Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20916 del 17/10/2016

Cassazione civile sez. III, 17/10/2016, (ud. 13/06/2016, dep. 17/10/2016), n.20916

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20104-2013 proposto da:

G.R., (OMISSIS), domiciliata ex lege in ROMA, presso

la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato SALVATORE ARMENIO giusta procura speciale a margine

del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA, in persona del suo procuratore Dott.

L.G.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FABIO

MASSIMO 60, presso lo studio dell’avvocato ENRICO CAROLI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCA CICOGNANI giusta

procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

P.B.E., R.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1562/2012 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 18/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/06/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LUCIANA BARRECA;

udito l’Avvocato LETIZIA CAROLI per delega;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO Gianfranco che ha concluso per inammissibilità in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. G.R. citò in giudizio dinanzi al Tribunale di Bologna, per un sinistro stradale accaduto il (OMISSIS), R.A. e Unipol Assicurazioni S.p.A, in qualità di proprietario ed assicuratore per la r.c.a. dell’autovettura FIAT Palio, che, condotta da R.S., aveva, secondo la ricorrente, effettuato una repentina manovra di immissione lungo la corsia di marcia normale dell’autostrada (OMISSIS), provenendo dalla corsia di emergenza e provocando l’impatto con l’autovettura FIAT Panda da lei condotta, e di proprietà di P.E.B., che sopraggiungeva sull’autostrada. L’attrice dedusse che, a causa dell’urto violento tra i due mezzi, aveva riportato gravissime lesioni personali (per le quali si era proceduto penalmente nei confronti di R.S., successivamente assolto per insufficienza di prove sull’elemento della colpa) e chiese il risarcimento dei danni alla persona.

Costituitasi in giudizio la convenuta compagnia di assicurazioni, il Tribunale, dopo aver disposto una consulenza tecnica d’ufficio cinematica, con sentenza n. 172/2012, rigettò la domanda e condannò l’attrice al pagamento delle spese di lite in favore di Unipol.

2. La G. propose appello chiedendo l’integrale riforma della sentenza di primo grado. Nel giudizio d’appello intervenne il proprietario dell’autovettura, P.B., che, in adesione ai motivi di gravame, chiese la condanna dei convenuti in solido al risarcimento dei danni materiali subiti. Rimasto contumace l’altro appellato, si costituì Unipol Assicurazioni s.p.a., contestando i motivi d’appello e chiedendo il rigetto del gravame.

Con la decisione ora impugnata, pubblicata il 18 aprile 2013, la Corte d’Appello di Bologna ha confermato la sentenza di primo grado, ricostruendo la dinamica del sinistro nel senso che l’autovettura condotta dalla G. tamponò l’autovettura di proprietà R., che la precedeva nella marcia lungo la corsia dell’autostrada. Ha, in particolare, condiviso le conclusioni del CTU e del primo giudice circa l’incompatibilità della dinamica dell’incidente come descritta dall’attrice, poi appellante, “con i riscontri oggettivi desumibili sia dalle caratteristiche dei danni riportati dai mezzi e dalla posizione post urto (…) sia dall’assenza di tracce di frenata oltre che dalla perfetta visibilità (…) esistente al momento del sinistro in loco”. Una volta accertato che l’incidente si era verificato quando le due autovetture si trovavano una dietro l’altra, ha escluso l’applicabilità dell’art. 2054 c.c., comma 2, ed ha ritenuto applicabile l’art. 149 C.d.S., affermando perciò la responsabilità esclusiva dell’appellante. Ha condannato quest’ultima e l’intervenuto al pagamento, in solido, delle spese del secondo grado di giudizio, complessivamente liquidate nell’importo di Euro 5.370,00, oltre accessori di legge.

3. Avverso la sentenza G.R. e P.B.E. propongono ricorso affidato a tre motivi.

UNIPOL Assicurazioni SpA si difende con controricorso.

