Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20913 del 05/08/2019

Cassazione civile sez. lav., 05/08/2019, (ud. 15/01/2019, dep. 05/08/2019), n.20913

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3149-2014 proposto da:

SOCIETA’ COOPERATIVA AGRICOLA MADONNA DEI MIRACOLI A R.L., C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

LUIGI GUIDONE;

– ricorrente –

contro

T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO

CONFALONIERI 1, presso lo studio dell’avvocato MAURO MARCHIONE,

rappresentato e difeso dagli avvocati SABATINO BESCA, FELICE

RAIMONDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 827/2013 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 25/07/201 r.g.n. 858/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/01/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

udito l’Avvocato LUIGI GUIDONE;

udito l’Avvocato SABATINO BESCA.

Fatto

FATTI di CAUSA

La Corte d’Appello de L’AQUILA, in (parziale) riforma della decisione di primo grado, impugnata in via principale da T.A. ed in via incidentale dalla Società COOPERATIVA AGRICOLA MADONNA dei MIRACOLI a r. l., quest’ultima già attrice in prime cure, rigettava integralmente la domanda avanzata da detta società, ivi compresa la successiva impugnazione incidentale, ed in accoglimento della riconvenzionale, a suo tempo spiegata dal convenuto T., condannava la Cooperativa al pagamento in favore di costui della somma di 34.269,32 Euro, oltre accessori e spese di lite.

Secondo la Corte abruzzese era infondata la richiesta di restituzione della somma, pretesa da parte attrice nei confronti del T., in ordine a quanto corrisposto a quest’ultimo, già presidente del consiglio di amministrazione della medesima società dal novembre 1990 sino al gennaio 2009, a titolo di compenso per lo specifico incarico svolto come direttore commerciale, conferitogli giusta le delibere del consiglio di amministrazione in data 13 dicembre 1996 e due febbraio 2006, tanto ai sensi dell’art. 2389 c.c. che dell’art. 34 statuto sociale (restituzione il cui diritto era stato ritenuto in parte prescritto, fino al sei agosto 2004, dal giudice di primo grado, laddove la somma inizialmente richiesta, a decorrere dal primo luglio 1998, ammontava a 809.720,34 Euro). Per contro, la Corte territoriale riteneva giustificata la pretesa creditoria azionata dal T. in riconvenzionale, relativa al compenso per l’attività di direttore commerciale riguardo al periodo primo luglio 2008 – 11 gennaio 2009.

Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la Soc. Cooperativa Agricola Madonna dei Miracoli a r. L. con atto del 24 gennaio 2014, affidato a sei motivi (non numerati), cui ha resistito T.A. mediante controricorso notificato il tre marzo 2014.

Con ordinanza resa all’esito dell’udienza 18 aprile 2018 il collegio rinviava la trattazione dei ricorsi a nuovo ruolo per l’acquisizione dei fascicoli di primo e secondo grado del giudizio di merito, mandando alla Cancelleria anche per la formazione di copie integrali del ricorso, tratte dall’originale dello stesso ricorso agli atti del fascicolo di parte ricorrente, la quale ha in seguito anche depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI della DECISIONE

Con il primo motivo la ricorrente ha denunciato carenza di motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sull’asserito presupposto che la sentenza oggetto d’impugnazione, pubblicata il 25 luglio 2013, fosse ancora soggetta alla previgente formulazione del suddetto art. 360 c.p.c., n. 5. La carenza di motivazione riguarda la qualificazione che la Corte d’Appello aveva attribuito all’incarico affidato dal consiglio di amministrazione al suo presidente. Nella sentenza de qua, ad avviso della ricorrente, la Corte territoriale aveva seguito un iter argomentativo in apparenza logico, ma in realtà scandito da una serie di presunzioni che rendono fragile l’intera costruzione.

