Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20940 del 01/10/2020

Cassazione civile sez. II, 01/10/2020, (ud. 21/07/2020, dep. 01/10/2020), n.20940

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – est. Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22205-2019 proposto da:

M.U., rappresentato e difeso dall’avvocato MICHELE

CIPRIANI, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELTTNTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

e contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE MILANO;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1523/2019 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 04/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

21/07/2020 dal Presidente FELICE MANNA.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

U.M., cittadino (OMISSIS), nato nel (OMISSIS), proponeva ricorso innanzi al Tribunale di Milano avverso la decisione della locale Commissione territoriale, che aveva respinto la sua richiesta di protezione internazionale o umanitaria. A sostegno della domanda deduceva di essersi iscritto al partito “Pakistan Muslim League” nel 2006 e di aver subito nel 2007 un’aggressione da parte dei sostenitori del partito politico avverso il Pakistan People Party – riportando gravi ferite; di essere stato successivamente rapito da militanti di quest’ultima formazione politica, che l’avevano costretto a firmare documenti di passaggio della proprietà di un suo terreno ad un esponente di spicco di detto partito; di essere riuscito a fuggire e di aver denunciato il fatto alla polizia, senza tuttavia esito; di aver venduto poi il terreno al padre in occasione del matrimonio della sorella; e di aver, infine, abbandonato il Pakistan temendo per la propria incolumità.

Il Tribunale rigettava la domanda.

L’appello del richiedente era respinto dalla Corte distrettuale di Milano, con sentenza n. 1523/19. Riteneva detta Corte che l’inattendibilità del racconto del richiedente, generico e non credibile, impedisse l’accoglimento della domanda di rifugio e di protezione sussidiaria, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b). Quanto all’ipotesi di cui alla lett. c) stesso D.Lgs., le fonti internazionali (report EASO 2016), osservava la Corte territoriale, indicavano la regione del Punjab, zona di provenienza del richiedente, come relativamente più tranquilla di altre, per il minor radicamento di gruppi terroristici. Pertanto, doveva escludersi che in essa ricorresse una situazione di violenza indiscriminata per conflitto armato interno o internazionale, nell’accezione della giurisprudenza della Grande sezione della Corte Europea di giustizia (sentenza C-456/07). Del pari, non poteva essere accolta la domanda di protezione umanitaria, poichè il richiedente, giunto in Italia nel 2015, non aveva dato prova di un fattivo e consolidato percorso d’integrazione lavorativa (per quanto di per sè sola insufficiente), limitandosi a produrre documentazione relativa alla frequenza di un corso di lingua italiana e di uno di cucina, ad un breve rapporto di lavoro (di soli cinque mesi) e ad un contratto d’assicurazione. Inoltre, il richiedente, più che maggiorenne e con problemi di salute ormai del tutto superati, non versava in alcuna situazione di vulnerabilità.

Avverso tale sentenza il richiedente propone ricorso, affidato a due motivi. Vi resiste con controricorso il Ministero dell’Interno.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. – Col primo motivo è dedotta, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. l) e g), art. 14, comma 1, lett. a), b) e c) e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 17; e in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 (recitus, 5) l’omesso o insufficiente esame di fatti decisivi per il giudizio, ai fini della concessione della protezione sussidiaria.

Sostiene parte ricorrente che la Corte distrettuale, pur avendo affermato che il Pakistan è segnato attualmente da problemi d’ordine pubblico, avrebbe ingiustificatamente escluso che esso sia afflitto da una situazione di conflitto armato interno e ad alta intensità. Cita, a sostegno, precedenti di merito e fonti varie (dal sito Viaggiare sicuri del Ministero degli Esteri a report di Amnesty International e dell’EASO), dimostrative del pericolo di attentati nelle grandi città e nelle aree di confine con l’Afganistan. Deduce il travisamento, nella sentenza impugnata, del racconto del richiedente, che invece sarebbe tutt’altro che inverosimile alla luce delle condizioni di salute di lui e delle informazioni generali sul Paese d’origine. Lamenta l’omesso esame di circostanze decisive, che avrebbero dovuto indurre a ritenere esistente in Pakistan una situazione di violenza indiscriminata, e la derelizione del generale obbligo di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, di provvedere sulla domanda alla luce di informazioni aggiornate sulla situazione generale esistente nel Paese d’origine del richiedente. Sostiene che le fonti internazionali indicano insicurezza crescente nel Pakistan, attentati terroristici anche nella regione del Punjab, violazioni dei diritti umani, discriminazione delle minoranze religiose, mancanza di libertà d’espressione, abuso della pena di morte, detenzione arbitraria, tortura, sparizione di persone, violenza contro le donne ed impunità dei colpevoli. Per poi concludere che il ricorrente, ove rimpatriato, potrebbe venirsi a trovare “in una delle condizioni tutelate dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, comma 1, lett. a), b) e c)” (v. pag. 14 del ricorso).