L’altro intimato non si difende.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo si deduce “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione di norme di diritto, e segnatamente, dell’art. 1306 c.c., art. 2054 c.c., comma 2, art. 2909 c.c. nonchè degli art. 140, 141, 145, 149 e 154 C.d.S. e degli artt. 652 e 654 c.p.p.; art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: nullità della sentenza, in relazione fra l’altro, all’art. 115 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 354 c.p.p., per mancanza e contraddittorietà della motivazione; art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: nullità, di nuovo, della sentenza per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, già oggetto di discussione fra le parti.

I ricorrenti svolgono una lunga illustrazione nell’ambito della quale censurano, in primo luogo, la sentenza impugnata per essersi attenuta alle conclusioni del CTU, che non avrebbero tenuto in conto i contrari rilievi del consulente tecnico di parte attrice (in particolare, quanto al disassamento rispetto all’asse stradale del veicolo del R. al momento dell’urto); per non avere escluso che questo veicolo si fosse immesso sulla direttrice dell’auto condotta dalla ricorrente e malgrado ciò aver ricondotto il sinistro ad un tamponamento, che invece presupporrebbe la marcia di veicoli incolonnati; per avere omesso il giudice la lettura degli atti, ed in particolare degli atti del processo penale relativi alla posizione di R.S. (per come sarebbe desumibile dal fatto che il convenuto R.A. è indicato in sentenza anche come conducente dell’autovettura, oltre che proprietario, mentre al momento dell’incidente l’auto era condotta dal figlio S.).

Passano quindi a censurare la sentenza di primo grado e ad analizzare le risultanze del rapporto di incidente stradale della Polstrada di Palermo (esponendo come con gli scritti difensivi nei gradi di merito ne fossero state evidenziate le lacune e fosse stata criticata la contravvenzione per eccesso di velocità, che ne era derivata nei confronti della G.), onde dimostrare la mancanza di motivazione della sentenza basata su un verbale che si assume, a sua volta, lacunoso.

Svolgono poi ampie critiche ai ragionamenti ed alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio (sulle quali ritornano nel prosieguo avvalendosi anche delle risultanze delle consulenze tecniche di parte, già presenti nel primo grado di giudizio, una delle quali interamente riprodotta in ricorso tra la pag. 41 e la pag. 42).

Richiamato l’intero contenuto dell’atto di appello, tornano ad occuparsi della sentenza di secondo grado, lamentandone le insufficienze motivazionali per essersi la Corte d’appello riportata “passivamente” alla prima sentenza, alla relazione di Ctu ed al rapporto di polizia, ignorando totalmente gli sviluppi e le risultanze della vicenda in sede penale, come pure i relativi atti e documenti. Da tali vizi di motivazione i ricorrenti fanno discendere le violazioni di legge attinenti principalmente alla mancata applicazione della presunzione di colpa di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, ed all’applicazione dell’art. 149 C.d.S., che assumono essere norma non applicabile; nonchè agli artt. 2909 e 1306 c.c., per la violazione del giudicato penale, che sarebbe opponibile anche agli obbligati in solido col conducente, cui la sentenza penale di assoluzione è riferita.

Citano, infine, giurisprudenza di legittimità e di merito concernente le fattispecie del tamponamento e dell’immissione nel flusso della circolazione, provenendo da aree private o da corsie di emergenza, nonchè giurisprudenza in materia di vizi motivazionali della sentenza e relativo controllo in sede di legittimità.

Col secondo motivo si deduce “art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 5: violazione di legge processuale e omessa motivazione circa la mancata ammissione della prova testimoniale articolata dalla ricorrente e concernente le responsabilità, quanto al capitolo 1, nonchè il danno quanto ai capitoli successivi. I ricorrenti lamentano che il giudice d’appello non abbia indicato le ragioni per le quali non ha ammesso la prova testimoniale.