La sentenza impugnata muoveva da una prima presunzione, avvolta peraltro nell’indeterminatezza: non condivide la Corte l’interpretazione propugnata dall’appellata in parte seguita in prime cure circa la illegittimità dell’erogazione delle somme effettuate nell’arco di un decennio… dalla Cooperativa al Presidente del Consiglio di Amministrazione, quale compenso per il lavoro da questi effettivamente svolto nell’interesse della prime dietro preciso incarico in tal senso. Il T. tale incarico ha ricevuto, tale incarico ha svolto – pare più che degnamente stante il considerevole aumento del fatturato registratosi nel tempo grazie al suo impegno e sul punto l’appellata nulla ha obiettato. In conclusione, poichè la Cooperativa aveva pagato in silenzio per 10 anni l’incarico doveva esser stato svolto più che degnamente. E riguardo a tale conclusione andava segnalato, a dire della ricorrente, un altro aspetto critico della sentenza, ossia il sovvertimento delle regole che disciplinano l’onere probatorio. Restavano, poi, un mistero le fonti, i riscontri e le deduzioni in base ai quali la Corte territoriale aveva ritenuto di poter sostenere che il “fumoso incarico” fosse quello di direttore commerciale. Dalla motivazione della sentenza era dato rilevare soltanto la considerazione che il Consiglio d’Amministrazione non avrebbe fatto altro che affidare ad uno dei suoi membri, in particolare al suo presidente, uno specifico incarico a carattere continuativo, essendosi con ciò la Cooperativa dotata di un direttore commerciale.

Appariva, dunque, evidente la fragilità dell’iter logico a sostegno della conclusione, cui era pervenuta in punto di fatto la Corte d’Appello, e quindi l’inesistenza di una valida motivazione, ovvero l’insufficienza della stessa, siccome altrettanto evidenti.

In realtà gli unici dati certi emergenti dalla documentazione acquisita erano costituiti dal fatto che T.A., pur svolgendo le funzioni di presidente del Consiglio di Amministrazione della Cooperativa, aveva ottenuto la liquidazione di un compenso aggiuntivo per la carica pari al 2% delle vendite di vino confezionato. L’immotivata decisione di ritenere che T. avesse ricevuto l’incarico di dirigere il settore commerciale aveva, ovviamente, portato la Corte ad escludere, altrettanto immotivatamente, che il rapporto non potesse essere qualificato come agenzia o mediazione, magari atipica. La Corte territoriale, dunque, si era limitata ad escludere qualsiasi alternativa all’ipotesi da essa formulata in via meramente presuntiva, ignorando totalmente le argomentazioni di essa ricorrente, così come aveva fatto il Tribunale in primo grado. Il tenore letterale del mandato affidato al T., le modalità di esecuzione del medesimo, il criterio di remunerazione prescelto (provvigione) e la forma di imputazione dei pagamenti, inseriti nella voce di bilancio “provvigioni e mediazioni” nonchè documentati da schede contabili e da fatture dal significato inequivocabile, erano tutte circostanze di fatto indiscutibili, che i giudici di merito avevano completamente ignorato o pretermesso senza alcuna motivazione.

Con il secondo motivo la Cooperativa ha lamentato violazione delle disposizioni che regolano l’onere della prova ex art. 2697 c.c., in quanto le immotivate presunzioni che giudici di merito avevano posto a fondamento delle decisioni, oltre ad inficiare le sentenze ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, violavano palesemente le norme in tema di ripartizione dell’onere probatorio.

Il convenuto, dopo aver eccepito preliminarmente che il rapporto dovesse qualificarsi come agenzia o mediazione, nel merito si è contraddetto sostenendo che si trattava di incarico di direzione commerciale conferito dalla società, però non fornendo in proposito alcuna prova tranne la produzione delle delibere del consiglio di amministrazione.

Pur volendosi ammettere che fosse presumibile l’iscrizione in bilancio di tutte le uscite, anche senza visionare i bilanci, non era possibile tuttavia presumere anche che dalla lettura del bilancio si potesse dedurre quanto invece presunto dalla Corte di merito, secondo la quale l’iscrizione in bilancio dei compensi percepiti dal T. con conseguente approvazione dell’assemblea integrava un dato pacifico. Secondo la ricorrente, unicamente la visione dei bilanci poteva consentire di verificare se l’assemblea, nell’approvarli, fosse consapevole che nella voce provvigioni e mediazioni fosse non solo compreso il compenso aggiuntivo liquidato al T., ma che tale compenso fosse da imputare all’incarico di direttore commerciale e non per la mediazione correlata alle vendite da lui eseguite direttamente. In altri termini, non solo la Corte aquilana aveva presunto l’iscrizione in bilancio, pur non avendo mai visto i bilanci, ma era giunta a presumere che l’iscrizione fosse tale da rendere consapevoli i soci di fatto che l’organo amministrativo avesse conferito al presidente una “particolare carica”, che tale carica fosse quella di direttore commerciale e che la somma iscritta in bilancio nella voce “provvigioni e mediazioni” contenesse anche il compenso liquidato al preteso direttore commerciale. Al più era verosimile che i soci fossero convinti che le somme iscritte in bilancio alla voce provvigioni e mediazioni riguardassero appunto i rappresentanti e i mediatori, e non il direttore commerciale ombra, e che di conseguenza con l’approvazione del bilancio l’assemblea avesse preso soltanto atto che la società aveva liquidato i mediatori le somme riportate nella suddetta voce.

