Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20957 del 08/09/2017


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Cassazione civile, sez. II, 08/09/2017, (ud. 23/05/2017, dep.08/09/2017),  n. 20957

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 15763/11) proposto da:

M.M.C., (C.F.: (OMISSIS)), residente in (OMISSIS),

rappresentata e difesa, come da procura speciale a margine del

ricorso, dall’avv. Giovanni Balletta (C.F.: BLLGNN66C141233J), con

il quale elegge domicilio in Roma, alla via degli Avignonesi n. 5,

presso lo studio dell’avv. Andrea Abbamonte;

– ricorrente –

contro

C.G., (C.F.: (OMISSIS)), residente in (OMISSIS), e

C.R. (C.F.: (OMISSIS)), residente in (OMISSIS), entrambi in proprio

e quali eredi legittimi di D.G.A., rappresentati e difesi,

giusta procura speciale a margine per notar G.G. del

(OMISSIS), dall’avv. Salvatore Martello (C.F.: MRT SVT52SE09G902R),

con il quale eleggono domicilio in Roma, presso il suo studio, alla

via Lorenzo il Magnifico n. 148;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 3101/2010,

depositata il 24.09.2010, e non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 23

maggio 2017 dal Consigliere relatore Dott. Andrea Penta;

udito l’Avv.to Giovanni Balletta per parte ricorrente;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Capasso Lucio, che ha concluso per il rigetto dei

motivi da 1 a 14 e 16 e per l’accoglimento del 15 motivo del

ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con atto di citazione notificato l’8 luglio 1994, D.G.A., C.G. e C.R. convenivano in giudizio, davanti al Tribunale di S. Maria Capua Vetere, M.M.C., esponendo che: 1) in data 25 settembre 1989 avevano stipulato con la convenuta un preliminare di compravendita avente ad oggetto una parte del fabbricato sito in (OMISSIS) (costituito da un appartamento composto di cinque vani ed accessori, con annesse due terrazze a livello, nonchè da tre vani terranei prospicienti il cortile comune), per il prezzo di Lire 130.000.000, oltre la quota di accollo delle spese relative ai lavori di riparazione di cui al contratto di appalto riguardante la esecuzione delle opere finanziate con Buono Contributo n. 122 del Comune di S. Maria a Vico (da corrispondersi nel corso dei lavori, secondo gli stati di avanzamento), nonchè l’accollo di tutti gli esborsi per le opere di completamento e rifinitura ritenute necessarie a giudizio della D.L.; 2) la promissaria acquirente aveva corrisposto, al momento della sottoscrizione, la somma di Lire 50.000.000 in conto prezzo con efficacia di caparra confirmatoria, mentre si era obbligata a versare la restante somma in rate annuali ciascuna di Lire 10.000.000 ed il saldo del prezzo all’atto della stipula del rogito di trasferimento, allorquando avrebbe dovuto conseguire il possesso dell’immobile; 3) con successiva scrittura del 14 marzo 1993, entrambe le parti avevano concordato per la stipula dell’atto definitivo la data di settembre 1994, ribadendo che il possesso degli immobili sarebbe stato conseguito da parte della M. solo all’esito di tale atto; 4) la M. aveva, invece, preso abusivamente possesso degli immobili all’insaputa di essi istanti e, senza alcuna autorizzazione, aveva fatto realizzare opere difformi da quelle consentite, esponendo i proprietari alle responsabilità di legge; 5) la M. non aveva poi adempiuto alla propria obbligazione in ordine al pagamento della quota di accollo-spese per i lavori di riparazione di cui al contratto di appalto nè aveva provveduto al pagamento delle rate annuali di Lire 10.000.000 scadute il 30 dicembre 1990, il 30 dicembre 1991 ed il 30 dicembre 1992, rendendosi, per l’effetto, gravemente inadempiente; 6) stante il tempo trascorso dalla sottoscrizione del preliminare e considerati i fenomeni economici sopravvenuti, si era determinata una enorme sproporzione tra le prestazioni originariamente assunte dalle parti, con conseguente notevole danno per essi istanti, tenuto conto dell’incremento di valore conseguito dagli immobili in relazione alla notevole ed imprevedibile svalutazione monetaria della prestazione dovuta dalla M..

Gli attori chiedevano, pertanto, in via principale la risoluzione del contratto per grave inadempimento della M., con condanna della stessa al pagamento della somma di Lire 50.000.000 in ordine alla caparra confirmatoria, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede. Chiedevano, inoltre, condannarsi la convenuta all’immediato rilascio degli immobili, previa emissione di ordinanza di reintegrazione nel possesso, alla esecuzione delle opere necessarie a ripristinare lo stato dei luoghi ed al risarcimento dei danni derivati dalla indebita occupazione. In via gradata e condizionata, infine, invocavano la risoluzione del contratto per sopravvenuta eccessiva onerosità della prestazione.

La convenuta si costituiva, deducendo che era stato l’attore C.G., nel maggio del 1993, a consentirle di immettersi nel possesso degli immobili, avendo essa rispettato puntualmente tutti i propri impegni contrattuali. Assumeva, inoltre, la insussistenza delle dedotte difformità, in quanto i lavori erano stati eseguiti secondo le disposizioni del Direttore dei Lavori, che ne aveva anche certificato la regolarità. Deduceva, ancora, di aver provveduto non solo ad accollarsi le spese di cui al computo metrico del geometra C. per Lire 49.346.892, ma di avere anche pagato all’impresa appaltatrice le opere di completamento e rifinitura per Lire 76.500.000. Rappresentava che era rimasto inevaso l’invito da lei rivolto agli attori mediante racccimandate a/r del 17 marzo 1994 a stipulare il rogito notarile. Su queste basi, chiedeva: il rigetto delle domande attoree e l’esecuzione specifica dell’obbligo di contrarre, previo versamento della somma ancora dovuta di Lire 62.000.000; in via subordinata, in caso di accoglimento della domanda ex art. 1467 c.c., determinarsi la somma eventualmente dovuta ad integrazione del prezzo pattuito; in via ancor più gradata, in caso di accoglimento della domanda di risoluzione ai sensi dell’art. 1385 c.c., comma 3, e art. 1453 c.c. e ss., che gli attori venissero condannati alla restituzione della caparra confirmatoria di Lire 50.000.000 e della somma di Lire 18.000.000 versata in acconto sul prezzo, oltre al rimborso di Lire 76.500.000 per le opere di completamento e rifiniture.