1.1. – Il motivo è inammissibile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel ricorso per cassazione è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (v. nn. 26874/18 e 19443/11).

Nella specie, il motivo consta di un’inestricabile commistione di richiami giuridici e di critiche all’apprezzamento di merito operato dalla Corte distrettuale (non disgiunte da improprie censure di travisamento dei fatti, che se esistente richiederebbe la revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4 e non il ricorso per cassazione), critiche che nella loro formulazione non consentono di isolare alcun chiaro, ordinato e consequenziale ragionamento logico-giuridico (ne sono riprova le innumerevoli ripetizioni dei medesimi concetti per venti pagine). Ciò rimette a questa Corte l’inammissibile onere di isolare le questioni sollevate e le censure connesse, le une e le altre per di più riferite, piuttosto che alla fattispecie, a qualsivoglia ipotesi di possibile protezione internazionale (restandone escluse solo le questioni di razza e di orientamento sessuale); come se quest’ultima, prescissa la storia individuale del richiedente, dipendesse da un giudizio generale e di sintesi sulla (in)sicurezza, (in)affidabilità e (in)giustizia del Paese di provenienza. Tale disorganico cumulo argomentativo – che spazia dalla violazione di legge all’omesso o insufficiente esame di fatti (in realtà esaminati, ma con esito diverso da quello sperato dal richiedente) – pone sullo stesso ed indifferenziato piano tanto protezioni individualizzate, come quelle di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e h) quanto l’ipotesi non individualizzata di cui alla lett. c) dello stesso articolo. Il tutto senza che parte ricorrente colga l’intrinseca contraddizione della coeva allegazione d’una violenza indiscriminata per via di conflitto armato interno o internazionale, che presuppone come assente il controllo del territorio ad opera dello Stato, e d’un regime oppressivo ed irrispettoso d’ogni diritto umano, che per essere tale quel medesimo territorio deve pur controllare, in tutto o in parte.

2. – Il secondo motivo allega la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, e art. 8, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonchè l’omesso o insufficiente esame di fatti decisivi in merito al mancato accertamento della protezione umanitaria, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 (rectius, 5).

La Corte territoriale avrebbe violato dette norme travisando le circostanze di fatto emerse. Parte ricorrente, premessi i principi sul c.d. catalogo aperto della protezione umanitaria, sostiene che la Corte territoriale abbia omesso di operare un effettivo bilanciamento tra lo stato di compromissione dei diritti umani in Pakistan e il livello d’integrazione socio-culturale raggiunto in Italia dal richiedente, sottovalutando, con motivazione insufficiente e carente attività istruttoria, la documentazione scolastica e lavorativa prodotta, e la situazione di vulnerabilità del richiedente in caso di rimpatrio. Deduce, inoltre, che il contratto di lavoro a tempo determinato è stato trasformato a tempo indeterminato dal 15.5.2019, a conferma dello stabile e compiuto inserimento lavorativo, del resto evincibile già dalla sequenza temporale dei precedenti contratti di lavoro e testimoniato da documentazione successiva alla sentenza d’appello, non prodotta in quella sede perchè di formazione successiva all’udienza di precisazione delle conclusioni.

2.1. – Anche tale mezzo è inammissibile.

In disparte che la violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 non deriva dal “travisamento” dei costituti processuali, perchè anzi li presuppone così come accertati dal giudice di merito; e che il motivo deduce, altresì, un fatto nuovo (la trasformazione il 15.5.2019 del rapporto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato), sopravvenuto alla sentenza impugnata (pubblicata il 4.4.2019); ciò a parte, il motivo scherma la sollecitazione d’un sindacato di puro merito ad opera di questa Corte. Sindacato non meno, ma viepiù inammissibile per la produzione di nuovi documenti, la cui dedotta formazione successivamente alla sentenza d’appello è del tutto irrilevante ai fini del presente giudizio di legittimità, istituzionalmente non deputato all’accertamento dei fatti sostanziali.

3. – In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17.

4. – Seguono le spese, liquidate come in dispositivo.

5. – Ricorrono i presupposti processuali per il raddoppio, a carico del ricorrente, del contributo unificato, se dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito. Sussistono a carico del ricorrente i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2020

 

 

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