Con il terzo motivo la società ricorrente si è doluta della contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio: nel valutare la legittimità delle delibere con le quali il Consiglio di Amministrazione aveva attribuito al T. la provvigione del 2% sulle vendite da lui effettuate, la Corte distrettuale aveva ritenuto irrilevante la verifica richiesta dalla Cooperativa in merito alla riconducibilità delle prestazioni fornite dal T. all’oggetto sociale. Costui, nella qualità di presidente, aveva l’onere di compiere tutte le operazioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale, e, come riconosciuto dalla stessa Corte, la società era una cooperativa agricola che produceva vino, merce che doveva essere ovviamente commercializzata e venduta. Di conseguenza, l’attività di promozione per la vendita del vino era senza dubbio uno dei compiti che la carica imponeva al T., il quale per questo percepiva un discreto compenso.

Inoltre, nell’impugnata sentenza si era ritenuto irrilevante anche l’accertamento dell’attività svolta come rientrante o meno nella ragione sociale, questione prospettata dalla controparte soltanto con le note conclusionali del 15 luglio 2011, per cui non era stato prodotto nemmeno lo statuto, sicchè T. era stato posto nell’impossibilità di difendersi sul punto. Tuttavia, secondo la ricorrente, poichè in altri passaggi della sentenza impugnata la Corte territoriale aveva preso in considerazione lo statuto della società, peraltro risultante acquisito agli atti, era sicuramente censurabile, anche perchè contraddittoria, l’affermazione che sarebbe stata inutile la verifica richiesta dalla società, che lo statuto non sarebbe stato prodotto e che per questo il T. non si sarebbe potuto difendere in proposito.

Con il quarto motivo è stata, poi, anche denunciata la violazione o erronea applicazione dell’art. 2389 c.c., relativamente alla parte in cui la sentenza impugnata aveva ritenuto che il Consiglio di Amministrazione avesse legittimamente deliberato il conferimento del suddetto incarico al presidente, con conseguente legittima attribuzione di un compenso pari ad una percentuale del fatturato delle vendite di vino imbottigliato.

Al riguardo, tuttavia, secondo la ricorrente, la Corte d’Appello aveva dato per scontato un presupposto di fatto in realtà frutto di una mera presunzione, priva di qualsiasi riscontro probatorio. La Corte territoriale, infatti, aveva presunto che il Consiglio di Amministrazione avesse conferito al T. l’incarico di “direttore commerciale”. Il vizio di motivazione, già illustrato, aveva consentito ai giudici di merito di superare le obiezioni della società circa la natura dell’incarico. Ciò nonostante, la ricorrente con l’anzidetta doglianza riteneva che non fosse superabile il chiaro tenore precettivo dell’art. 2389 c.c., il quale attribuisce all’assemblea dei soci e non a consiglio di amministrazione il potere di determinare le remunerazioni degli amministratori. In tale ottica le forzature dialettiche contenute nella sentenza non erano sufficienti a superare il significato dell’espressione “rimunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche”, facendovi rientrare anche gli incarichi dirigenziali, come la direzione commerciale, che in quanto tale dava origine ad un rapporto di lavoro subordinato, seppure particolarmente qualificato.