Espletata la prova testimoniale richiesta da entrambe le parti, con sentenza n. 766 del 28 aprile 2005, il Tribunale di S. Maria Capua Vetere così decideva:

“1) Accoglie la domanda proposta da D.G.A., C.G. e C.R. nei confronti di M.M.C. e per l’effetto dichiara risolto per grave inadempimento di quest’ultima il preliminare di compravendita del 25 settembre ‘89 integrato con scrittura privata del 14 marzo ‘93, dichiarando, altresì, il diritto degli attori a ritenere la caparra confirmatoria di Euro 25.822,84; 2) dichiara illegittima l’occupazione degli immobili per cui è causa e per l’effetto condanna M.M.C. al rilascio degli stessi in favore degli attori entro il termine di giorni trenta dalla comunicazione del deposito della presente sentenza; 3) condanna M.M.C. al pagamento della somma di Euro 47.000.000 a titolo di risarcimento danni per l’occupazione degli immobili protrattasi abusivamente dal 1993 ad oggi,…; 4) accoglie la domanda riconvenzionale di rimborso della quota parte di prezzo versata e per l’effetto condanna gli attori in solido a corrispondere alla M. la somma di Euro 9.296,22…; 5) rigetta le altre domande riconvenzionali spiegate dalla convenuta; 6) condanna M.M.C. alla rifusione, in favore degli attori, di tre quarti delle spese processuali;

Avverso tale sentenza proponeva appello la M., con atto notificato in data 30 dicembre 2005.

L’appellante, per quanto qui ancora rileva, poneva, a fondamento della propria impugnazione, i seguenti motivi: 1) l’inammissibilità, a suo dire, dell’esercizio contestuale delle azioni di risoluzione e di recesso; 2) l’erronea valutazione sulla pretesa occupazione abusiva, da parte sua, degli immobili, con conseguente diritto degli attori al risarcimento dei danni; 3) l’erronea valutazione sull’asserita sua esecuzione di opere difformi; 4) l’avvenuto pagamento della quota di accollo spese prevista in contratto; 5) la conseguente fondatezza della domanda riconvenzionale esperita ex art. 2932 c.c.; 6) la illegittimità della pronuncia sulle spese giudiziali.

Gli appellati, costituitisi in giudizio, proponevano, a loro volta, appello incidentale diretto ad ottenere, in parziale riforma della sentenza, la condanna di controparte al pagamento dell’ulteriore quota pari ad un quarto delle spese del giudizio di primo grado.

Con sentenza n. 3101/2010 del 24.9.2010, la Corte d’Appello di Napoli rigettava sia l’appello principale che quello incidentale, sulla base delle seguenti considerazioni:

a) gli attori avevano univocamente proposto, con l’atto introduttivo del giudizio, una domanda di recesso, in conformità al disposto di cui all’art. 1385 c.c., anche alla luce delle conclusioni rassegnate all’udienza del 24.5.2004;

b) quanto alla occupazione abusiva degli immobili da parte della M., particolare valenza, a supporto della ricostruzione offerta dagli attori, doveva riconoscersi alla precisa e circostanziata deposizione resa dal teste geom. C.E. (quale direttore dei lavori per cui è causa), laddove non credibili o irrilevanti erano le deposizioni riconducibili ai testimoni di parte convenuta;

c) con riferimento alla esecuzione di opere difformi rispetto al progetto di variante da parte della M., nuovamente determinante era la deposizione del d.l. C.E., laddove scarso rilievo avevano la contabilità finale ed il certificato di regolare esecuzione dei lavori a firma del predetto C., nonchè le deposizioni dei testi di parte convenuta, ed inattendibile era la testimonianza resa da Ca.Vi. (titolare dell’impresa appaltatrice);

d) in ordine al mancato pagamento della quota di accollo spese prevista in contratto, la dichiarazione scritta rilasciata dall’impresa ” Ca.Vi.” in data 21.10.1994 (che avrebbe integrato gli estremi di una quietanza liberatoria) e la conforme deposizione poi resa dal titolare di quest’ultima nel corso del primo grado non apparivano attendibili.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso M.M.C., sulla base di sedici motivi.

Hanno depositato controricorso D.G.A., C.G. e C.R..

All’udienza del 9.2.2016, in prossimità della quale la ricorrente ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 c.p.c., la causa è stata rinviata a nuovo ruolo, al fine di consentire ai controricorrenti di attendere alla nomina di un nuovo difensore, all’esito del decesso del precedente.

Con comparsa depositata l’1.2.2017 si costituivano C.G. e C.R., in proprio e quali eredi legittimi di D.G.A., medio tempore deceduta, rappresentati da nuovo difensore.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La ricorrente, con il primo motivo, deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 112 c.p.c., per aver, a suo dire, i giudici di merito erroneamente qualificato la domanda introduttiva del giudizio di primo grado come recesso ex art. 1385 c.c., anzichè come risoluzione per inadempimento (qualificazione, quest’ultima, in favore della quale deponeva, oltre al tenore letterale dell’atto di citazione, la richiesta degli attori volta ad ottenere altresì il “risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede”, incompatibile con la domanda di recesso), con conseguente vizio di ultrapetizione e di extrapetizione della domanda.

Inoltre, rileva che solo in sede di precisazioni delle conclusioni, all’udienza del 24.5.2004, gli attori, per il tramite del loro difensore, avevano formulato tardivamente domanda di recesso con declaratoria di legittimità della ritenzione della caparra di Lire 50.000.000 ricevuta, a fronte della quale la sua difesa prontamente aveva dichiarato di non accettare il contraddittorio. Infine, sostiene che, altrimenti, gli attori avrebbero esercitato contestualmente due azioni, di risoluzione ex art. 1453 c.c. e art. 1385 c.c., comma 3, e di recesso ex art. 1385 c.c., comma 2, non cumulabili tra loro perchè ontologicamente diverse ed alternative.