2. I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, non meritano di essere accolti.

Il secondo è inammissibile in quanto non illustra le ragioni per le quali la prova (per la gran parte vertente sui danni) sarebbe stata decisiva ai fini della ricostruzione del dinamica dell’incidente. Per di più, siffatta decisività ben può essere esclusa per tabulas, atteso che l’unico motivo pertinente attiene allo “stato dei veicoli subito dopo il sinistro de quo in relazione alle fotografie dimesse in atti: all’evidenza, come osserva la resistente, si tratta di un dato di fatto del tutto incontestato.

3. La ricostruzione della dinamica del sinistro – unica questione rilevante ai fini della decisione – è basata – in mancanza di testimoni presenti al momento dell’incidente – sui rilievi effettuati dai verbalizzanti giunti dopo che si era verificato, e sulla consulenza tecnica d’ufficio cinematica.

I ricorrenti lamentano, ripetutamente e sotto vari aspetti, la mancata considerazione, da parte dei giudici di merito, degli esiti del processo penale svoltosi nei confronti di R.S.. Tuttavia, le corrispondenti censure risultano inammissibili: per un verso, non è affatto esplicitato in ricorso quali sarebbero gli elementi ulteriori e decisivi che il giudice civile avrebbe potuto trarre dagli atti del processo penale al fine di ricostruire diversamente il sinistro; per altro verso, il ricorso non indica il contenuto detti atti processuali.

3.1. Quanto alla sentenza di assoluzione nei confronti del conducente dell’autovettura antagonista, è da escludere l’efficacia di giudicato, sostenuta dai ricorrenti con la denuncia della violazione dell’art. 2909 c.c. e degli artt. 652 e 654 c.p.c.: l’art. 652 c.p.c. è inapplicabile in quanto l’assoluzione è stata pronunciata perchè il fatto non costituisce reato; l’art. 654 c.p.c., a sua volta, è norma che non opera nel caso di specie, poichè la sentenza penale è stata resa nei confronti di imputato diverso (il conducente) dagli originari convenuti in sede civile (proprietario e responsabile civile, non presenti nel processo penale); ed ancora, è incontestato che l’odierna ricorrente non sia stata ammessa alla costituzione di parte civile in sede penale. La denunciata violazione di legge non sussiste.

4. Parimenti insussistente è la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 poichè la motivazione non è omessa nè apparente.

Tutte le altre doglianze concernenti l’errato apprezzamento dei fatti da parte del giudice di merito sono inammissibili.

L’inammissibilità consegue al principio – affermato già con riferimento al testo previgente dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – per il quale in materia di responsabilità da sinistri derivanti dalla circolazione stradale, la ricostruzione delle modalità del fatto generatore del danno, la valutazione della condotta dei singoli soggetti che vi sono coinvolti, l’accertamento e la graduazione della colpa, l’esistenza o l’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, integrano altrettanti giudizi di merito, come tali sottratti al sindacato di legittimità se il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico (Cass. 1028/12, nonchè, tra le altre, Cass. n. 4009/06). A maggior ragione, le censure dei ricorrenti risultano inammissibili dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

La valutazione delle risultanze del rapporto d’incidente della polizia stradale e dei rilievi effettuati dai verbalizzanti, nonchè degli esiti della consulenza tecnica d’ufficio, non può essere sindacata da questa Corte se non in caso di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ai sensi dell’art. 360, n. 5, nel testo attuale (come sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma, lett. b, convertito nella L. n. 134 del 2012), applicabile al presente ricorso in quanto la sentenza impugnata è stata resa pubblica il 18 aprile 2013.

Questa Corte ha già avuto modo di precisare che la norma da ultimo citata introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (così Cass. S.U. n. 8053/14).

