Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20924 del 05/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 05/08/2019, (ud. 19/06/2019, dep. 05/08/2019), n.20924

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7044-2015 proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI BARI ALDO MORO, in persona del legale

rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA alla PIAZZA CAVOUR

presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato MARCELLA LOIZZI;

– ricorrente –

contro

G.S.A.I., domiciliata ex lege in ROMA alla

PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE GALLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2867/2014 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 27/11/2014 R.G.N. 1586/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/06/2019 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per inammissibilità, in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato MARCELLA LOIZZI;

udito l’Avvocato GIUSEPPE GALLO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Bari, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda, ha accolto il ricorso proposto da G.S.A.I. nei confronti dell’Università degli Studi di Bari e, dichiarato il diritto dell’appellante ad un trattamento economico corrispondente a quello del ricercatore confermato a tempo definito, ivi inclusi gli adeguamenti triennali, ha condannato l’Ateneo al pagamento delle differenze “fra quanto corrisposto e quanto spettante per il periodo successivo a quello regolato dalla transazione intervenuta tra le parti il 30 marzo 1999, oltre accessori come per legge dalla maturazione al soddisfo”.

2. La Corte territoriale ha evidenziato che con il D.L. n. 2 del 2004 il legislatore, per ottemperare alla sentenza della Corte di Giustizia del 26 giugno 2001, in causa C -212/99, ha riconosciuto all’intera categoria degli ex lettori di madrelingua straniera divenuti collaboratori ed esperti linguistici una retribuzione corrispondente a quella del ricercatore confermato a tempo definito, assunta quale parametro di riferimento pur a fronte dell’espletamento di un’attività non riconducibile alla funzione di docenza. Ha richiamato giurisprudenza di questa Corte per evidenziare che il trattamento economico deve essere riconosciuto anche ai collaboratori in servizio presso Università diverse da quelle espressamente menzionate nella disposizione di legge, e ciò in considerazione del valore di ulteriore fonte del diritto comunitario proprio delle sentenze della Corte di Lussemburgo.

3. Infine il giudice d’appello ha ritenuto inapplicabile la L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, con il quale è stata dettata l’interpretazione autentica del richiamato D.L. n. 2 del 2004 ed è stata altresì prevista l’estinzione dei giudizi in corso, ed ha evidenziato che il diritto della ricorrente traeva origine dalla richiamata sentenza della Corte di giustizia e non si fondava sulla norma di legge, oggetto di interpretazione e riguardante i soli collaboratori delle università indicate nella disposizione.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro sulla base di un unico motivo, articolato in più punti ed illustrato da memoria, al quale G.S.A.I. ha replicato con tempestivo controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso l’Università ricorrente denuncia “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) – violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione alla L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3”. Addebita, in sintesi, alla Corte territoriale di non avere pronunciato sull’eccezione di inammissibilità dell’appello formulata dalla difesa dell’Ateneo, la quale aveva fatto leva sia sulla mancanza di specificità dei motivi di gravame, sia sul sostanziale mutamento della domanda. Sostiene che con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado l’originaria ricorrente aveva rivendicato il livello retributivo del professore associato a tempo definito, facendo valere un suo preteso diritto quesito, e su questa domanda il Tribunale aveva pronunciato, evidenziando le diversità esistenti fra i contratti annuali di lavoro autonomo per prestazione d’opera intellettuale stipulati ai sensi del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28 ed il rapporto instaurato in forza della decretazione di urgenza, disciplinato dalla contrattazione collettiva. Solo in grado d’appello l’ex lettrice, senza censurare in modo specifico le statuizioni della sentenza impugnata, aveva prospettato una diversa causa petendi, invocando l’applicazione del D.L. n. 2 del 2004. La Corte territoriale, pertanto, avrebbe dovuto accogliere l’eccezione, sulla quale, invece, non aveva pronunciato.

1.1. L’Università, inoltre, evidenzia che contraddittoriamente la Corte barese, da un lato ha ritenuto che il trattamento retributivo spettante alla G. dovesse essere quello riconosciuto agli ex lettori divenuti collaboratori linguistici dal D.L. n. 2 del 2004, dall’altro ha affermato l’inapplicabilità della L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, con il quale il legislatore ha dettato l’interpretazione autentica del richiamato D.L. n. 2 del 2004, art. 1 prevedendo l’estinzione del giudizio, estinzione che andava dichiarata d’ufficio anche nella fattispecie.

2. Il ricorso, nella parte in cui addebita alla Corte territoriale l’omessa pronuncia sull’eccezione processuale sollevata in grado d’appello, presenta plurimi profili di inammissibilità.

Il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo riformulato dalla L. n. 134 del 2012, di conversione del D.L. n. 83 del 2012, applicabile alla fattispecie ratione temporis (la sentenza impugnata è stata depositata il 27.11.2014), attiene all’omesso esame di un “fatto”, oggetto di discussione fra le parti e decisivo ai fini di causa, e non può essere confuso con l’omessa pronuncia, rilevante ex art. 112 c.p.c.. Nel primo caso, infatti, “l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia”; nell’altra ipotesi, invece, “l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa e, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello” (Cass. n. 1539/2018).

2.1. E’ stato, inoltre, precisato che “il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c. se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte.” (Cass. n. 321/2016 e negli stessi termini Cass. nn. 1876 e 6174 del 2018).

2.2. L’error in procedendo, asseritamente commesso dalla Corte territoriale, doveva essere fatto valere dall’Università ricorrente mediante la denuncia di violazione dell’art. 434 c.p.c., che andava formulata nel rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4.