1.1. Il motivo è fondato.

Va premesso che l’interpretazione delle richieste formulate con la domanda giudiziale è demandata al giudice di merito, il cui giudizio si risolve in un accertamento di fatto (incensurabile in cassazione se congruamente ed adeguatamente motivato), che deve riguardare l’intero contesto dell’atto, senza che ne risulti alterato il senso letterale e tenendo conto della sua formulazione testuale nonchè del suo contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intenda perseguire (cfr., di recente, Sez. 3, Sentenza n. 9011 del 06/05/2015). In quest’ottica, la volontà della parte in relazione alle finalità dalla medesima perseguite si ricostruisce in base a criteri ermeneutici assimilabili a quelli propri del negozio (anche se, ai fini dell’interpretazione delle domande giudiziali non sono utilizzabili le norme sull’interpretazione del contratto, in quanto, rispetto alle attività giudiziali, non si pone una questione di individuazione della comune intenzione delle parti; Sez. 3, Sentenza n. 25853 del 09/12/2014), diversamente dall’interpretazione riferibile ad atti processuali provenienti dal giudice, ove la volontà dell’autore è irrilevante e l’unico criterio esegetico applicabile è quello della funzione obiettivamente assunta dall’atto giudiziale (Sez. L, Sentenza n. 17947 del 08/08/2006).

Da ciò consegue che l’interpretazione della domanda giudiziale, consistendo in un giudizio di fatto, è incensurabile in sede di legittimità e, pertanto, la Corte di cassazione è abilitata all’espletamento di indagini dirette al riguardo soltanto allorchè il giudice di merito abbia omesso l’indagine interpretativa della domanda, ma non se l’abbia compiuta ed abbia motivatamente espresso il suo convincimento in ordine all’esito dell’indagine (Sez. 1, Sentenza n. 5876 del 11/03/2011).

E’ vero che il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile alla violazione del principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.), trattandosi in tal caso della denuncia di un error in procedendo (Sez. 3, Sentenza n. 21421 del 10/10/2014). Ma è altrettanto vero che l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, la cui statuizione, ancorchè erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione dovesse ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto dì ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato la erroneità di quella motivazione, sicchè, in tal caso, il dedotto errore non si configura come error in procedendo, ma attiene al momento logico dell’accertamento in concreto della volontà della parte (Sez. 2, Sentenza n. 1545 del 27/01/2016).

Nel caso di specie, in più passaggi del primo motivo di ricorso la ricorrente fa riferimento alla motivazione della sentenza impugnata, considerandola erronea (“la motivazione è inficiata”; “Pertanto, la decisione della Corte d’Appello sul punto… è ingiusta perchè fondata su una lettura errata, in quanto parziale ed incompleta, della domanda espressa dagli attori in primo grado”).

Da ciò si evince che, ad onta della formulazione della rubrica, la ricorrente ha inteso censurare la decisione sul punto anche sul piano motivazionale.

1.2. Nel rassegnare le conclusioni alla fine dell’atto di citazione introduttivo del primo grado di giudizio, i promittenti venditori chiesero in via principale la risoluzione del contratto (e non la declaratoria di intervenuto recesso) per grave inadempimento della M., “con condanna della stessa al pagamento della somma di Lire 50.000.000 in ordine alla caparra confirmatoria, oltre al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede”. Chiesero, inoltre, condannarsi la M. all’immediato rilascio degli immobili, alla esecuzione delle opere necessarie a ripristinare lo stato dei luoghi ed al risarcimento dei danni derivati dalla indebita occupazione. Orbene, induce a qualificare l’iniziale domanda come volta ad invocare la declaratoria di risoluzione per grave inadempimento della promissaria acquirente, oltre alla espressa istanza formulata in tal senso, la richiesta di condanna al risarcimento di ulteriori danni, sia pure da liquidarsi in separata sede (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 28573 del 20/12/2013).

Come è noto, la parte non inadempiente ben può recedere senza dover proporre domanda giudiziale o intimare la diffida ad adempiere, e trattenere la caparra ricevuta o esigere il doppio di quella prestata senza dover dimostrare di aver subito un danno effettivo. La parte non inadempiente, però, può anche non esercitare il recesso, e chiedere la risoluzione del contratto e l’integrale risarcimento del danno sofferto in base alle regole generali (art. 1385 c.c., comma 3), e cioè sul presupposto di un inadempimento imputabile e di non scarsa importanza, nel qual caso non può incamerare la caparra, essendole invece consentito trattenerla a garanzia della pretesa risarcitoria o in acconto su quanto spettantele a titolo di anticipo dei danni che saranno in seguito accertati e liquidati. Qualora, anzichè recedere dal contratto, la parte non inadempiente si avvalga dei rimedi ordinari della richiesta di adempimento ovvero di risoluzione del negozio, la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione, giacchè in tale ipotesi essa perde la su indicata funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subìto, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 c.c. e ss. (Sez. 3, Sentenza n. 9 11356 del 16/05/2006).

1.3. Ebbene, sia la formulazione testuale sia il contenuto sostanziale, in relazione alle finalità che la parte intendeva perseguire, dell’atto di citazione fanno propendere la qualificazione della domanda nei termini di risoluzione contrattuale. Tanto è vero che il difensore degli attori, all’esito della istruttoria, ha tentato tardivamente di modificare la domanda, rassegnando all’udienza del 24.5.2004 le seguenti conclusioni: “accertare il grave inadempimento contrattuale della sig.ra M.M.C….., e per tale effetto dichiarare ai sensi dell’art. 1385 c.c. legittimo il recesso manifestato da parte attrice,… e, dunque, dichiarare la risoluzione degli stessi (del contratto preliminare di compravendita e della scrittura privata integrativa del 14.3.1993) e conseguentemente dichiarare legittima la ritenzione della caparra confirmatoria in ragione di Euro 25.822,84…, oltre agli interessi legali e rivalutazione monetaria, nonchè al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede”.