4.1. Nella specie, nessuno dei “fatti” sui quali si appunta il ricorso è riconducibile alla previsione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Sono insignificanti le censure mosse all’operato dei verbalizzanti della Polizia Stradale, non avendo alcuna rilevanza in sede civile il disposto dell’art. 354 c.p.p., la cui violazione è pure denunciata nella rubrica del primo motivo. Il giudice civile non avrebbe potuto fare altro che avvalersi – così come ha fatto – di tutto quanto accertato e riportato nel verbale di incidente stradale, demandando al consulente tecnico d’ufficio la lettura dei dati oggettivi da questo risultanti e le conseguenti valutazioni tecniche. Degli uni e delle altre si è avvalsa la Corte di merito quando ha affermato che, al momento dell’urto, le autovetture si trovavano una dietro l’altra e che l’incidente è accaduto perchè l’autovettura Fiat Panda condotta dalla ricorrente investì la Fiat Palio condotta dal R. che la precedeva nella marcia lungo la corsia normale dell’autostrada. E’ vero che, in punto di fatto, il giudice non ha escluso – come sottolineano i ricorrenti – che il R. si fosse immesso nella corsia di marcia provenendo dall’area di emergenza; ma non ha nemmeno accertato che vi si fosse immesso contestualmente al sopraggiungere dell’autovettura condotta dalla G. e/o repentinamente, come da quest’ultima sostenuto (anzi, facendo propri gli accertamenti del tecnico d’ufficio, la Corte ha escluso la repentinità dell’immissione).

5. Dato quanto sopra in punto di fatto, risulta correttamente applicato l’art. 149 C.d.S., e correttamente esclusa la presunzione di pari concorso di colpa di cui all’art. 2054 c.c., comma 2.

La giurisprudenza di questa Corte è nel senso che il conducente di un veicolo deve essere in grado di garantire in ogni caso l’arresto tempestivo del mezzo, evitando collisioni con il veicolo che precede, per cui l’avvenuto tamponamento pone a carico del conducente medesimo una presunzione “de facto” di inosservanza della distanza di sicurezza. Ne consegue che, esclusa l’applicabilità della presunzione di pari colpa di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, egli resta gravato dall’onere di dare la prova liberatoria, dimostrando che il mancato tempestivo arresto dell’automezzo e la conseguente collisione sono stati determinati da cause in tutto o in parte a lui non imputabili (così, da ultimo, Cass., 18 marzo 2014, n. 6193).

E’ vero che si è affermato che la presunzione de facto di mancato rispetto della distanza di sicurezza viene meno nel caso del tamponamento in danno di un veicolo che costituisca un ostacolo imprevedibile e anomalo al normale andamento della circolazione stradale (vedi Cass., 19 dicembre 2006, n. 27134) e che anche nelle ipotesi di collisione da tergo deve essere valutata in modo comparativo la condotta di entrambi i conducenti, con la conseguenza che l’obbligo di rispettare la distanza di sicurezza deve essere calcolato in previsione della normale marcia dei veicoli e non di improvvisi, anomali ed imprevedibili ostacoli (così Cass., 21 agosto 1992, n. 9727), quale potrebbe essere l’immissione improvvisa di un veicolo nel percorso di quello sopraggiungente, ovvero il ritorno imprevedibile in carreggiata di un veicolo fuoriuscito dalla sede stradale.

Tuttavia, spetta al conducente del veicolo che si trova a marciare dietro quello che viene investito dare la prova della sussistenza di situazioni quali quelle suddette, idonee ad escludere la presunzione di colpa dell’art. 149 C.d.S. ed a comportare quanto meno un concorso di colpa nella causazione del sinistro da parte dei soggetti in esso coinvolti.

5.1. Quindi, l’onere della prova della repentinità dell’immissione in carreggiata da parte della Fiat Palio gravava sulla danneggiata, conducente della Fiat Panda che si trovava a marciare dietro quando l’incidente accadde -come ritenuto dalla Corte d’appello.

La lacuna istruttoria circa il comportamento tenuto dal conducente della Fiat Palio prima di trovarsi davanti alla Fiat Panda condotta dalla G. va a discapito di quest’ultima.

