Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20935 del 01/10/2020

Cassazione civile sez. II, 01/10/2020, (ud. 14/07/2020, dep. 01/10/2020), n.20935

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21376-2019 proposto da:

R.M.S., rappresentato e difeso dall’Avvocato LIVIO NERI presso

il cui studio a Milano, viale Regina Margherita 30, elettivamente

domicilia per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, rappresentato e difeso dall’Avvocatura

Generale dello Stato, presso i cui uffici a Roma, via dei Portoghesi

12, domicilia per legge;

– controricorrente –

avverso la SENTENZA n. 117/2019 della CORTE D’APPELLO DI MILANO,

depositata il 14/1/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 14/7/2020 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Milano, con ordinanza in data 20/3/2018, ha respinto, tra l’altro, la domanda di protezione umanitaria proposta da M.S.R., nato in (OMISSIS), sul rilievo che il richiedente non aveva rappresentato condizioni di particolare vulnerabilità mentre le attività svolte dallo stesso e finalizzate al suo radicamento in Italia non costituivano autonomo titolo per il riconoscimento di tale forma di protezione.

L’istante ha proposto appello avverso tale ordinanza invocando, per quanto ancora rileva, il riconoscimento della protezione umanitaria, lamentando il fatto che il tribunale aveva svalutato sia la drammatica crisi socio-economico in cui versa il Paese d’origine, sia l’integrazione ed il radicamento raggiunto in Italia.

La corte d’appello di Milano, con la sentenza in epigrafe, ha respinto l’appello evidenziando, in particolare, l’insussistenza di una condizione di vulnerabilità soggettiva in capo al richiedente sul rilievo, per un verso, che lo stesso “non ha fatto alcun riferimento a situazione di vulnerabilità o a discriminazioni alle quali andrebbe incontro, anche sul piano del rispetto dei diritti umani e di insopprimibili condizioni di vita, in caso di un suo rimpatrio nel paese di origine”, e, per altro verso, che il suo radicamento in Italia, avviato dal ricorrente negli anni di permanenza, come emerge dai contratti, dai listini paga e dalle favorevoli dichiarazioni rilasciate dai colleghi di lavoro, non può di per sè solo porsi, in mancanza degli altri presupposti previsti dalla legge, a fondamento del riconoscimento della richiesta protezione umanitaria, tanto più che lo svolgimento di tirocini formativi e di attività di istruzione, di lavoro e di volontariato è previsto dal D.Lgs. n. 142 del 2015, art. 22 onde consentire allo straniero una vita attiva durante la procedura ed a favorirne l’integrazione sociale anche in vista dell’auspicato esito positivo ma non costituisce, ha concluso la corte, un presupposto per l’accoglimento della domanda di protezione umanitaria.

M.S.R. ha chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza.

Il ministero dell’interno ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda di protezione umanitaria proposta da quest’ultimo omettendo di esaminare e di valutare circostanze decisive ai fini della decisione, come la disponibilità di un reddito da lavoro il cui importo è superiore a quello dell’assegno sociale richiesto dalla normativa vigente per il rilascio di permessi di soggiorno per motivi di lavoro, la conoscenza della lingua italiana, la disponibilità di un alloggio autonomo a seguito della stipula di un contratto di locazione e la sua integrazione nella comunità locale, che gli ha consentito di coltivare importanti relazioni sociali e professionali.

1.2. La corte, inoltre, ha aggiunto il ricorrente, ha anche omesso di considerare che il richiedente ha abbandonato il suo Paese all’età di diciassette anni a causa di un tornado che ha sconvolto la regione nella quale viveva, ha perduto il padre e la casa familiare, proviene da un Paese del quale sono state documentate le notorie violazione dei diritti umani fondamentali ed ha, infine, patito, all’età di soli diciassette anni, le sofferenze connesse alla detenzione dei centri di raccolta libici.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e/o la falsa applicazione del comb. disp. del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 5, comma 6, e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, dell’art. 10 Cost., comma 3, e dell’art. 8CEDU, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto irrilevanti le documentate attività lavorative e formative dello stesso in quanto svolte all’interno del progetto di accoglienza nel quale era inserito.

