Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20966 del 08/09/2017


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Cassazione civile, sez. II, 08/09/2017, (ud. 30/05/2017, dep.08/09/2017),  n. 20966

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27527/2013 proposto da:

R.M., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI

CAMPO MARZIO 69, presso lo studio dell’avvocato VINICIO

D’ALESSANDRO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

A.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A. BAIAMONTI

10, presso lo studio dell’avvocato PASQUALE PONTORIERO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4928/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

30/05/2017 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

Con atto di citazione notificato l’8 maggio 2003 A.M. citava in giudizio davanti al Tribunale di Roma, R.M., per sentir dichiarare in proprio favore l’avvenuto acquisto a titolo di usucapione della proprietà esclusiva dell’appezzamento di terreno sito in agro del comune di Roma, distinto in catasto alla partita numero (OMISSIS), foglio (OMISSIS), particella (OMISSIS);

l’attore affermava di aver posseduto per oltre vent’anni il suddetto bene, svolgendo l’attività di coltivatore diretto;

si costituiva la convenuta la quale replicava che nè lei nè il proprio dante causa da cui aveva acquistato il terreno nel 1991, avevano mai visto segni di possesso da parte di terzi e pertanto le pretese coltivazioni dovevano ritenersi clandestine, avendo tra l’altro provveduto alla recinzione del terreno;

con sentenza del 3 ottobre 2005 il Tribunale di Roma rigettava la domanda e condannava l’attore alla rifusione delle spese di lite in favore della convenuta;

avverso tale sentenza interponeva appello A.M. chiedendo l’accoglimento della domanda già proposta in primo grado, deducendo quale motivo di appello l’errata valutazione delle prove testimoniali da parte del primo giudice;

il giudice del gravame, in accoglimento dell’appello, affermava che, dall’istruttoria espletata in primo grado, era risultato con certezza che l’attore appellante, alla data della notifica dell’atto di citazione, aveva maturato tutti i requisiti oggettivi e soggettivi per l’acquisto del terreno per usucapione, vale a dire il possesso dell’immobile in modo continuato e ininterrotto per la durata di oltre vent’anni, senza che vi fosse stata mai opposizione da parte del proprietario, possesso qualificato inoltre dall’animus rem sibi habendi;

inoltre, la Corte d’Appello riteneva che gli atti interruttivi del possesso invocati dalla convenuta, da un lato, non fossero provati e, dall’altro, non fossero neanche astrattamente idonei ad interrompere il possesso;

in particolare secondo i giudice d’appello la sentenza del Tribunale di Roma del 1991 sostitutiva del contratto preliminare di compravendita rimasto poi inadempiuto, stipulato tra il dante causa P.L. e la convenuta appellata, R.M., non costituiva una valida causa dell’interruzione del possesso, in quanto non opponibile al possessore contrariamente a quanto statuito dal primo giudice;

avverso la citata pronuncia ha proposto ricorso con tre motivi R.M.;

si è costituito con controricorso A.M. chiedendone il rigetto.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che

Il primo motivo di ricorso attiene alla violazione dell’art. 1158 c.c., in relazione all’art. 2729 c.c.;

sostiene la ricorrente che la coltivazione di un terreno è un’attività che, di per sè, non corrisponde all’esercizio del diritto domenicale non essendo espressiva in modo inequivocabile dell’intento del coltivatore di possedere per sè, pertanto è necessario che all’attività materiale corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà si accompagnino almeno degli indizi che consentano di desumere sia pure in maniera presuntiva che quell’attività sia svolta come proprietario;

per tale motivo il giudice d’appello avrebbe errato nel presumere l’animus possidendi desumendolo dal fatto, peraltro incerto, che l’attore si sarebbe attivato per allontanare alcune persone dal terreno;

il primo motivo è infondato;

questa Corte in ordine alla coltivazione di un terreno quale prova presuntiva del possesso, con un lungo indirizzo giurisprudenziale, cui questo collegio intende dare continuità, ha affermato che: “Quando è dimostrato il potere di fatto, pubblico e indisturbato, esercitato sulla cosa per il tempo necessario ad usucapirla, ne deriva, a norma dell’art. 1141 c.c., comma 1, la presunzione che esso integri il possesso; per conseguenza, incombe alla parte, che invece correla detto potere alla detenzione, provare il suo assunto, in mancanza dovendosi ritenere l’esistenza della prova della “possessio ad usucapionem”. (Nella specie, in applicazione del principio affermato, la S.C. ha riconosciuto nella coltivazione di un terreno, con messa a dimora di piante, l’esercizio di un potere di fatto sulla cosa corrispondente a quello del proprietario, ponendo perciò a carico del convenuto l’onere di dimostrare la mera detenzione)” Sez. 2, n. 26984 del 2013 Rv. 629487;

in modo ancora più esplicito Cass. Sez. 2, n. 15446 2007 Rv. 599046 ha affermato che: “Ai fini della prova dell’intervenuta usucapione, la coltivazione di un terreno, in modo pubblico, pacifico, continuo ed ininterrotto per i venti anni richiesti dall’art. 1158 c.c., ben può configurare lo “jus possessionis” mentre la sussistenza delranimus possidendi” è desumibile in via presuntiva ed implicita dall’esercizio dell’attività materiale corrispondente al diritto di proprietà”;

nello stesso senso deve citarsi anche Cass. Sez. 2, n. 7500 del 2006 Rv. 592507 secondo cui “Ai fini della prova del possesso di un fondo, utile per usucapione, la sua coltivazione è di per sè manifestazione di una attività corrispondente all’esercizio della proprietà; per cui, presumendosi ai sensi dell’art. 1141 c.c., il possesso in colui che esercita il potere di fatto sulla cosa, spetta a chi contesta tale possesso provare che il terreno è coltivato in base ad un titolo diverso dal diritto di proprietà;

ciò detto, deve precisarsi che la sentenza della Corte d’Appello è conforme anche rispetto all’indirizzo più rigoroso affermato da Sez. 2, n. 18215 del 2013, Rv. 627301 citata dal ricorrente;