Tuttavia, in tema di contratti cui acceda la consegna di una somma di denaro a titolo di caparra confirmatoria, qualora il contraente non inadempiente abbia agito per la risoluzione (giudiziale o di diritto) ed il risarcimento del danno, costituisce domanda nuova, come tale inammissibile in appello, quella volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso con ritenzione della caparra (o pagamento del doppio), avuto riguardo – oltre che alla disomogeneità esistente tra la domanda di risoluzione giudiziale e quella di recesso ed all’irrinunciabilità dell’effetto conseguente alla risoluzione di diritto – all’incompatibilità strutturale e funzionale tra la ritenzione della caparra e la domanda di risarcimento: la funzione della caparra, consistendo in una liquidazione anticipata e convenzionale del danno volta ad evitare l’instaurazione di un giudizio contenzioso, risulterebbe infatti frustrata se alla parte che abbia preferito affrontare gli oneri connessi all’azione risarcitoria per ottenere un ristoro patrimoniale più cospicuo fosse consentito – in contrasto con il principio costituzionale del giusto processo, che vieta qualsiasi forma di abuso processuale – di modificare la propria strategia difensiva, quando i risultati non corrispondano alle sue aspettative (Sez. U, Sentenza n. 553 del 14/01/2009; conf. Sez. 2, Sentenza n. 20798 del 10/10/2011 e Sez. 2, Sentenza n. 4164 del 02/03/2015).

La corte d’appello ha rigettato la censura de qua con la seguente motivazione: “Con l’atto introduttivo del giudizio, invero, gli attori univocamente ebbero a proporre una domanda di recesso in conformità al disposto di cui all’art. 1385 c.c., secondo cui, “Se al momento della conclusione del contratto una parte dà all’altra, a titolo di caparra, una somma di danaro o una quantità di altre cose fungibili, la caparra, in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione dovuta. Se la parte che ha dato la caparra è inadempiente, l’altra può recedere dal contratto, ritenendo la caparra…”. Essi invero con detto atto concludevano chiedendo: “accertare il grave inadempimento contrattuale della signora… M…., e per tale effetto dichiarare risolto ogni intercorso rapporto derivante dal contratto preliminare…, e condannare, conseguentemente, essa convenuta al pagamento della somma di Lire 50.000.000 in ordine alla caparra confirmatoria…” e in modo sostanzialmente conforme precisavano le proprie conclusioni all’udienza del 24 maggio 04 (“Accertare il grave inadempimento contrattuale della M…., e per tale effetto dichiarare ai sensi dell’art. 1385 c.c. legittimo il recesso manifestato da parte attrice… e, dunque,… conseguentemente dichiarare legittima la ritenzione della caparra confirmatoria… “)”.

Tuttavia, al di là del fatto che il tenore dell’originaria domanda era, come si è visto, tutt’altro che inequivoco, la decisione è inficiata dalla circostanza che, nel riprodurre letteralmente in sentenza la domanda formulata in atto di citazione, la Corte d’Appello ha espunto dal testo integrale il periodo finale che contemplava la richiesta di risarcimento di ulteriori danni.

Quest’ultima poteva essere funzionalmente collegata soltanto alla domanda di risoluzione del contratto, mentre sarebbe stata del tutto incompatibile con la domanda di recesso ex art. 1385 c.c..

Di recente questa Corte (Sez. 1, Sentenza n. 5095 del 13/03/2015) ha precisato ulteriormente che il recesso previsto dall’art. 1385 c.c. costituisce nient’altro che una forma di risoluzione stragiudiziale del contratto che presuppone l’inadempimento della controparte, destinata a divenire operante con la semplice comunicazione alla stessa. Una forma non dissimile, cioè, dalla risoluzione di diritto del contratto, disomogenea semmai con la sola risoluzione giudiziale. L’alternativa, quindi, tra le due ipotesi regolate dai commi secondo e terzo dell’art. 1385 c.c. – tra le quali la parte non inadempiente può scegliere quella che ritiene più conveniente per sè – non è tra recesso e risoluzione, bensì tra due discipline della risoluzione, la seconda delle quali consiste nel chiedere, indipendentemente dalla caparra, la liquidazione del danno subito nella sua effettiva entità, che evidentemente dovrà essere provata.

Va evidenziato, essendo stato l’atto di citazione introduttivo del primo grado notificato l’8 luglio 1994, che, con riguardo a procedimento pendente alla data del 30 aprile 1995, il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado non era sanzionabile solo in presenza di un atteggiamento non oppositorio della controparte, che integrava l’accettazione del contraddittorio e che era individuabile nella richiesta di rigetto delle avverse pretese (Sez. 3, Sentenza n. 4366 del 19/03/2012). Nella fattispecie in esame, invece, sin da subito il difensore degli allora attori ebbe a dichiarare a verbale di non accettare il contraddittorio in ordine alle domande nuove, perchè inammissibili.

Per completezza espositiva, è opportuno precisare che non incide sulla fattispecie la recente pronuncia a Sezioni Unite di questa Corte n. 12310 del 15.6.2015, la quale, pur ritenendo mere domande modificate quelle che non si aggiungono, ma si sostituiscono a quelle originarie, richiede pur sempre che la modifica intervenga nel rispetto delle preclusioni di cui all’art. 183 e, più precisamente, con la prima memoria di cui al comma 6, laddove nel caso di specie la modifica sarebbe avvenuta solo in sede di precisazione delle conclusioni.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, i giudici di merito hanno erroneamente qualificato la domanda introduttiva del giudizio di primo grado come recesso ex art. 1385 c.c., comma 2, anzichè come risoluzione per inadempimento.

Da ciò consegue che la sentenza impugnata va cassata sul punto con rinvio alla Corte di Napoli in diversa composizione, affinchè decida nel merito la causa facendo applicazione del seguente principio di diritto:

“Deve essere qualificata come domanda di declaratoria di risoluzione di un contratto preliminare quella volta a conseguire, oltre alla risoluzione del contratto per grave inadempimento del promissario acquirente, la condanna al risarcimento di ulteriori danni, sia pure da liquidarsi in separata sede. La parte non inadempiente può, infatti, anzichè esercitare il recesso, chiedere la risoluzione del contratto e l’integrale risarcimento del danno sofferto in base alle regole generali (art. 1385 c.c., comma 3), e cioè sul presupposto di un inadempimento imputabile e di non scarsa importanza; nel qual caso non può incamerare la caparra, essendole invece consentito solo trattenerla a garanzia della pretesa risarcitoria o in acconto su quanto spettantele a titolo di anticipo dei danni che saranno in seguito accertati e liquidati. In siffatta evenienza la restituzione della caparra è ricollegabile agli effetti restitutori propri della risoluzione negoziale, come conseguenza del venir meno della causa della corresponsione, giacchè in tale ipotesi essa perde la su indicata funzione di limitazione forfettaria e predeterminata della pretesa risarcitoria all’importo convenzionalmente stabilito in contratto, e la parte che allega di aver subito il danno, oltre che alla restituzione di quanto prestato in relazione o in esecuzione del contratto, ha diritto anche al risarcimento dell’integrale danno subito, se e nei limiti in cui riesce a provarne l’esistenza e l’ammontare in base alla disciplina generale di cui agli artt. 1453 c.c. e ss.”.