L’unico elemento significativo addotto a proprio favore dalla odierna ricorrente è costituito dall’accertamento del proprio tecnico di parte, secondo cui il veicolo condotto dal R., al momento dell’incidente, non si sarebbe trovato perfettamente in linea con l’asse della corsia di marcia: ciò, che avrebbe dovuto indurre a ritenere che vi si stesse immettendo, in violazione dell’art. 176 C.d.S. Tuttavia, trattasi di dato fattuale – in sè – smentito dal consulente tecnico d’ufficio, che pur ha tenuto conto delle obiezioni del tecnico di parte e le ha disattese, trovando riscontro nell’apprezzamento sia del Tribunale che della Corte d’appello.

In proposito, non può che essere ribadito – a maggior ragione dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 di cui si è detto sopra – che il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l’obbligo della motivazione con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, e non deve necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perchè incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive (così, da ultimo, Cass. ord. n. 1815/15).

Corretta è in diritto la conclusione del giudice di non ritenere assolta da parte della G. la prova liberatoria dall’anzidetta presunzione de facto, consistente nella dimostrazione che il mancato tempestivo arresto del veicolo, condotto dalla ricorrente, che sopraggiungeva sulla normale corsia di marcia autostradale, e la collisione conseguente erano stati determinati da causa non imputabile alla stessa conducente, essendo mancata da parte di quest’ultima la prova che il conducente del veicolo antagonista avesse tenuto una condotta di guida anomala ed, in particolare, inosservante del precetto di cui all’art. 17 C.d.S..

I motivi primo e secondo vanno perciò rigettati.

6. Col terzo motivo si deduce: Art. 360 c.p.c., in relazione all’art. 97 c.p.c.:

violazione di legge e mancanza di motivazione in punto di regolazione delle spese processuali”. Il motivo è riferito alla posizione del ricorrente P.. Questi sostiene l’ingiustizia della condanna in solido alle spese di giudizio perchè l’interesse da lui vantato nel giudizio sarebbe commisurato alla richiesta risarcitoria di Euro 2.000,00, mentre la richiesta dell’altra danneggiata è più di trecento volte superiore. Soggiunge che la solidarietà avrebbe dovuto essere contenuta fino alla concorrenza della addebitabilità al P. del carico in parola.

6.1. Il motivo è infondato.

Il Collegio ritiene che debba essere data continuità all’indirizzo di questa Corte, secondo cui in materia di spese processuali, la condanna di più parti soccombenti al pagamento in solido può essere pronunciata quando vi sia indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, ovvero per comunanza di interessi, che può desumersi anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute, ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi. (così, da ultimo, Cass. n 16056/15, ma nello stesso senso, tra le altre, già Cass. n. 24757/07, n. 17281/11, n. 27562/11).

Questa interpretazione dell’art. 97 c.p.c. si è affermata superando un orientamento risalente nel tempo, espresso dalla massima per la quale in tema di condanna alle spese del giudizio, nella ipotesi di convergenza di atteggiamenti difensivi, il vincolo della solidarietà resta circoscritto nei limiti in cui sussista l’interesse comune, con la conseguente diversa incidenza per la responsabilità delle spese di domande di contenuto notevolmente difforme. In particolare, nel caso di due domande tra loro autonome, e di valore diverso, la solidarietà deve essere rapportata alla misura dell’interesse comune, e cioè a quella delle due domande che, per essere di minor valore, è ricompresa nel valore dell’altra, dovendosi per il resto rispettare il disposto dell’art. 97 c.p.c., comma 1, per il quale il giudice, se le parti soccombenti sono più, condanna ciascuna di esse alle spese in proporzione del rispettivo interesse nella causa (così Cass. n 1628/72). Questo indirizzo è stato fatto proprio da una recentissima decisione di legittimità che ha concluso nel senso che in materia di spese del giudizio, la condanna in solido di più parti soccombenti alla rifusione delle spese di lite, ai sensi dell’art. 97 c.p.c., non è consentita quando i vari soccombenti abbiano proposto domande di valore notevolmente diverso, a nulla rilevando che tutti avessero un interesse comune all’accoglimento delle rispettive domande (così Cass. n. 6976/16).

