Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20966 del 12/10/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/10/2011, (ud. 16/06/2011, dep. 12/10/2011), n.20966

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

Riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile i ricorsi sub RG

Fatto

RITENUTO IN FATTO

S.R., dipendente della Banca Popolare dell’Adriatico, con ricorso risalente al luglio 2001 ha convenuto in giudizio il proprio datore di lavoro chiedendo la declaratoria di nullità dell’ordine di servizio del 7 agosto 1998, con il quale era stata disposta la non utilizzazione delle sue prestazioni lavorative, e la reintegra nelle mansioni di preposto alla filiale di (OMISSIS) dell’Istituto di credito nonchè la condanna di quest’ultimo al risarcimento del danno. La convenuta si costituiva per resistere.

Espletata istruttoria per testi e disposta c.t.u., il Tribunale condannava la Banca al risarcimento del danno, liquidato in complessivi Euro 195.000,00, dei quali Euro 145.000,00 per il danno da illegittima privazione delle mansioni ed Euro 50.000,00 per danno morale.

La Corte d’Appello di Campobasso, in parziale accoglimento dell’appello della Banca, riduceva ad Euro 50.000,00 il danno da sottrazione delle mansioni, confermando nel resto la sentenza impugnata. La Corte territoriale ha rigettato anzitutto la censura concernente l’accertamento circa la totale privazione delle mansioni.

Ha osservato in proposito che il S., già preposto alla filiale di Campobasso dell’istituto, era stato trasferito alla sede di (OMISSIS), ma il provvedimento era stato annullato, e che dopo l’annullamento l’istituto non aveva reintegrato il S. nella posizione lavorativa ricoperta e ne aveva rifiutato le prestazioni lavorative, circostanza sulla quale il S. aveva fondato la domanda di risarcimento. Quindi le deduzioni dell’istituto sulla possibilità per il S. di svolgere analoghe mansioni lavorative in altra struttura della banca, con possibilità di contatti con colleghi e clienti, e sull’assenza di ostilità nei suoi confronti, non avevano rilievo perchè non escludevano la mancata accettazione delle prestazioni lavorative offerte dal dipendente. La Corte di merito ha poi rigettato la censura concernente il collegamento causale fra privazione delle mansioni e danno, premettendo che lo svolgimento dell’attività lavorativa ha una valenza non solo economica ma anche di esplicazione della personalità e di qualificazione professionale, ed osservando che la sottrazione completa delle mansioni, peraltro nella specie professionalmente elevate, e l’allontanamento dal luogo di lavoro per un periodo non breve, dall’ agosto 1998 fino al gennaio 2002, data del pensionamento, inducevano fondatamente a ritenere sussistenti i danni alla professionalità ed alla vita di relazione (ovvero danno morale) con l’ulteriore riscontro, per quest’ultimo tipo di danno, dei problemi di salute sotto il profilo psicofisico, accertati in corso di giudizio.

La Corte d’appello ha quindi esaminato la censura riguardante la quantificazione del risarcimento del danno alla professionalità, ed ha osservato in proposito che il S., nato nel (OMISSIS), nel momento in cui era stato privato delle mansioni, era ormai negli ultimi anni dell’ordinario periodo lavorativo ed aveva quindi già acquisito buona parte delle sue capacità professionali. Nè in senso contrario poteva valere la circostanza che la vicenda si fosse svolta a cavallo del periodo di introduzione dell’euro, giacchè in ambito bancario ciò non aveva determinato la necessità di particolare addestramento professionale, tanto che in istruttoria era stato riferito di un corso di aggiornamento assai breve.

In base a tali osservazioni la Corte ha quindi valutato che il risarcimento del danno alla professionalità potesse essere liquidato in un terzo circa della retribuzione percepita al S. e perciò nella somma di Euro 50.000,00.

Infine, la Corte di merito ha preso in esame la censura relativa al riconoscimento in favore del S. del danno morale, ad avviso dell’appellante non dovuto in assenza di riconoscimento del danno biologico.

Secondo la Corte nel caso di specie era configurabile il danno morale ovvero esistenziale, in conseguenza del totale demansionamento del S. e del suo allontanamento definitivo dalla filiale bancaria da lui diretto, peraltro in una città di non grandi dimensioni, per lungo tempo ed anche con riflessi negativi sulla integrità psico-fisica, essendo rimasto accertato un evento di malattia prodotto dalla consapevole condotta datoriale.