2. Con il secondo motivo la M. denuncia violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omessa, illogica e contraddittoria motivazione della sentenza in ordine ad un fatto controverso del giudizio, consistente nella mancata dichiarazione attorea di recesso dal contratto ex art. 1385 c.c.

Secondo la ricorrente, la motivazione con la quale la corte partenopea ha qualificato come recesso la domanda attorea di primo grado sarebbe ingiusta, perchè non avrebbe considerato che nella fattispecie in esame in nessun atto – giudiziale o stragiudiziale – gli attori avevano dichiarato di voler recedere dal contratto ex art. 1385 c.c., comma 2, con la conseguenza che non avrebbero potuto evocare la controparte in giudizio esclusivamente affinchè il Tribunale accertasse la legittimità del recesso (proprio perchè non c’era stato alcun recesso preventivamente da loro attuato).

2.1. Il motivo resta assorbito nell’accoglimento del precedente, presupponendo l’esercizio della facoltà di recesso dal contratto.

In ogni caso, fermo restando che non vi è cenno della questione nella sentenza impugnata (con la conseguenza che il ricorrente aveva l’onere di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta in primo e secondo grado), il motivo si sarebbe rivelato infondato, atteso che solo in casi normativamente previsti (si pensi ai casi del licenziamento del lavoratore o del recesso da un contratto di locazione) l’azione giudiziale volta ad ottenere la declaratoria dell’intervenuto recesso deve essere preceduta da una comunicazione stragiudiziale della volontà di recedere (Sez. 3, Sentenza n. 976 del 10/02/1990).

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1385 e 1455 c.c. in riferimento all’omessa valutazione della gravità dell’inadempimento complessivamente addebitato alla M. (sostanziatosi nell’immissione nel possesso materiale dell’immobile prima della stipula del contratto definitivo, nel mancato pagamento del cd. “accollo spese” e nella realizzazione di opere difformi senza autorizzazione dei venditori), onde accertare se il preteso inadempimento avesse inciso in maniera fondamentale sull’equilibrio contrattuale.

4. Con il quarto motivo la M. si duole della nullità della sentenza per omessa motivazione in ordine all’asserita gravità degli inadempimenti, in relazione all’art. 364 (recte, art. 360) c.p.c., n. 4, per aver la Corte d’Appello omesso di esporre i motivi per i quali avrebbe ritenuto gravi i pretesi tre inadempimenti contrattuali ascrittile.

5. Con il quinto motivo la ricorrente denunzia l’omessa ed insufficiente motivazione in ordine, nuovamente, alla affermata gravità degli inadempimenti imputatile rispetto agli obblighi nascenti dal contratto preliminare, ma stavolta in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5.1. I motivi 3, 4 e 5, siccome intimamente connessi, meritano di essere trattati congiuntamente, rivelandosi inammissibili e, comunque, infondati.

In primo luogo, non si è certamente al cospetto della violazione di una norma di diritto.

E’ noto, infatti, che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione, come nel caso di specie, di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Sez. U, Sentenza n. 10313 del 05/05/2006 e, di recente, Sez. L, Sentenza n. 195 del 11/01/2016).

In ogni caso, va ribadito che la corte locale si è, sia pure sinteticamente, pronunciata sulla gravità degli adempimenti ascritti alla M., aventi, peraltro, ad oggetto obbligazioni negoziali essenziali.

In secondo luogo, è vero che, a norma dell’art. 1455 c.c., il giudice chiamato a provvedere sulla domanda di risoluzione del contratto per inadempimento deve proporsi, anche d’ufficio, il problema della gravità o meno dello inadempimento ed è tenuto ad indicare, in ipotesi di accoglimento della domanda, i motivi per cui, nel caso concreto, ritiene l’inadempimento non di scarsa importanza (Sez. 2, Sentenza n. 5424 del 16/10/1981; conf. Sez. 2, Sentenza n. 16084 del 20/07/2007). Ma è altrettanto vero che, nel caso di specie, non risulta dalla sentenza qui impugnata che la odierna ricorrente si fosse in sede di appello lamentata del fatto che il giudice di prime cure avesse omesso, peraltro in relazione alla domanda di recesso, di valutare la sussistenza e, soprattutto, la gravità dei pretesi inadempimenti (rispetto agli obblighi nascenti dal contratto preliminare) ascrittile.

5.2. Peraltro, sia pure in termini sintetici, il giudice di secondo grado ha tenuto conto (cfr. pag. 17 della sentenza impugnata), nella valutazione omnicomprensiva, dell’effettiva incidenza dei tre inadempimenti ascritti alla M. sul sinallagma contrattuale e ha di fatto verificato che, in considerazione degli stessi, fosse da escludere per la controparte l’utilità del contratto alla stregua dell’economia complessiva del medesimo.

Inoltre, la corte territoriale ha nitidamente affermato (cfr. sempre pag. 17) che “ognuno dei tre “inadempimenti” di per sè considerato, stante la gravità di ciascuno di essi, sarebbe tale da comportare l’accoglimento della domanda attrice”, con la conseguenza che anche solo uno di essi (immissione abusiva nel possesso degli immobili, esecuzione di opere difformi rispetto al progetto iniziale, mancato adempimento del cd. accollo spese e delle rate del prezzo) avrebbe giustificato la risoluzione del rapporto.

