Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20920 del 21/07/2021

Cassazione civile sez. II, 21/07/2021, (ud. 17/03/2021, dep. 21/07/2021), n.20920

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16962-2016 proposto da:

A.S., e D.L., rappresentati e difesi, dagli

Avvocati NEVIO BRUNETTA, e ERMANNO PRASTARO, ed elettivamente

domiciliati presso lo studio di quest’ultimo in ROMA, VIA F.

CORRIDONI 23;

– ricorrente –

contro

Comune di NERVESA DELLA BATTAGLIA, in persona del sindaco pro tempore

V.F., rappresentato e difeso dall’Avvocato FERDINANDO

BOSCO, ed elettivamente domiciliato nello studio dell’Avv. Marco

Merlini in ROMA, VIA PASUBIO 2;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 466/2016 della CORTE DI APPELLO di VENEZIA,

pubblicata il 4/03/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/03/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione del 4.12.2008, A.S. e D.L. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna, il Comune di NERVESA DELLA BATTAGLIA, chiedendo che venisse accertato il possesso pubblico, pacifico, continuo e non interrotto, ultraventennale del terreno sito nel Comune di Nervesa della Battaglia (in Catasto al foglio (OMISSIS)) e che venisse accertato l’acquisto per usucapione della piena proprietà del medesimo per la porzione di mq 1000.

Si costituiva in giudizio il Comune di Nervesa della Battaglia, chiedendo, in via preliminare di rito, di dichiarare la nullità della domanda e, nel merito, di respingere la domanda di usucapione; in via riconvenzionale, di condannare gli attori a cessare qualsiasi uso sul fondo e comunque condannare i medesimi a lasciarlo libero da persone e cose; di condannare gli attori al risarcimento dei danni.

Con sentenza n. 91/2013, il Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna, rigettava la domanda di usucapione, condannando gli attori al rilascio del terreno in questione; rigettava la domanda di risarcimento dei danni proposta dal Comune.

Avverso detta sentenza proponevano appello A.S. e D.L., lamentando un’errata valutazione dei fatti e delle prove. Si costituiva l’appellato chiedendo il rigetto del gravame e la conferma della sentenza impugnata.

Con sentenza n. 466/2016, depositata in data 4.3.2016, la Corte d’Appello di Venezia rigettava il gravame. In particolare, la Corte territoriale richiamava la costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la prova dell’intervenuta usucapione deve essere rigorosa, tale da non lasciare spazio a dubbi sull’attendibilità delle circostanze asserite, sulla concludenza e sufficienza delle medesime a dimostrare un comportamento corrispondente all’esercizio della proprietà (Cass. n. 1367 del 1999; Cass. n. 19478 del 2007; Cass. n. 17462 del 2009; Cass. n. 4863 del 2010). La presunzione del possesso in colui che esercita un potere di fatto su una cosa non opera ove la relazione con il bene non consegua a un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore ed è qualificabile come detenzione semplice anche l’attività di colui che continua a disporre della cosa dopo il venir meno del rapporto che giustificava l’anteriore disponibilità (Cass. n. 622 del 1994; Cass. n. 5551 del 2005). Proseguiva la Corte distrettuale che, dagli elementi acquisiti, non risultava che gli attori avessero compiuto degli atti (collocabili temporalmente oltre il ventennio) che potessero manifestare inequivocabilmente al proprietario il mutamento del loro animus, giacché l’attività materiale dagli stessi compiuta non era stata tale da rendere riconoscibile all’avente diritto la loro intenzione, ma evidenziava solamente l’uso che facevano del bene. Nella fattispecie, risultava documentalmente che il mappale (OMISSIS) oggetto di usucapione (già mapp. (OMISSIS)) fosse già in uso di A.C. (rispettivamente padre e suocero degli attori e loro dante causa) in virtù di contratto di affitto con l’E.C.A. (Ente Comunale Assistenza), per cui l’uso sul terreno in oggetto iniziava come detenzione. Successivamente, A.C. si accordava con l’E.C.A., per cui al medesimo venivano ceduti un fabbricato e un terreno (mappale (OMISSIS), di mq 1440, ossia l’originario mapp. (OMISSIS), privato della parte costituita dal mapp. (OMISSIS), come da frazionamento del 1975). A.C. rilasciava i terreni oggetto del contratto di affitto, ma gli veniva consentito di continuare nella coltivazione del terreno, a suo rischio e senza pretese di indennizzo, finché l’Ente proprietario non ne avesse richiesta la graduale disponibilità. Tale accordo dell’11.10.1977 era ratificato dal successivo proprietario dei beni, il Comune di Nervesa della Battaglia, con Delib. 5 dicembre 1978. Il rogito del 20.12.1979 richiamava tutti gli atti precedenti. Era pertanto evidente che l’uso del mappale (OMISSIS) iniziava e continuava come detenzione. Laddove, come correttamente rilevato dal Giudice di primo grado, le prove testimoniali confermavano che l’utilizzo del mappale in questione da parte degli attori fosse avvenuto per tolleranza del Comune. Inoltre, tra i fondi degli appellanti (mappali (OMISSIS) e (OMISSIS)) e il mapp. (OMISSIS), questi ultimi avevano collocato una recinzione, che non sarebbe stata necessaria se essi avessero considerato il fondo in questione come proprio. Infine, gli appellanti non avevano mai pagato l’ICI sul suddetto fondo, a riprova del fatto che i medesimi non si consideravano proprietari del terreno.