Intesa San Paolo, già Banca Popolare dell’Adriatico, chiede la cassazione di questa sentenza con ricorso per quattro motivi, notificato il 21 settembre 2007, S.R. nella stessa data ha a sua volta notificato ricorso per la cassazione della stessa sentenza articolato su tre motivi, a San Paolo Banca dell’Adriatico già banca Popolare dell’Adriatico.

A tale ricorso resiste l’intimata San Paolo Banca dell’Adriatico con controricorso contenente a sua volta ricorso incidentale con motivi analoghi a quelli del ricorso proposto in via autonoma.

Il S. ha inoltre resistito con controricorso, spedito per la notifica a mezzo posta il 10 ottobre 2007 al ricorso di Intesa San Paolo. Tale controricorso contiene ricorso incidentale per tre motivi, del tutto analoghi a quelli del ricorso proposto in via autonoma ed è stato iscritto sub RG 24920/2007.

A tale ricorso incidentale Intesa San Paolo, già Banca Popolare dell’Adriatico resiste con controricorso.

S.R. ha depositato anche memoria.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Preliminarmente tutti i ricorsi, proposti contro la stessa sentenza, devono essere riuniti (art. 335 c.p.c).

Vanno esaminati anzitutto i ricorsi proposti in via principale da Intesa San Paolo, già Banca Popolare dell’Adriatico e dal S..

Con il primo motivo del ricorso Intesa San Paolo si addebita alla sentenza impugnata di avere in violazione e con falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. accordato il risarcimento del danno morale non tenendo conto che il S. aveva, secondo una sua precisa scelta difensiva, ancorato il danno morale ad una determinata percentuale del danno biologico, sicchè l’assenza di quest’ultimo statuita definitivamente nella sentenza di primo grado, sul punto passata in giudicato, comportava necessariamente il rigetto della domanda di danno morale. In ogni caso per tale titolo il S. aveva richiesto una somma pari ad Euro 24.310,00, mentre la Corte d’Appello aveva liquidato la somma Euro 50.000,00, così incorrendo in ultra petizione.

Il motivo, contrariamente a quanto sostenuto dal controricorrente, è ammissibile. E’ corretto identificare nell’art. 112 c.p.c. la norma parametro di un vizio consistente nell’attribuzione di un risarcimento (quello del danno morale) che si assume non chiesto. Non si pone un problema di indicazione del fatto controverso, poichè non è denunziato vizio di motivazione. Il quesito lascia comprendere chiaramente il problema posto alla Corte. La dedotta non completezza del quadro delle censure sulle quali la Corte è chiamata a decidere è affermazione del tutto generica e comunque infondata perchè il motivo consente la relativa decisione. Il motivo è tuttavia infondato.

Come risulta dallo stesso ricorso la domanda del S. comprendeva senz’altro il risarcimento del danno morale, ai fini della cui quantificazione veniva indicata una determinata percentuale del danno biologico, il che non vuol dire affatto, in assenza di ulteriori elementi, che mediante tale indicazione il S. avesse condizionato la propria richiesta risarcitoria sul punto al previo riconoscimento dell’esistenza del danno biologico e men che meno che a fronte di una domanda così formulata il giudice del merito dovesse ritenersi esonerato dal dovere di decidere sulla domanda specifica volta al riconoscimento del danno morale provvedendo poi alla relativa quantificazione, ai fini della quale le indicazioni del S. costituivano, proprio per il particolare aggancio all’entità di un danno (quello biologico) poi non riconosciuto, indicazioni non vincolanti anche in ordine al quantum.

Con il secondo motivo del ricorso Intesa San Paolo si addebita alla sentenza impugnata di avere, in violazione e con falsa applicazione degli artt. 2103, 2727, 2728 e 2729 c.c. considerato l’esistenza di un danno professionale e morale in re ipsa, desumendolo automaticamente dall’asserità totale inattività del S..

Con il terzo motivo del ricorso Intesa San Paolo si addebita alla sentenza impugnata di avere, in violazione e con falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 1227 c.c. liquidato il danno alla professionalità nella misura pari al 35% della retribuzione mensile del S. per ogni mese di dequalificazione, in violazione del principio di proporzionalità fra inadempimento contrattuale e risarcimento.

Con il quarto motivo del ricorso Intesa San Paolo si addebita alla sentenza impugnata di avere in violazione con falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1225, 1226 e 2227 c.c. liquidato il risarcimento del danno morale nella misura di Euro 50.000,00 in violazione del principio di proporzionalità fra inadempimento contrattuale e risarcimento del danno.