3.1. I motivi, da esaminare congiuntamente, sono, in parte, inammissibili e, per la residua parte, infondati.

3.2. Intanto, deve considerarsi che, per effetto della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis, oggetto del vizio di cui alla citata norma è soltanto l’omesso esame circa un “fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti”: il mancato esame, dunque, deve riguardare un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un fatto costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (cfr., Cass. n. 16655 del 2011; Cass. n. 7983 del 2014; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017), e non, invece, gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato (o che i fatti storici ivi esposti avrebbero dovuto dimostrare) sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. SU n. 8053 del 2014).

Il “fatto” il cui esame sia stato omesso deve, inoltre, avere carattere “decisivo”, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia, e deve, altresì, essere stato “oggetto di discussione tra le parti”: deve trattarsi, quindi, necessariamente di un fatto controverso, contestato, non dato per pacifico tra le parti.

Nel caso di specie, pertanto, del tutto inammissibili sono le censure svolte dal ricorrente per non avere il tribunale esaminato il fatto, a suo dire decisivo, che lo stesso aveva acquisito una notevole conoscenza della lingua italiana e per aver conseguito una piena autonomia reddituale ed abitativa e, più in generale, per essersi integrato nella comunità locale.

Si tratta, com’è evidente, di fatti secondari volti a dimostrare il fatto principale, che il tribunale ha però esaminato, costituito dall’avvenuto inserimento del richiedente, nel periodo che va dal suo arrivo in Italia fino alla definizione del procedimento di protezione internazionale, nel contesto sociale e lavorativo del Paese ospitante.

3.4. Quanto al resto, rileva la Corte che la protezione umanitaria è, in effetti, una misura atipica e residuale nel senso che essa copre situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l’espulsione e debba provvedersi all’accoglienza del richiedente che si trovi in situazione di vulnerabilità (Cass. 5358 del 2019; Cass. n. 23604 del 2017).

I seri motivi di carattere umanitario o risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, subordina il riconoscimento allo straniero del diritto al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, pur non essendo definiti dal legislatore, prima dell’intervento attuato con il D.L. 113 del 2018, erano, in effetti, accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità personale dello straniero – che spetta al giudice di merito accertare in fatto – derivanti dal rischio di essere immesso nuovamente, in conseguenza del rimpatrio, in un contesto sociale, politico o ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali inviolabili (Cass. n. 4455 del 2018).

Nel caso in esame, il tribunale ha ritenuto insussistente una situazione di vulnerabilità personale, meritevole di tutela, in capo al richiedente il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, non avendo questi fatto alcun riferimento “a situazione di vulnerabilità o a discriminazioni alle quali andrebbe incontro, anche sul piano del rispetto dei diritti umani e di insopprimibili condizioni di vita, in caso di un suo rimpatrio nel paese di origine”.

3.5. Nè, del resto, può a tal fine rilevare, come correttamente ritenuto dalla corte d’appello, l’avvenuto inserimento del richiedente, nel periodo che va dal suo arrivo in Italia fino alla definizione del procedimento di protezione internazionale, nel contesto sociale e lavorativo italiano, anche quando ne sia conseguita la conoscenza della lingua e l’autonomia reddituale (e, quindi, abitativa), il quale, al contrario, in mancanza di una situazione di oggettiva vulnerabilità che direttamente lo investa e ne impedisca il rimpatrio, non può di per sè costituire elemento idoneo a giustificare il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari: non è, quindi, rilevante quanto dedotto dal ricorrente circa la sua integrazione sociale in ragione della buona conoscenza della lingua italiana e dello svolgimento di attività lavorativa in Italia, “trattandosi di profili non rilevanti come presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari”, che consegue, al contrario, come stabilito dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, alla sussistenza di “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano” (Cass. n. 25075 del 2017, in motiv.).

4. Il ricorso, per l’infondatezza di tutti i motivi nei quali risulta articolato, dev’essere, quindi, rigettato.

5. Nulla per le spese di lite in mancanza di reale e idonea attività difensiva da parte del ministero.

6. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile, il 14 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2020

 

 

 

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