Avverso la sentenza propongono ricorso per cassazione A.S. e D.L. sulla scorta di cinque motivi. Resiste il Comune con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato rispettiva memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la “Falsa applicazione di una norma di diritto, ovvero dell’art. 1141 c.c., quale conseguenza della violazione di norme di diritto, ovvero degli artt. 1362,1366 e 1371 c.c.”. L’errore commesso dalla Corte d’Appello sarebbe stato quello di avere applicato alla fattispecie l’art. 1141 c.c., comma 2, partendo così dal presupposto che l’uso dell’immobile di cui al mapp. (OMISSIS) fosse iniziato come detenzione da parte della famiglia Anatole e non invece come possesso animo domino; e che, ai fini dell’accoglimento dell’appello, sarebbe stato necessario che gli appellanti avessero fornito la prova della sopravvenuta interversione del possesso, che rendesse evidente che i detentori continuavano a fruire dell’immobile senza il consenso del proprietario. La Corte di merito avrebbe altresì errato nell’interpretazione del contratto di cessione d’immobile e di risoluzione del contratto d’affitto stipulato tra il Comune di Nervesa della Battaglia e A.C. il 20.12.1979, a causa della violazione delle norme di diritto relative ai canoni ermeneutici dettati dal legislatore ai fini dell’interpretazione del contratto (artt. 1362,1366 e 1371 c.c.).

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – I ricorrenti non contestano l’esistenza di un fatto (risoluzione del contratto d’affitto e uso del terreno in capo a A.C. anche dopo la cessazione dell’affitto), ma lamentano le conseguenze giuridiche derivanti da tale fatto (giacché deve ritenersi detentore chi continua semplicemente ad usare un bene anche dopo la cessazione del rapporto che giustificava l’anteriore disponibilità). Si evidenzia, dunque, che dette conseguenze giuridiche dedotte dalla Corte veneziana sono da ritenersi legittime in quanto il possesso può essere ottenuto: a) o a titolo originario, in contrasto (spoglio) o in carenza della volontà (occupazione) del titolare del diritto: il nuovo possessore opera un atto di apprensione, in conseguenza del quale l’uso deve presumersi avvenire come possesso in forza dell’art. 1141 c.c., comma 1; b) o a titolo derivativo, con la volontà di chi sia titolare del diritto o di un terzo, ossia per consegna: in questo caso trova applicazione l’art. 1141 c.c., comma 2, per cui l’uso costituisce detenzione sino a eventuale atto di interversione. Pertanto, mancando un atto di apprensione iniziale, l’uso non può che continuare come detenzione (Cass. n. 622 del 1994; Cass. n. 5551 del 2005).

In tema di interpretazione del contratto, l’accertamento, anche in base al significato letterale delle parole, della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio (cfr. Cass. n. 18509 del 2008), si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità soltanto per vizio di motivazione (Cass. n. 1646 del 2014), nel caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).

Per sottrarsi al sindacato di legittimità, infatti, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni, sì che quando di una clausola contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 8909 del 2013; Cass. n. 2(OMISSIS)9 del 2009; Cass. n. 15604 del 2007; Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 17248 del 2003).