Senza tralasciare che, in tema di risoluzione contrattuale per inadempimento, la valutazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c., della non scarsa importanza dell’inadempimento deve ritenersi implicita, ove l’inadempimento stesso si sia verificato, come nel caso di specie, con riguardo alle obbligazioni primarie ed essenziali del contratto, ovvero quando, dal complesso della motivazione, emerga che il giudice lo abbia considerato tale da incidere in modo rilevante sull’equilibrio negoziale (Sez. 1, Sentenza n. 22521 del 28/10/2011; Sez. 2, Sentenza n. 17328 del 17/08/2011; Sez. 3, Sentenza n. 1227 del 23/01/2006).

6. Con il sesto motivo la ricorrente deduce omessa, insufficiente ovvero contraddittoria motivazione (art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.) in relazione a fatti decisivi della controversia consistenti nel completamento dei lavori al fabbricato nel marzo 1994, nella mancata allegazione da parte degli eredi C. di quali atti dispositivi sarebbero stati impediti dall’altrui detenzione dell’immobile, nonchè nell’accettazione da parte degli eredi C. dell’ulteriore acconto di Lire 10.000.000 nel mese di dicembre 1993 successivamente alla proposizione di denuncia penale per l’indebito possesso dell’immobile da parte della M. ed al telegramma -diffida inviato dal geom. C..

In particolare, sostiene che negli scritti giudiziali e stragiudiziali degli eredi C. non vi era alcuna indicazione di quale atto dispositivo fosse stato loro impedito dall’altrui detenzione dal 28 luglio 1993 (cioè dalla data del telegramma di diffida a rilasciare l’appartamento spedito dal geom. C.E. per loro conto) al 15 marzo 1994 (data di completamento dei lavori all’immobile) o al luglio 1994 (epoca della notifica dell’atto di citazione), con la conseguenza che la corte di merito avrebbe dovuto escludere la circostanza che la detenzione, da parte del promissario acquirente, dell’immobile già da prima della stipula del contratto definitivo integrasse gli estremi di un inadempimento grave ed importante.

A conferma che la sua detenzione non avrebbe leso alcun diritto o aspettativa sostanziale dei venditori, vi sarebbe stata la circostanza, non considerata dalla Corte d’Appello, che gli eredi C. nel mese di novembre 1993 avevano accettato l’assegno di Lire 10.000.000 loro versato dalla M. a titolo di ultima rata d’acconto al termine del mese novembre 1993, nonostante la precedente contestazione d’inadempimento contenuta nel telegramma del geom. Crisci di diffida a rilasciare l’appartamento e la querela sporta dalla sig.ra D.G., anche per conto dei figli, nei suoi confronti per l’indebita immissione nell’appartamento.

6.1. Il motivo è complessivamente inammissibile e, comunque, quanto al secondo rilievo, anche infondato.

E’ inammissibile, perchè, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate, come nella specie, questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata (ovvero questioni implicanti un accertamento di fatto o non trattato nella sentenza impugnata), il ricorso deve (a pena di inammissibilità) non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente la parte lo abbia fatto (principio di autosufficienza del ricorso). I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito nè rilevabili d’ufficio (Cass. 7981/07). In quest’ottica, il ricorrente ha l’onere di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta in primo e secondo grado (Cass. 9765/05). Nel giudizio di cassazione, infatti, è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o di nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito (Cass. 13.9.2007, n. 19164; Cass. 9.7.2013, n. 17041).

6.2. Il motivo, comunque, avuto riguardo al secondo profilo, si sarebbe rivelato nel merito infondato.

Invero, nel contratto a prestazioni corrispettive, il contraente non inadempiente può rinunciare ad avvalersi della risoluzione; tuttavia, costituisce rinuncia in tal senso solo il comportamento del contraente che, dopo essersi avvalso della facoltà di risolvere il contratto, manifesti in modo inequivoco l’interesse alla tardiva esecuzione dello stesso. La semplice accettazione di un pagamento, preceduta da una diffida a rilasciare l’appartamento e da una querela per indebita immissione in quest’ultimo e seguita a breve distanza di tempo (l’8 luglio 1994) dalla notifica dell’atto di citazione, non è all’uopo sufficiente (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 5734 del 10/03/2011, che ha dichiarato inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso avverso la sentenza della corte di merito che aveva ravvisato gli estremi dell’acquiescenza nell’accettazione, da parte del contraente che aveva agito per la risoluzione, del pagamento del saldo del prezzo di una compravendita; significativa è in tal senso altresì Sez. 3, Sentenza n. 15026 del 15/07/2005).

7. Con il settimo motivo la M. deduce omessa, insufficiente ovvero contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in relazione ad una serie di fatti decisivi al fine della valutazione della gravità ed importanza della realizzazione di opere difformi dell’immobile, consistenti nell’obbligo, posto a suo carico nel contratto preliminare, di sostenere i costi di tutte le varianti al progetto e nel pretermesso esame dei progetti delle concessioni edilizie e di variante, nonchè del certificato finale del Direttore dei Lavori di collaudo e regolare esecuzione dei lavori.

In particolare, evidenzia che ex contracto gravavano su di lei i costi di tutte le opere edili diverse da quelle previste e comprese nel progetto/pratica di ristrutturazione e riparazione del fabbricato (cfr. l’alinea d) del contratto preliminare, in base al quale si conveniva, tra l’altro, che restassero a carico della parte acquirente le spese per la realizzazione di tutte le nuove opere non previste in progetto, cioè sia di quelle aventi valenza puramente tecnica – perchè da realizzarsi su indicazione di indispensabilità del direttore dei lavori geom. C.E. – sia di tutte le altre cc.dd. voluttuarie. Considerato che l’unico soggetto che poteva avere interesse alla realizzazione di opere voluttuarie era lei, perchè l’immobile sarebbe divenuto di sua proprietà, sostiene che era autorizzata per contratto dai venditori a disporre a proprie spese opere diverse e che in tal caso i promittenti venditori non avrebbero avuto motivo di dolersi del suo operato. Inoltre, visto che il Direttore dei Lavori geom. C.E. aveva rilasciato certificato di collaudo e di regolare esecuzione dei lavori, non si evinceva, a suo dire, dalla lettura della sentenza quale sarebbe stata la variazione dell’aspettativa contrattuale dei venditori causata dalla realizzazione di nuove opere interne.