Il Collegio non condivide le ragioni che sorreggono la decisione, compendiate nell’affermazione per la quale “anche quando le parti soccombenti abbiano un interesse comune, quest’ultimo è misura e limite del vincolo di solidarietà alla rifusione delle spese: nel senso che la solidarietà cessa quando il comune interesse sussista per una parte della domanda e non per il resto”.

Il Collegio ritiene che il vincolo di solidarietà operi o non operi per il solo fatto che l’interesse comune sussista o non sussista, essendo posto nel prevalente interesse della parte vittoriosa nel processo, la quale fondatamente abbia resistito alle comuni pretese o difese della parti soccombenti. In sintesi, non è concepibile una solidarietà “limitata” o commisurata alla “parte della domanda”, essendo irrilevante, nei confronti del creditore, parte vittoriosa in giudizio, che la misura dell’interesse alla causa sia diverso per ciascuna delle parti soccombenti. Ove il giudice di merito abbia ritenuto la sussistenza di un interesse comune ed abbia condannato i soccombenti in solido al pagamento delle spese di lite, la misura dell’interesse di ciascuno (riferibile anche al valore delle singole domande) è rilevante soltanto nei rapporti interni. Questa è la regola espressa, per le obbligazioni solidali, dall’art. 1298 c.c., laddove, prevedendo, al primo comma, che “nei rapporti interni l’obbligazione in solido si divide tra i diversi debitori… salvo che sia stata contratta nell’interesse esclusivo di alcuno di essi”, disciplina proprio la fattispecie – assolutamente frequente – che la “misura” dell’interesse degli obbligati solidali non sia uguale, fino al caso estremo che gli obbligati rispondano in solido anche quando l’interesse sia di uno soltanto dei debitori; cui si aggiunge la presunzione di uguaglianza posta dal comma 2, “se non risulta diversamente”.

In sede processuale va esclusa l’eventualità dell’interesse esclusivo poichè è lo stesso art. 97 c.p.c. a porre il limite dell’interesse “comune”. Tuttavia, non essendo configurabile, per quanto detto sopra, un interesse comune alla causa pro-parte, in caso di condanna solidale al pagamento delle spese processuali, sarà rimesso alla definizione dei rapporti interni (ed all’eventuale azione di regresso) tra condebitori la determinazione della parte di ciascuno.

In conclusione va ribadito che la condanna solidale al pagamento delle spese processuali nei confronti di più parti soccombenti può essere pronunciata non solo quando vi sia indivisibilità o solidarietà del rapporto sostanziale, ma pure nel caso in cui sussista una mera comunanza di interessi che può desumersi anche dalla semplice identità delle questioni sollevate e dibattute ovvero dalla convergenza di atteggiamenti difensivi diretti a contrastare la pretesa avversaria, costituendo una siffatta pronuncia esercizio di una facoltà discrezionale del giudice di merito, secondo un apprezzamento incensurabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato. Con la precisazione che la condanna in solido è consentita anche quando i vari soccombenti abbiano proposto domande di valore notevolmente diverso, purchè accomunate dall’interesse al riconoscimento di un fatto costitutivo comune, rispetto al quale vi sia stata convergenza di questioni di fatto e di diritto.

6.2. Questa situazione indubbiamente ricorre in casi, quale quello di specie, in cui il giudizio si sia fermato alla valutazione della sussistenza dell’unico fatto illecito, produttivo di danni nei confronti di più soggetti, con esclusione della responsabilità dell’unico comune presunto autore. E’ infatti evidente che, in casi come questo, l’intero processo si è svolto nel comune interesse di entrambi gli attori, come ritenuto dalla Corte d’appello di Bologna.

Il terzo motivo di ricorso va perciò rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo, in solido a carico di entrambi i ricorrenti per le ragioni già esposte trattando del terzo motivo.

Avuto riguardo al fatto che il ricorso è stato notificato dopo il 31 gennaio 2013, sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida, in favore della resistente, nell’importo complessivo di Euro 5.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2016

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