Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20916 del 05/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 05/08/2019, (ud. 22/05/2019, dep. 05/08/2019), n.20916

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12827-2018 proposto da:

S.N., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA PRATI

DEGLI STROZZI 22 (Studio Veneto), presso lo studio dell’avvocato

MARIO ASSENNATO, rappresentato e difeso dall’avvocato BELSITO

ANTONIO;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI SAN SEVERO, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 30, presso

ALFREDO PLACIDI, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIO LUCIANO

CARLINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 614/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 13/03/2018 R.G.N. 2762/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/05/2019 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per inammissibilità in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato ANTONIO BELSITO;

udito l’Avvocato MARIO LUCIANO CARLINO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Bari, con la sentenza n. 2762 del 2017, ha rigettato il reclamo proposto da S.N., nei confronti del Comune di San Severo, avverso la sentenza del Tribunale di Foggia che rigettava l’opposizione all’ordinanza del medesimo Tribunale di rigetto della domanda di declaratoria di illegittimità del licenziamento (rette: recesso per mancato superamento del periodo di prova) e di reintegra nel posto di lavoro con condanna a quanto dovutogli a titolo di risarcimento del danno e/o retribuzioni dal licenziamento alla reintegra.

2. Il lavoratore era stato assunto il 30 dicembre 2009 come operatore di Polizia municipale del Comune di San Severo, ed era stato licenziato il 24 giugno 2010 per mancato superamento del periodo di prova.

3. La Corte d’Appello premette che il nucleo della decisione reclamata è costituito dalla affermata legittimità del licenziamento in quanto sottoscritto dal dirigente (e non adottato dalla Giunta comunale), e dall’assenza di prova in ordine all’asserita natura ritorsiva o illecita di detto recesso.

4. La Corte d’Appello ha ricondotto l’atto di recesso agli atti di gestione del personale, che sono adottati dai dirigenti competenti. i quali possiedono i poteri del privato datore di lavoro, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2, e ha affermato la legittimità del recesso in ragione della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il recesso ha natura discrezionale e dispensa il datore di lavoro dall’onere di provarne la giustificazione, mentre è onere del lavoratore dimostrare la contraddizione tra recesso e funzione del patto di prova o anche l’esistenza di un motivo illecito di licenziamento.

Nella specie, il lavoratore non aveva provato l’imputabilità del recesso a ragioni estranee al mancato superamento della prova, nè la sussistenza del motivo illecito, nemmeno a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti.

5. Per la cassazione della sentenza emessa in sede di reclamo ricorre S.N., prospettando tre motivi di impugnazione.

6. Resiste il Comune di San Severo con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, in riferimento alle disposizioni normative inerenti l’applicazione della garanzia della tutela reale in favore dei lavoratori, e di contratti collettivi.

Il lavoratore contesta la ritenuta legittimità del recesso firmato dal dirigente, sia perchè ciò non si potrebbe desumere dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2, sia perchè la sentenza Cass. n. 13455 del 2006, richiamata nella sentenza della Corte di Appello, non avvalorerebbe tale affermazione.

Nel Comune di San Severo, nè lo statuto, nè il regolamento delegano tale potere al dirigente.

Neanche il D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107, e l’interpretazione datane dalla giurisprudenza, riconosce tale potere al dirigente.

Ciò anche considerando che gli artt. 42 e 48 medesimo D.Lgs. riservano alla Giunta comunale ogni potere in ordine all’organizzazione del personale dell’ente.

Al dirigente non è attribuito automaticamente il potere di licenziare il pubblico dipendente senza avere espressa delega in merito, o senza una specifica previsione nello statuto o nel regolamento comunale, in quanto trattasi di atti straordinari di organizzazione del personale che incidono sullo status di pubblico dipendente.

2. Il motivo non è fondato.

2.1. Le assunzioni nell’ambito del pubblico impiego privatizzato, anche se precedute da un contratto di lavoro a termine per il quale sia stata superata la prova, sono “ex lege” assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova, in forza di quanto previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 70, comma 13 e dal D.P.R. n. 487 del 1994, art. 28 non trovando applicazione l’art. 2096 c.c.; l’autonomia contrattuale è abilitata esclusivamente alla determinazione della durata del periodo di prova, nei limiti di quanto previsto dalla contrattazione collettiva D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 2, comma 3, (Cass. n. 26679 del 2018, 21376 del 2018, n. 21586 del 2008).