Sul punto la ricorrente ha richiamato i principi affermati da questa Corte con la sentenza n. 11023 del sette febbraio / 23 agosto 2000 (secondo cui l’amministratore di società, cui sia demandato lo svolgimento di attività estranee al rapporto di amministrazione, ha per queste diritto -ai sensi dell’art. 2389 c.c. – ad una speciale remunerazione sempre che tali prestazioni siano effettuate in ragione di particolari cariche che allo stesso siano state conferite e che esulino dal normale rapporto di amministrazione, ossia dal potere di gestione della società il cui limite deve individuarsi nell’oggetto sociale, talchè rientrano tra le prestazioni tipiche dell’amministratore tutte quelle che siano inerenti all’esercizio dell’impresa, senza che rilevi – salvo che sia diversamente previsto dall’atto costitutivo o dallo statuto – la distinzione tra atti di amministrazione straordinaria ed ordinaria), sostenendosi quindi dalla Cooperativa quanto inoltre osservato nella motivazione di detta pronuncia: “Certamente è consentito alla volontà assembleare di prevedere che anche talune attività, che pure potrebbero rientrare tra quelle di gestione, configurino “cariche particolari” e, come tali, da retribuirsi autonomamente. Giammai peraltro, sarebbe giustificabile un autoconferimento da parte dello stesso amministratore, appartenendo tale potere esclusivamente all’assemblea, e non anche al Consiglio di amministrazione, secondo la previsione inderogabile dell’art. 2389, comma 1.

Nella specie, il giudice del merito ha rigorosamente sottoposto ad analisi le attività svolte dal ricorrente e, dopo avere rilevato che a tutte lo stesso aveva provveduto sempre di propria iniziativa e mai su indicazione della assemblea o del Consiglio di amministrazione, ha concluso, con motivazione che si sottrae a censure in questa sede, che in punto di fatto tutte rientravano nella normale gestione della società; dando peraltro atto che talune di esse richiedevano specifica competenza tecnica e presentavano carattere di complessità, dell’una e dell’altra tenendosi sempre conto nella determinazione delle retribuzioni.

Infine, con riferimento alla domanda riconvenzionale per conflitto di interessi proposta dalla società, è sufficiente considerare che la stessa venne svolta solo condizionatamente all’eventuale accertamento da parte del giudice di primo grado che le attività svolte dal T. esulassero da quella di amministrazione, contestando, quindi la convenuta, fin dalla sua costituzione in giudizio la fondatezza della pretesa azionata dall’attore.

Del ricorso si impone, quindi, il rigetto con la condanna del suo proponente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che si determinano nella misura che viene indicata nel dispositivo….”).

Dunque, ad avviso di parte ricorrente, il superamento dell’ostacolo costituito dall’art. 2389 c.c. mediante l’uso di inammissibili presunzioni e lo stravolgimento dell’onere della prova non appariva conforme ai principi che devono informare le decisioni giurisprudenziale. La corte di appello aveva ritenuto di poter presumere che l’assemblea dei soci avesse legittimato l’operato del consiglio di amministrazione attraverso l’approvazione di bilanci, senza però averli acquisiti e quindi senza aver verificato se dalla loro lettura i soci potessero acquisire la consapevolezza non solo dell’esistenza, ma anche della natura dell’incarico affidato al presidente.

Con il quinto motivo la sentenza d’appello è stata censurata per violazione delle disposizioni di legge in tema di mediazione L. n. 39 del 1989, ex art. 6 poichè il rapporto intercorso tra la società ed il T. era senza dubbio riconducibile allo schema della mediazione atipica o negoziale, su cui la giurisprudenza si era ripetutamente pronunciata, confermando anche in tal caso la necessaria l’iscrizione all’albo degli agenti di affari in mediazioni, in mancanza di cui il rapporto era considerarsi nullo, con conseguente obbligo di restituzione delle provvigioni percepite.

Infine, con il sesto motivo è stata dedotta la violazione di legge in relazione alla prescrizione dei crediti maturati della società ricorrente (art. 2946 c.c.): “All’accoglimento del ricorso segue l’accoglimento anche dell’appello incidentale relativo alla decorrenza della prescrizione dei crediti maturati della società ricorrente. Il Tribunale erroneamente ha ritenuto di fissare il termine di prescrizione a cinque anni antecedenti la prima richiesta restitutoria. Senonchè nel caso in esame non appare applicabile l’art. 2949, richiamato dal giudice di merito, ma è diverso termine di prescrizione ordinaria previsto per la restituzione dell’indebito oggettivo”.