La giurisprudenza di questa Corte, infatti, è consolidata nell’affermare che, anche qualora venga dedotto un error in procedendo, rispetto al quale la Corte è giudice del “fatto processuale”, l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012).

La parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, non essendo consentito il rinvio per relationem agli atti del giudizio di merito, perchè la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (Cass. n. 15367/2014; Cass. n. 21226/2010).

Dal principio di diritto discende che, qualora, come nella fattispecie, il ricorrente assuma che l’appello doveva essere dichiarato inammissibile per difetto della necessaria specificità dei motivi di impugnazione, la censura potrà essere scrutinata a condizione che vengano riportati nel ricorso, nelle parti essenziali, la motivazione della sentenza di primo grado e l’atto di appello.

Non è, pertanto, sufficiente la parziale trascrizione dei motivi di gravame che si legge alle pagine da 23 a 25, perchè si ignora quali fossero le ragioni per le quali il Tribunale aveva ritenuto di dover respingere la domanda (nell’esposizione dei fatti di causa la ricorrente si limita ad affermare che “…il Tribunale di Bari, condividendo appieno il percorso argomentativo/motivazionale sviluppato dall’Università di Bari odierna ricorrente, rigettava integralmente il ricorso e compensava le spese di lite”) e, quindi, non è possibile verificare ex actis l’asserita insussistenza della necessaria correlazione fra statuizione e motivo di censura.

3. L’Università denuncia, poi, la violazione della L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, ed addebita alla Corte territoriale di avere contraddittoriamente, da un lato, ritenuto che il trattamento economico da riservare agli ex lettori fosse quello previsto dal D.L. n. 2 del 2004, dall’altro escluso che potesse operare l’estinzione del giudizio prevista dalla norma richiamata in rubrica, che del D.L. n. 2 del 2004 aveva fornito l’interpretazione autentica.

Il motivo non può trovare accoglimento, perchè l’invocata estinzione del giudizio non poteva operare nella fattispecie, sia pure per ragioni diverse da quelle indicate nella decisione gravata, della quale va corretta la motivazione ex art. 384 c.p.c., comma 4.

Le Sezioni Unite di questa Corte con la recente sentenza n. 19164/2017, in continuità con l’orientamento già espresso da Cass. nn. 10452 e 19190 del 2016, hanno evidenziato che la previsione processuale contenuta nel richiamato art. 26 si pone in stretta correlazione con la disciplina delle pretese sostanziali, sicchè non devono essere dichiarati estinti tutti i processi intentati dagli ex lettori nei confronti delle università, ma solo quelli nei quali rilevi il nuovo assetto dato dal legislatore alla materia, senza che ne derivi una vanificazione dei diritti azionati.

E’, quindi, imprescindibile che la pretesa fatta valere in giudizio sia esattamente coincidente con quanto stabilito dalla norma di interpretazione autentica in merito alla quantificazione del trattamento economico spettante agli ex lettori.

L’esegesi della disposizione, infatti, deve essere orientata alla salvaguardia del diritto di azione, costituzionalmente garantito, sicchè l’estinzione può operare solo “in ragione, del pieno riconoscimento a favore degli ex lettori di madrelingua straniera del bene della vita al quale i medesimi aspirano con la proposizione del contenzioso” (Corte Cost. n. 38/2012).

3.1. Nella fattispecie l’originaria ricorrente aveva agito in giudizio, riproponendo la domanda in grado di appello, per ottenere la condanna dell’Università “a corrispondere il livello retributivo maturato in sede di assunzione a tempo determinato (e cioè a quello di professore associato a tempo definito o, in subordine,…a quello del ricercatore confermato)” e le conseguenti differenze retributive “con esclusione del periodo 1.11.1986 – 10.11.1994 già definito da precedente transazione”, sicchè risulta evidente la non coincidenza della pretesa con il trattamento retributivo riconosciuto dal D.L. n. 2 del 2004, come interpretato autenticamente dalla L. n. 240 del 2010.

4. Escluso, quindi, che potesse operare nella fattispecie l’estinzione del giudizio, va detto che l’ulteriore e diverso profilo di violazione della L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, dedotto dall’Università con la memoria ex art. 378 c.p.c., non può essere valutato, perchè non prospettato nel ricorso.

Occorre premettere che, anche qualora con il ricorso per cassazione è denunziata violazione e falsa applicazione della legge, è necessario che il ricorrente indichi le argomentazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con la fonte normativa perchè, altrimenti, il motivo, richiederebbe un inesigibile intervento integrativo da parte della Corte di legittimità (Cass. n. 328/2007; Cass. n. 21611/2013; Cass. n. 20957/2014; Cass. n. 635/2015).

Nel caso di specie il ricorso, pur denunciando la violazione della L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3 nella sua interezza, riferisce la violazione stessa alla sola mancata pronuncia di estinzione e non contiene alcuna argomentazione che consenta di riferire la censura anche al trattamento retributivo riconosciuto dalla Corte d’Appello, in relazione al quale solo in sede di memoria l’Università ha inammissibilmente dedotto il contrasto con la legge di interpretazione autentica.

E’ noto che nel giudizio di legittimità le memorie di cui all’art. 378 c.p.c. sono destinate ad illustrare i motivi dell’impugnazione ed a confutare le tesi avversarie, sicchè con le stesse non possono essere dedotte nuove censure nè sollevate questioni nuove, che non siano rilevabili d’ufficio, e neppure può essere specificato, integrato o ampliato il contenuto dei motivi originari di ricorso (cfr. fra le tante Cass. n. 24007/2017).

5. Il ricorso va, pertanto, rigettato, con conseguente condanna dell’Università ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dalla ricorrente.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Università ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2019

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