2.2. La questione della competenza ad adottare l’atto di recesso per mancato superamento del periodo di prova da parte di dipendente del Comune è stato già esaminata da questa Corte che, con la sentenza n. 31091 del 2018, le cui motivazioni si richiamano ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.. ha affermato che gli atti di gestione dei rapporti di lavoro dei dipendenti del Comune sono riservati alla esclusiva competenza del personale che riveste la qualifica dirigenziale, le cui attribuzioni, ai sensi del D.Lgs. n. 297 del 2000, art. 107, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative”.

In parte qua, la disposizione è sovrapponibile a quella che si legge nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 4, comma 3 (a sua volta riproduttiva della disposizione contenuta nel D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 3, comma 3 come modificato dal D.Lgs. n. 29 ottobre 1998 n. 387).

Nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 48, comma 2, non è rinvenibile alcuna deroga alla sfera di competenza dei dirigenti degli enti locali in quanto i poteri della Giunta Comunale sono ritagliati dal D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107 nell’ambito della regola fondamentale della separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo e funzioni di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti.

Va anche osservato che il D.Lgs. n. 267 del 2000 contiene numerose disposizioni che garantiscono all’apparato burocratico amministrativo di operare nel rispetto dei principi di imparzialità efficienza e legalità e nell’ambito del principio di separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo rispetto alle funzioni di gestione amministrativa.

Nella citata sentenza n. 31091 del 2018 si è altresì affermato che nel complesso e articolato sistema delineato dal D.Lgs. n. 267 del 2000, l’inerzia degli organi di governo che si compendi nella mancata adozione di norme statutarie e regolamentari (artt. 6 e 7, art. 48, comma 3) e nel mancato esercizio di funzioni di indirizzo politico-amministrativo (art. 42, comma 1, art. 48, comma 2, art. 50, commi 1 e 10) in ordine alle linee fondamentali di organizzazione degli uffici volte ad evitare vuoti di potere gestorio-amministrativo, non vale affatto a giustificare e a legittimare interferenze da parte di organi politici nell’ambito delle competenze proprie della dirigenza amministrativa in aperta violazione del più volte richiamato principio inderogabile di separazione di cui al richiamato D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 107.

Pertanto, facendo corretta applicazione dei suddetti principi (rispetto ai quali, peraltro è coerente la sentenza n. 13455 del 2006 che afferma “Nel caso di specie l’atto di recesso è sottoscritto dal dirigente competente, che con la propria firma si è assunto la responsabilità dell’atto, e risulta pertanto sotto tale profilo legittimo”), ai quali condividendoli si intende dare continuità, correttamente la Corte d’Appello ha affermato la competenza del dirigente comunale ad adottare l’atto di recesso per mancato superamento del patto di prova.

3. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta disparità di trattamento per il comportamento discriminatorio posto in essere dal Comune nel trattare due identiche situazioni.

Il ricorrente fa riferimento alla posizione di altro lavoratore che, destinatario nel medesimo periodo dello stesso provvedimento di recesso, con le stesse motivazioni e senza riscontri oggettivi, veniva poi reintegrato dalla Giunta municipale, facendosi riferimento all’esperimento di idonee iniziative di formazione mirate al recupero del dipendente.

Inoltre, il lavoratore riferisce che la Giunta comunale aveva ravvisato la necessità di implementare l’organico del Corpo di polizia municipale, esigenza prevalente rispetto a quella di una migliore formazione da impartire al dipendente.

Tali ragioni poste a base della reintegra dell’altro dipendente, non erano state ritenute applicabili ad esso ricorrente che aveva avuto la colpa di non lavare la divisa a proprie spese, nonostante fosse l’unico nel Corpo di polizia locale a non ricevere i buoni per il suddetto lavaggio.

Infine, rileva che le modalità di esperimento poste in essere dal Comune erano inadeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova, e inidonee a giustificare la discrezionalità del recesso.

3.1. Il motivo è inammissibile.

3.2. Questa Corte ha consolidato la propria giurisprudenza in materia di periodo di prova nel lavoro pubblico contrattualizzato nei seguenti termini, con la precisazione che il patto di prova mira ad accertare non solo la capacità tecnica ma anche la personalità del lavoratore e. in genere, l’idoneità dello stesso ad adempiere gli obblighi di fedeltà, diligenza e correttezza (v. Cass., n. 26679 del 2018, e giurisprudenza nella stessa richiamata).

Il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione diversamente da quel che accade nel licenziamento assoggettato alla L. n. 604 del 1966.

L’esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova che va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro. in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto.