Infine, le pretese difformità non erano, a suo dire, di entità tale da modificare sostanzialmente la destinazione originaria dell’immobile (conferendogli un assetto urbanistico diverso da quello originario), a tal punto che lo stesso D.L. aveva affermato che “per quanto riguarda la destinazione dei sottotetti la stessa non è cambiata fino alla fine di ultimazione dei lavori”.

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia la violazione all’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) per omessa pronuncia sul motivo di appello consistente nella dedotta inesistenza dell’obbligo di versare il cd. “Accollo spese” ai promittenti venditori, anzichè alla ditta appaltatrice Ca.Vi..

Sostiene la M. che avrebbe dovuto versare la quota di accollo spese direttamente all’impresa, anzichè agli attori, e che la somma da lei erogata avrebbe comunque estinto l’obbligazione corrispondente di questi ultimi nei confronti dell’appaltatrice, ma che, nonostante avesse sollevato la censura con l’atto di appello, la Corte d’Appello aveva omesso di riscontrarla.

9. Con il nono motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1362,1363 e1364 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) sempre circa l’inesistenza nel contratto preliminare dell’obbligo di versare il cd. Accollo spese (cioè di quella parte del prezzo dell’appalto non rimborsata dal Comune e cedente a carico dei singoli proprietari) ai promittenti venditori, per l’eventualità in cui questa Corte avesse ritenuto la predetta omessa pronuncia come implicito rigetto della censura.

A fondamento della sua ricostruzione, la M. valorizza, ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2, la circostanza che dagli atti del processo non fosse emerso che i promittenti venditori avessero versato l’accollo spese all’impresa, nè che le avessero chiesto il rimborso delle quote di accollo spese eventualmente pagate. A conferma di ciò, richiama la modifica successivamente apportata al contratto nel marzo 1993, con la quale l’obbligo di versamento dell’accollo spese era stato eliminato, nè le parti davano atto che esso non fosse stato versato.

10. Con il decimo motivo la ricorrente si duole della omessa, insufficiente ovvero contraddittoria motivazione in relazione all’assenza di gravità ed importanza del mancato pagamento dell’accollo spese (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

Sostiene che anche sotto il profilo del preteso mancato pagamento dell’accollo spese non sussisterebbe alcun suo grave inadempimento, atteso che ella non aveva contestato di dover accollarsi quella parte del prezzo dell’appalto non rimborsata dal Comune, come era provato dalla quietanza rilasciata dalla ditta Ca.Vi. per la somma di Lire 75.000.000.

Deduce che le considerazioni della Corte d’Appello sull’attendibilità del teste Ca. apparivano superflue, in ragione della originaria inammissibilità della prova testimoniale sulla circostanza del pagamento documentata con quietanza.

Ritiene, infine, che l’ammontare dell’accollo spese effettivamente spettante all’impresa Ca. non avrebbe, comunque, potuto incidere sulla posizione patrimoniale degli eredi C., perchè era certo che le spese, qualunque ne fosse stato l’importo, sarebbero dovute essere da lei corrisposte.

11. Con l’undicesimo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 61 e 244 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la controversia (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), consistente nel progetto di variante del 13.12.1990 (nel quale il D.L. aveva elencato sommariamente le variazioni da apportare) assentito con concessione edilizia n. 11/91.

Ribadisce, in particolare, che dall’istruttoria processuale di primo grado non era emerso che le pretese difformità fossero state di entità tale da modificare sostanzialmente la destinazione originaria dell’immobile, conferendogli un assetto urbanistico diverso da quello originario. Sostiene che, a fronte di tale specifica deduzione difensiva (i.e., che le nuove opere dedotte dalle controparti erano state oggetto della successiva variante), i giudici avrebbero dovuto nominare ex art. 61 c.p.c. un consulente tecnico per verificare se lo stato dei luoghi corrispondesse a quello indicato in progetto e se le difformità fossero sostanziali, anzichè accogliere gli esiti di una prova testimoniale assunta in violazione del divieto posto dall’art. 244 c.p.c..

12. Con il dodicesimo motivo la ricorrente si duole della violazione dell’art. 2700 c.c., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 76 del 1990, art. 21 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), circa l’efficacia probatoria della contabilità finale e del certificato di regolare esecuzione dei lavori asseverata con giuramento reso dal Direttore dei Lavori dinanzi al Cancelliere della Pretura di Arienzo in data 26/04/1994.

Sostiene, in particolare, che alla relazione giurata di accertamento della regolare esecuzione delle opere da parte del direttore dei lavori, pur vedendosi in tema di appalto privato, doveva attribuirsi (a differenza di quanto aveva ritenuto la corte d’appello) l’efficacia probatoria di atto pubblico, perchè la specifica attestazione giurata era richiesta dalla legge per completare il procedimento pubblico di concessione del Buono Contributo ex lege n. 219 del 1981 ed era, quindi, di per sè sufficiente a conseguire l’erogazione del saldo del contributo ed indispensabile al completamento del procedimento amministrativo.

13. Con il tredicesimo motivo la M. denuncia illogicità e contraddittorietà della motivazione (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in ordine all’attendibilità del teste C.E., alla luce del mancato rilievo del contrastante giuramento da questi reso dinanzi al Cancelliere della Pretura di Arienzo.

Ritiene, cioè, che la corte di merito erroneamente aveva considerato determinante la deposizione resa dal teste C.E. (reputato teste particolarmente qualificato per la sua qualità di Direttore dei Lavori e, quindi, molto attendibile), nonostante, prima della testimonianza resa nel processo, la contabilità finale ed il certificato di regolare esecuzione dei lavori fossero stati da lui asseverati con giuramento reso dinanzi al Cancelliere della Pretura di Arienzo.

13.1. I motivi da sette a tredici sono inammissibili per carenza di interesse.

Invero, si è già evidenziato, nel rigettare il terzo, il quarto ed il quinto, che, per la corte territoriale, anche uno dei tre inadempimenti imputati alla promissaria acquirente, di per sè considerato, avrebbe giustificato la risoluzione del rapporto. Da ciò consegue che, anche qualora in astratto si pervenisse ad escludere la realizzazione di opere difformi ed il mancato accollo delle spese, residuerebbero a carico della M. l’omesso pagamento di alcune delle rate annuali del prezzo e, soprattutto, l’indebita immissione in possesso dei beni immobili promessile in vendita. Non essendo stata specificamente censurata l’affermazione resa dalla corte partenopea in ordine alla gravità decisiva di ciascuno degli inadempimenti, ugualmente si perverrebbe alla conferma della declaratoria di risoluzione.