In tale occasione si è precisato che “la coltivazione di un terreno, è in sè attività corrispondente all’esercizio del diritto dominicale, ma, poichè la coltivazione del fondo di per sè non è espressiva, in modo inequivocabile, dell’intento del coltivatore di possedere per sè è necessario che l’attività materiale corrispondente al diritto di proprietà (la coltivazione) sia accompagnata almeno da indizi che consentono di desumere sia pure in via presuntiva che quell’attività è svolta uti dominus”;

orbene nel caso in esame la Corte territoriale ha ritenuto sussistenti tali indizi avendo valutato, con apprezzamenti eminentemente di merito sorretti da adeguata motivazione e quindi insindacabili in questa sede, le risultanze processuali nonchè le prove testimoniali;

in particolare la Corte d’Appello ha fondato la decisione sulle testimonianze del vicino e di un lavoratore controterzista che si recava sul terreno per la sua lavorazione, i quali hanno affermato nel corso della loro deposizione, che l’ A. possedeva pacificamente l’immobile, aggiungendo a tale circostanza che egli lo coltivava ad ortaggi ed estirpava l’erbaccia;

un ulteriore “indizio” dell’animus possidendi la Corte lo ha tratto dalla testimonianza del lavoratore controterzista (teste C.) che aveva precisato che l’attore in occasione dell’invasione del terreno da parte di estranei si era attivato per farli allontanare, chiamando i carabinieri;

A.M., dunque, aveva soddisfatto l’onere probatorio che incombe su colui che agisce per far accertare l’acquisto di un bene per usucapione il quale presuppone la sussistenza di un corpus, accompagnata dell’animus possidendi, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, che si protragga per il tempo previsto per il maturarsi dell’usucapione;

in conclusione la sentenza della Corte d’Appello è conforme al seguente principio di diritto: “ai fini dell’usucapione è necessaria la manifestazione del dominio esclusivo sulla res da parte dell’interessato attraverso un’attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene; l’animus possidendi può, eventualmente, essere desunto in via presuntiva dal corpus possessionis, se lo svolgimento di attività corrispondente all’esercizio del diritto dominicale è già di per sè indicativo dell’intento, in colui che la compie, di avere la cosa come propria;

il secondo motivo di ricorso attiene alla violazione dell’art. 1163 c.c., secondo cui il possesso acquistato in modo violento e clandestino non giova all’usucapione se non dal momento in cui la violenza e clandestinità è cessata;

nella specie il giudice di secondo grado avrebbe errato nel ravvisare la pubblicità del presunto possesso, perchè la situazione di fatto era conosciuta solo dal precedente possessore e da un suo dipendente;

il terzo motivo di ricorso attiene alla violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 360 c.p.c., comma 5 e art. 1158 c.c.;

in sostanza la corte d’appello non avrebbe motivato, ignorandola completamente, l’eccezione di clandestinità del possesso, quando tutti testi indicati, infatti, avevano parlato di terreno incolto che si presentava tra l’altro come dalle fotografie;

la corte non avrebbe ritenuto che l’azione di contrasto della R. non era volta ad interrompere il possesso di cui nessuno aveva notizia, ma a conservare l’utilizzo della proprietà mediante un dominio inconciliabile con l’inerzia che caratterizza la prescrizione del diritto;

anche il secondo e il terzo motivo, che possono essere trattati insieme vista la loro intima connessione, sono infondati;

il ricorrente propone una rivalutazione delle testimonianze inammissibile in sede di ricorso per cassazione;

secondo questa Corte infatti “L’accertamento relativo al possesso “ad usucapionem”, alla rilevanza delle prove ed alla determinazione del decorso del tempo utile al verificarsi dell’usucapione è devoluto al giudice del merito ed è incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici” Sez. 2, n. 4035 del 2007 Rv. 595419;

anche in relazione alla invocata mancata pubblicità del possesso si è detto che “Il requisito della pubblicità del possesso, ai fini della usucapione ricorre quando l’acquisto e l’esercizio del possesso siano attuati in modo visibile e non occulto, cosi da palesare l’animo del possessore di voler assoggettare la cosa al proprio potere. L’accertamento in concreto di tali condizioni, in relazione alla fattispecie concreta e alle prove acquisite agli atti, costituisce apprezzamento di fatto che, se adeguatamente motivato, e incensurabile in Cassazione” Sez. 2, n. 1910 del 1970 Rv. 347919;

inoltre, quanto alla omessa pronuncia sull’eccezione di violenza e clandestinità del possesso, la ricorrente non riporta in alcun modo da quale attività istruttoria tale violenza e clandestinità si possa desumere, se non da circostanze che risultano invece valutate dal complesso della motivazione della Corte d’Appello allorchè ha ritenuto sufficientemente provato il possesso ad usucapionem dell’ A.;

in tal senso è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui “Dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; al contrario, il vizio motivazionale previsto dal n. 5) dell’art. 360 c.p.c., presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” Sez. 6-3, n. 21257 del 2014 Rv. 632914;

in conclusione il ricorso deve essere interamente rigettato e le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17), applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte del ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

 

rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di questo giudizio, liquidate in Euro 4.200,00 (quattromiladuecento), di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie ed accessori di legge;

dichiara la parte ricorrente tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 30 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2017

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