Correttamente e coerentemente, dunque, il Giudice d’appello aveva negato la domanda di usucapione da parte dei ricorrenti, in quanto il loro dante causa, che già usava il terreno come affittuario, aveva continuato a usarlo come detentore in assenza di atti di interversione. Nella fattispecie, l’impegno pattuito dai ricorrenti, dapprima affittando dall’ECA il fondo de quo e quindi cedendolo al Comune a seguito della risoluzione del contratto di affitto inter partes, dimostrano come tale condotta fosse logicamente incompatibile con la configurabilità di un animus possidendi del bene in capo ai ricorrenti; e come sarebbe stato necessario che gli appellanti avessero fornito la prova della sopravvenuta interversione del possesso, che rendesse evidente che i detentori continuavano a fruire dell’immobile senza il consenso del proprietario.

2. – Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono l'”Omesso esame circa fatti decisivi del giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, ovvero la destinazione urbanistica del terreno, così come risulta dalla relazione dell’arch. B., confermata dalla Delib. del Consiglio Comunale 5 dicembre 1978, in quanto prove documentali incompatibili e contrastanti rispetto alle prove orali e testimoniali di parte convenuta e conseguente violazione dell’art. 1158 c.c.”. I ricorrenti criticavano, altresì, la Corte di merito là dove aveva osservato che il Giudice di primo grado aveva rilevato che le prove testimoniali confermavano che l’utilizzo del mapp. (OMISSIS) era avvenuto per tolleranza del Comune.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – Orbene, va ribadito che l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016). Ne consegue, tra l’altro, che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).

Ciò premesso, è principio consolidato quanto affermato da Cass. n. 11277 del 2015 (secondo cui, in tema di usucapione, per stabilire se un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale sia stata compiuta con l’altrui tolleranza e sia quindi inidonea all’acquisto del possesso, la lunga durata dell’attività medesima può integrare un elemento presuntivo nel senso dell’esclusione della tolleranza qualora non si tratti di rapporti di parentela, ma di rapporti di mera amicizia o buon vicinato, giacché nei secondi, di per sé labili e mutevoli, è più difficile, a differenza dei primi, il mantenimento della tolleranza per un lungo arco di tempo); nonché da Cass. n. 13443 del 2007 (che ritiene che, ai sensi dell’art. 1144 c.c., gli atti di tolleranza, che non possono servire di fondamento all’acquisto del possesso, sono quelli che, implicando un elemento di transitorietà e saltuarietà, comportano un godimento di modesta portata, incidente molto debolmente sull’esercizio del diritto da parte dell’effettivo titolare o possessore e soprattutto traggono la loro origine da rapporti di amicizia o familiarità – o da rapporti di buon vicinato sanzionati dalla consuetudine -, i quali, mentre a priori ingenerano e giustificano la permissio, conducono per converso ad escludere nella valutazione a posteriori la presenza di una pretesa possessoria sottostante al godimento derivatone) (v. anche Cass. n. 1015 del 1996). Così determinandosi l’inversione dell’onere della prova della tolleranza che grava su chi contesti il possesso altrui (Cass. n. 3404 del 2009; Cass. n. 6738 del 2000; Cass. n. 4810 del 2000; Cass. n. 1015 del 1996).

2.3. – Va posto in rilievo che costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; Cass. n. 14014 del 2017; Cass. n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’e’ alcuna idonea e spcifica indicazione.

3. – Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la “Falsa applicazione di una norma di diritto, ovvero dell’art. 1144 c.c. in combinato disposto con l’art. 1141 c.c., comma 2 ” avendo omesso, la Corte di merito, di considerare l’ulteriore fatto decisivo, idoneo a dimostrare che la famiglia A. avesse iniziato a utilizzare il terreno in questione con animus detinendi, in quanto gli episodi riportati si riferiscono al periodo relativo allo svolgimento del loro incarico come amministratori comunali e quindi sono posteriori rispetto alla data in cui la famiglia A. aveva iniziato a possedere il terreno in oggetto. Erra la Corte quando afferma che la famiglia A. avrebbe dovuto dimostrare l’avvenuta interversione del possesso, in quanto fin dall’origine ha iniziato a possedere animo domino il bene in questione. Censurandosi altresì anche la falsa applicazione dell’art. 1144 c.c. in combinato disposto con l’art. 1141 c.c., comma 2, secondo la quale gli atti di tolleranza rilevano come ragione ostativa all’acquisto del possesso, ma non incidono su un possesso già costituito (Cass. n. 16956 del 2002).

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Il controllo affidato alla Corte non può equivalere, dunque, alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; nonché Cass. n. 25332 del 2014).