Invero, quando una decisione di merito, impugnata in sede di legittimità, si fonda su distinte ed autonome rationes decidendi ognuna delle quali sufficiente, da sola, a sorreggerla, perchè possa giungersi alla cassazione della stessa è indispensabile, da un lato, che il soccombente censuri tutte le riferite rationes, dall’altro che tali censure risultino tutte fondate. Ne consegue che, rigettato (o dichiarato inammissibile) il motivo che investe una delle riferite argomentazioni, a sostegno della sentenza impugnata, sono inammissibili, per difetto di interesse, i restanti motivi, atteso che anche se questi ultimi dovessero risultare fondati, non per questo potrebbe mai giungersi alla cassazione della sentenza impugnata, che rimarrebbe pur sempre ferma sulla base della ratio ritenuta corretta (Sez. 3, Sentenza n. 12372 del 24/05/2006).

D’altra parte, la disciplina dettata dall’art. 1385 c.c., comma 2 in tema di recesso per inadempimento nell’ipotesi in cui sia stata prestata una caparra confirmatoria, non deroga affatto, come già anticipato, alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, consentendo il recesso di una parte solo quando l’inadempimento della controparte sia colpevole e di non scarsa importanza in relazione all’interesse dell’altro contraente. Pertanto nell’indagine sull’inadempienza contrattuale da compiersi al fine di stabilire se ed a chi spetti il diritto di recesso, i criteri da adottarsi sono quegli stessi che si debbono seguire nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, nel senso che occorre in ogni caso una valutazione comparativa del comportamento di entrambi i contraenti in relazione al contratto, in modo da stabilire quale di essi abbia fatto venir meno, con il proprio comportamento, l’interesse dell’altro al mantenimento del negozio (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 409 del 13/01/2012). Da ciò deriva che le valutazioni espresse con riferimento alla gravità degli inadempimenti, avuto riguardo al recesso, sono senz’altro estensibili alla domanda originaria di risoluzione giudiziale.

14. Con il quattordicesimo motivo la M. deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1385 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, stante l’asserito indebito cumulo del risarcimento del danno per la detenzione dell’immobile con la ritenzione della caparra confirmatoria, e violazione di altra disposizione di legge in relazione al computo del danno. Sostiene, in particolare, che, avendo la corte di merito qualificato l’azione giudiziale degli eredi C. come recesso ex art. 1385 c.c., non avrebbe poi potuto condannarla anche al risarcimento del danno per il possesso non autorizzato dell’immobile, potendo la parte che opta per il recesso avere il diritto di ritenzione della sola caparra confirmatoria, senza l’ulteriore risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento contrattuale.

14.1. Il motivo resta assorbito nell’accoglimento del primo, atteso che l’asserito divieto di cumulo della caparra cofirmataria e del risarcimento del danno da occupazione illegittima (recte, da immissione illegittima nel possesso) presupponeva la declaratoria di intervenuto recesso, da parte dei promittenti venditori, dal contratto preliminare.

15. Con il quindicesimo motivo la ricorrente denunzia violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e violazione dell’art. 1226 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Deduce la M. che già con l’atto di appello si era lamentata della illegittimità della liquidazione dei danni operata dal tribunale con il ricorso al criterio della valutazione equitativa, tenuto conto che si può procedere a siffatta valutazione solo nel caso in cui la determinazione del danno sia impossibile o particolarmente difficoltosa.

Per l’eventualità in cui l’omessa pronuncia comportasse un implicito rigetto, censura la decisione assunta ex art. 1226 c.c. perchè il calcolo dell’eventuale danno poteva, a suo dire, essere operato secondo i criteri legali di computo del cd. equo canone stabiliti dalla L. n. 392 del 1978 (cioè calcolando il canone legale di locazione che i proprietari avrebbero potuto conseguire affittando l’appartamento).

15.1. Il motivo merita di essere accolto, atteso che nella sentenza impugnata non vi è alcuna presa di posizione sul riportato motivo di gravame, essendo, per l’effetto, la corte partenopea incorsa in una palese omissione di pronuncia.

La pronuncia va, pertanto, cassata sul punto, con conseguente rinvio alla corte d’appello in differente composizione, affinchè valuti se il calcolo del danno da indebita occupazione dell’immobile possa o meno essere effettuato avvalendosi del mero criterio equitativo.

16. Con il sedicesimo ed ultimo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 2932 c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), sostenendo che, non sussistendo alcun grave inadempimento da addebitarsi a lei, permarrebbe l’obbligo dei promittenti venditori di stipulare il contratto definitivo di compravendita e meriterebbe, quindi, accoglimento la sua domanda riconvenzionale formulata ex art. 2932 c.c..

16.1. A seguito del rigetto dei motivi attinenti alla (in)sussistenza degli inadempimenti ed alla loro gravità, il motivo in esame inevitabilmente non merita di essere accolto.

17. In definitiva, il ricorso va accolto limitatamente al primo ed al quindicesimo motivo, laddove il terzo, il quarto, il quinto, il sesto ed il sedicesimo motivo vanno rigettati, i motivi dal settimo al tredicesimo vanno dichiarati inammissibili ed il secondo e quattordicesimo motivo vanno considerati assorbiti nell’accoglimento del primo.

La causa, quanto ai motivi accolti, va rimessa alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione, la quale si pronuncerà altresì sulle spese del presente grado di giudizio.

PQM

 

La Corte accoglie il primo ed il quindicesimo motivo, rigetta il terzo, il quarto, il quinto, il sesto ed il sedicesimo motivo, dichiara inammissibili i motivi dal settimo al tredicesimo e dichiara assorbiti il secondo ed il quattordicesimo motivo; cassa, con riferimento dei motivi accolti, la sentenza impugnata e rimette la causa, anche ai fini della pronuncia sulle spese, ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile della Corte suprema di Cassazione, il 23 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2017

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