I tre motivi fra loro connessi possono esser esaminati congiuntamente.

Contrariamente a quanto sostenuto dal contro ricorrente con argomenti sostanzialmente analoghi a quelli già esaminati a proposito del primo motivo ed ai quali pertanto deve rispondersi rinviando a quanto già detto al riguardo i tre motivi sono ammissibili.

Essi sono tuttavia infondati.

Deve infatti osservarsi che il giudice del merito ha dato una adeguata motivazione sul danno professionale da demansionamento.

Egualmente ravvisabile nella sentenza è la motivazione sul danno non patrimoniale. Le imprecise qualificazioni date alla fattispecie nella sentenza impugnata (peraltro in un periodo di giurisprudenza assai poco chiara a sua volta sul c.d. danno esistenziale) non devono oscurare il fatto che gli elementi di valutazione del danno sono stati tutti adeguatamente presi in considerazione.

Così stando le cose, la Corte ritiene che mediante le censure svolte nei tre motivi, sotto veste di vizi di violazione di legge, venga chiesta in sostanza una diretta rivalutazione della misura del risarcimento impossibile in questa sede.

Con il primo motivo del ricorso S. si addebita alla sentenza impugnata di avere, in violazione e con falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 2 Cost., degli artt. 2103 e 1223 c.c., seppure nell’ambito di una liquidazione equitativa del danno, ritenuto di ridurre ad Euro 50.000,00 la somma dovuta a titolo di risarcimento per la privazione delle mansioni, giustificando tale riduzione con l’età del dipendente e l’acquisizione della capacità professionale, ossia con criteri riduttivi e non idonei, non essendo stato considerato che la professionalità è un valore non solo acquisito ma da conservare ed affinare nel futuro sviluppo lavorativo e che la totale privazione di mansioni aveva comportato proprio il venir meno della capacità professionale acquisita.

Con il secondo motivo del ricorso S. si addebita alla sentenza impugnata di avere in violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 1226 c.c. e dell’art. 113 c.p.c., omesso di indicare i criteri della determinazione equitativa del danno, e di specificare valutare globalmente tutti fattori volti a determinare tale liquidazione.

Con il terzo motivo del ricorso S. si addebita alla sentenza impugnata di avere con motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria, trascurato i dati di fatto acquisiti al processo come fattori costitutivi dell’ammontare dei danni liquidati.

Il ricorso, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte intimata, è ammissibile. Esso è stato notificato alla società incorporata presso il difensore della stessa. Vale quindi il principio secondo cui in tema di impugnazioni civili, nel caso di società che, nelle more del giudizio di cassazione (nella specie, anteriormente alla notificazione del ricorso per cassazione), si sia estinta per incorporazione, l’impugnazione è validamente notificata al procuratore costituito della società incorporata, qualora, in applicazione analogica dell’art. 300 c.p.c., l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità della persona giuridica, mediante notificazione di esso, senza che, in contrario, possa invocarsi la presunzione di conoscenza parte dei terzi dei fatti di cui la legge prescrive l’iscrizione, ai sensi dell’art. 2913 cod. civ., non operando tale previsione nel campo del processo. Ne consegue che il giudizio prosegue fra le parti originarie, senza che la società incorporante sia legittimata a rinnovare il ricorso.

(Cass. 6948/2007; 15234/2007, v. anche Sez. un. 19509/2010).

In tre motivi possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono ammissibili perchè i quesiti conclusivi riflettono l’impostazione dei motivi e, in tale prospettiva, non possono considerarsi generici.

Essi sono tuttavia infondati perchè non diversamente da quanto si è osservato con riguardo al ricorso principale si tratta di censure sostanzialmente di merito, qui inammissibili.

In conclusione, i due ricorsi ora esaminati devono esser rigettati.

Il successivo ricorso incidentale S. sub rg 24920/2007 va dichiarato inammissibile per intervenuta consumazione del potere di impugnazione con il ricorso precedentemente notificato dallo stesso S.. Altrettanto deve statuirsi, per la stessa ragione, del ricorso incidentale notificato il 31 ottobre 2007 dalla Sanpaolo Banca dell’Adriatico, una volta ritenuta validamente notificata a quest’ultima l’impugnazione.

La reciproca soccombenza giustifica la compensazione delle spese di giudizio.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi, dichiara inammissibile i ricorsi sub RG 24920/2007 e 27314/2007; rigetta gli altri; compensa le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 16 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2011

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