Quanto, poi, alla affermazione secondo la quale “gli atti di tolleranza rilevano come ragione ostativa all’acquisto del possesso, ma non incidono su un possesso già costituito” (Cass. n. 16956 del 2002) essa non trova applicazione nell’odierno giudizio, nell’ambito del quale non si controverte in ordine alla natura ed all’acquisto del possesso de quo. Nella specie, poi, tale presupposto di fatto non esisteva, in quanto sin dall’inizio l’uso avveniva per tolleranza, come specificato dal Tribunale (pag. 6 sentenza) e come confermato dal Giudice d’appello (pag. 8 sentenza).

3. – (rectius 3.bis) Con il motivo 3.bis, i ricorrenti deducono l'”Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, ovvero fatti rilevanti ai fini della prova dell’animus possidendi uti dominus in capo agli odierni ricorrenti e riferiti dai testi di parte attrice”.

3.1. – (rectius 3.1.bis) Il motivo è inammissibile.

3.2. – (rectius 3.2.bis) Si configura la totale carenza dei requisiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5: oltre a quella del quando tali circostanze sarebbero state discusse, manca la spiegazione della loro decisività, in quanto sono tutte circostanze (deposito di bombole del gas, uso di un vigneto, coltivazione di un orto) riguardanti le modalità d’uso del fondo, ma che non riguardano l’animus possidendi.

Va affermata la carenza di specificità degli stessi motivi di ricorso, che (ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4) devono contenere le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza impugnata. Se è vero che l’indicazione dei motivi non necessita dell’impiego di formule particolari, essa tuttavia deve essere proposta in modo specifico, vista la sua funzione di determinare e limitare l’oggetto del giudizio della Corte (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014). Ciò richiede che i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbano avere i caratteri della specificità, della completezza e della riferibilità alla decisione stessa (Cass. n. 14784 del 2015; Cass. n. 13377 del 2015; Cass. n. 22607 del 2014). E comporta, tra l’altro, l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto (Cass. n. 23804 del 2016; Cass. n. 22254 del 2015).

4. – Con il quarto rinvio, i ricorrenti censurano la “inammissibilità per totale carenza dei requisiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5: oltre alla carenza del come e del quando tali circostanze sarebbero state discusse, manca la spiegazione della loro decisività, in quanto sono tutte circostanze (deposito di bombole del gas, uso di un vigneto, coltivazione di un orto) riguardanti le modalità d’uso del fondo, ma che non riguardano l’animus possidendi.

4.1. – (recte 3.bis) Il motivo è inammissibile.

4.2. – I ricorrenti vorrebbero far derivare l’inattendibilità dei testi dall’incarico dagli stessi rivestito quali dipendenti dell’Ente, mentre essa non può essere aprioristica e per categorie di soggetti (in tal senso, Cass. n. 19215 del 2015, per la quale la valutazione sull’attendibilità di un testimone ha ad oggetto il contenuto della dichiarazione resa e non può essere aprioristica e per categorie di soggetti, al fine di escluderne ex ante la capacità a testimoniare). La capacità di testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza di un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, ecc.) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità (Cass. n. 21239 del 2019). Laddove, la censura è inammissibile, poiché il giudizio di inattendibilità del teste riguarda le prove e, come tale, attiene al merito e può essere censurato in sede di legittimità solo ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Quanto poi alla presunta mancata rilevazione della pretesa inattendibilità dei testi, per avere questi ultimi (ad opera del Comune) asseritamente violato la L. n. 241 del 1990, valgono le stesse considerazioni appena opposte, in parte qua; rispetto alle quali non è dato comprendere come l’ipotetica violazione della citata normativa avrebbe potuto portare i ricorrenti a riconoscere l’animus possidendi.

5. – Con il quinto motivo, i ricorrenti lamentano l'”Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, ovvero: a) omesso esame circa la reale ratio della recinzione posta tra i terreni mappali (OMISSIS) e (OMISSIS) da un lato e il mappale (OMISSIS) dall’altro; b) omesso esame circa la reale ratio del mancato pagamento dell’ICI da parte degli A. sul terreno di cui al mapp. (OMISSIS); c) omesso esame del certificato del Catasto terreni in cui il mapp. (OMISSIS) risulta intestato alla famiglia A.; d9 omesso esame della questione relativa al progetto per un centro anziani.

5.1. – Il motivo è inammissibile.

5.2. – Va ribadito che il novellato paradigma di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 consente di denunciare in cassazione (oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante) solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 14014 del 2017; Cass. n. 9253 del 2017).

A seguito della riforma del 2012 è scomparso pertanto, il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, rimanendo il controllo circa la esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e la coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre che il vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza impugnata. Detto controllo concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., sez. un., n. 19881 del 2014).

6. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento in favore del controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 17 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021

 

 

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