come l’appellante non avesse, d’altro canto, “dedotto alcun concreto elemento probatorio nè articolato alcun mezzo di prova che consenta di pervenire in questa sede ad una diversa ricostruzione della vicenda, nè ha dedotto alcun elemento atto a provare che, nonostante la insussistenza del fatto-reato, residuino nella condotta dell’appellato profili ulteriori, comunque rilevanti sotto il profilo disciplinare e tali da legittimare il provvedimento espulsivo” (cfr. sentenza, p. 4, par. 3.2).

Tale ratio decidendi, che – come accennato – risulta di per sè sola idonea e sufficiente a fondare la pronuncia di rigetto dell’appello di Poste Italiane, indipendentemente dalla pur dichiarata condivisione degli esiti probatori raggiunti in via definitiva dal giudice penale e dai rilievi a proposito della conseguente formazione di preclusioni nel giudizio civile di impugnazione del licenziamento, non ha costituito oggetto di alcuna censura con il primo motivo di ricorso, il quale anzi, ribadendo la necessità che il giudice del lavoro proceda ad un autonomo accertamento dei fatti materiali e delle responsabilità disciplinari dedotti in giudizio (cfr. p. 18, in fine), mostra di prestare adesione proprio al principio che ha indotto la Corte di appello di Roma a non basarsi, ai fini del rigetto del gravame, sulla sola sentenza di assoluzione.

Del pari inammissibile, per il medesimo difetto di specificità, completezza e riferibilità alla sentenza impugnata, è il secondo motivo, posto che anch’esso non sottopone in alcun modo a critica la ratio decidendi sopra riportata; mentre, nella parte in cui denuncia l’omesso esame di fatti decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5), il motivo risulta altresì in contrasto con la nuova formulazione del vizio “motivazionale”, quale introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, ed oggetto di elaborazione con le sentenze delle SS.UU. n. 8053 e n. 8054 del 2014, in presenza di sentenza di appello depositata il 2 agosto 2013 e, pertanto, in epoca posteriore alla novella legislativa.

Con riferimento, poi, al terzo motivo, è palese come il rilievo della Corte, per il quale la S.p.A. Poste Italiane non “ha dedotto alcun elemento atto a provare che, nonostante la insussistenza del fatto-reato, residuino nella condotta dell’appellato profili ulteriori, comunque rilevanti sotto il profilo disciplinare e tali da legittimare il provvedimento espulsivo” (cfr. par. 3.2 cit.), dà conto anche dell’insussistenza dei presupposti per far luogo alla conversione del licenziamento intimato in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, costituendo precisa, quanto radicale, risposta alla relativa domanda subordinata.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

la Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 4.100,00 di cui Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà conto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2016

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