Pertanto non è configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso qualora le modalità dell’esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova. Accade ciò, ad esempio, nel caso di esiguità del periodo in cui il lavoratore è sottoposto alla prova, o allorquando il prestatore espleti mansioni diverse da quelle per le quali era pattuita la prova.

Parimenti invalido è il recesso qualora risulti il perseguimento di finalità illecito; al motivo illecito si affianca quello estraneo all’esperimento lavorativo, pure idoneo ad inficiare il recesso.

Infine. può essere dimostrato il positivo superamento della prova.

3.3. Va, inoltre, ricordato che questa Corte ha già avuto modo di affermare con riguardo al licenziamento (Cass. n. 5546 del 2010, n. 10555 del 2013, n. 25274 del 2016) che qualora risulti accertato l’inadempimento del lavoratore – solo l’identità delle situazioni potrebbe privare il provvedimento della sua base giustificativa, non potendo porsi a carico del datore di lavoro l’onere di fornire, per ciascun licenziamento, la motivazione del provvedimento adottato, comparata a quelle assunte in fattispecie analoghe.

Tale mancanza di obbligo di motivazione, ancor più sussiste nel caso di recesso per mancato superamento del patto di prova atteso che, come si è ricordato, il recesso intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso, ed incombe, pertanto, sul lavoratore licenziato, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l’onere di provare, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 c.c., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova.

3.4. Nella specie, la statuizione della Corte d’Appello della mancanza della prova della illegittimità del recesso risulta non adeguatamente censurata, atteso che il lavoratore richiama in modo generico documenti di cui non è indicato il luogo di produzione, nè è trascritto il contenuto.

3.5. Analogamente del tutto generica e, pertanto, inammissibile, è la deduzione circa l’inadeguatezza delle modalità di esperimento della prova, formulata nella parte finale del secondo motivo di ricorso.

Ed infatti, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di specificità (cfr., Cass., n. 29093 del 2018).

4. Con il terzo motivo di ricorso è prospettato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Espone il ricorrente che la Corte d’Appello aveva tenuto conto solo della testimonianza resa da tale sig. S. (nel corso del motivo si fa riferimento a S.C., Comandante dei Vigili Urbani), che avrebbe avuto motivi di rancore personale nei suoi confronti e con suo padre, ignorando le altre testimonianze di cui riporta stralci nel ricorso.

4.1. Il motivo è inammissibile.

E’ applicabile alla fattispecie l’art. 360 c.p.c., n. 5 nel testo modificato dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius consiitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, sicchè quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perchè non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.

4.2. Nella specie, la Corte d’Appello ha affermato, con articolata motivazione che tiene conto delle risultanze delle prove testimoniali e documentali, che in riferimento ai fatti posti a fondamento del recesso e riportati nella scheda di valutazione del 19 giugno 2010, sul reiterato rifiuto di attenersi alle regole in materia di abbigliamento dell’agente di Polizia municipale, riferiva il teste C. (già funzionario Polizia municipale), con affermazioni (riportate nella sentenza di appello a pag. 4) che trovavano riscontro nelle deposizioni del teste S. che riferiva di -difficoltà di inserimento dello stesso” e che circa 10 verbali su 100 furono annullati, e anche in quelle del Co..

Le dichiarazioni del teste S. e del teste C. erano ritenute attendibili dalla Corte d’Appello alla stregua di elementi di natura oggettiva e soggettiva, stante la completezza e la precisione delle stesse e l’assenza di intrinseche contraddizioni. Dalle stesse, trovanti puntuali riscontro anche in quelle del Co. in ordine al mancato utilizzo della divisa, congiuntamente alla produzione documentale in atti, traspariva il comportamento conflittuale assunto dal lavoratore nei confronti dei colleghi nonchè il profilo negativo dello stesso sul versante della professionalità.

4.3. Dunque la censura prospettata con il terzo motivo di ricorso si sostanzia nella richiesta di un riesame delle risultanze istruttorie, rispetto alla valutazione svolta motivatamente dalla Corte d’Appello, che è inammissibile in sede di legittimità, in ragione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite civili, sopra richiamati.

4.4. Va inoltre rilevato che nella sentenza di appello non vi è menzione di una censura/eccezione prospettata dal lavoratore rispetto all’incompatibilità e/o all’attendibilità del teste S., e il ricorrente non prospetta con l’odierno motivo di ricorso di aver già introdotto tale censura ritualmente nel precedente grado di giudizio, per cui la stessa è inammissibile atteso che (Cass. 25319 del 2017, n. 20712 del 2018) nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto, rispettivamente, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 200,00, per esborsi. Euro 5.500,00, per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2019

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