Tanto premesso, vanno disattese, in primo luogo, tutte le doglianze con le quali parte ricorrente ha denunciato vizi di motivazione, per la verità insussistenti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, laddove tale norma nella specie ratione temporis si applica in base al testo attualmente vigente, a seguito delle modifiche introdotte dal legislatore del 2012 (D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134), risalendo la qui impugnata sentenza d’appello al 23 maggio / 25 luglio 2013, sicchè opera il regime transitorio di cui al D.L. cit., art. 54, comma 3, (“si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”, avvenuta il 12 agosto 2012).

Orbene, le censure de quibus (specialmente, poi, quelle di cui ai primi tre motivi) appaiono inammissibili, atteso che in effetti loro tramite si pretende, irritualmente, in questa sede di legittimità di sindacare quanto invece diversamente apprezzato, accertato e deciso dalla Corte di merito con adeguate motivazioni, peraltro indubbiamente in linea con il parametro del c.d. minimo costituzionale occorrente come per legge (cfr. tra le altre Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia. In senso conforme ex plurimis Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014, secondo cui, dunque, valgono i seguenti principi di diritto: a) la riformulazione dell’art. 360, n. 5), c.p.c., disposta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia; c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; d) la parte ricorrente deve indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.

Cfr., ancora, Cass. VI civ. – 5 n. 29404 del 07/12/2017: con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità. In senso analogo, v. tra le altre Cass. nn. 9097 del 2017, 19011 del 2017, 16056 del 2016 e 19547 del 2017. In part. Cass. VI civ. – 5 n. 9097 del 07/04/2017: con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. Conforme Cass. n. 7921 del 2011.

V. parimenti Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio -, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Conforme Cass. I civ. n. 23153 del 26/09/2018).

Inoltre, va ricordato anche il principio affermato dalle Sezioni unite civili di questa Corte, con la sentenza n. 22232 del 03/11/2016, secondo cui la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (cfr. altresì Cass. sez. un. civ. n. 25984 del 22/12/2010, secondo cui il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato, per cui non sussiste motivazione contraddittoria allorchè, dalla lettura della sentenza, non sussistano incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice. In senso conforme Cass. III civ. n. 8106 del 06/04/2006: non è sufficiente, perchè la motivazione di una sentenza sia definita “contraddittoria”, che un’espressione contenuta in questa sia in contrasto con altra, essendo indispensabile, altresì, che si sia in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato. Non sussiste, pertanto, motivazione contraddittoria allorchè dalla lettura della sentenza sia agevole accertare che si versa in una ipotesi di errore materiale nella redazione della sentenza stessa e che, dunque, non sussistono incertezze di sorta su quella che è stata la volontà del giudice. V. pure Cass. III civ. n. 13318 del 30/06/2015, secondo cui il vizio di contraddittorietà della motivazione ricorre solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la “ratio decidendi” che sorregge il “decisum” adottato, sicchè non incorre in tale vizio – ma in un semplice errore materiale – il giudice che affermi l’infondatezza dell’appello e poi lo accolga parzialmente, quando la lettura della sentenza non lasci incertezze sull’effettiva volontà del giudicante).

Tanto chiarito in punto di diritto, gli anzidetti vizi non sono ravvisabili nella fattispecie, laddove la Corte aquilana con la sentenza n. 827/13 ha, chiaramente e coerentemente, manifestato la ratio decidendi della statuizione, oggetto del ricorso in esame, riportando analiticamente le conclusioni delle parti, nonchè le ragioni della non condivisa sentenza di primo grado, i motivi dell’appello principale e di quello incidentale, i fatti salienti della vertenza, tra cui specialmente le Delib. consiglio di amministrazione della cooperativa risalenti al 1996 ed all’anno 2006, rilevando peraltro l’irritualità di quanto dedotto soltanto con le note conclusionali del 15 luglio 20111, per cui non era stato nemmeno prodotto lo statuto sociale, sicchè il T. era stato posto nell’impossibilità di difendersi in proposito. La Corte di merito, quindi, motivava le proprie ragioni, secondo cui risultava del tutto legittimo l’operato del consiglio di Amministrazione, avuto riguardo alle previsioni di cui agli artt. 2380 e 2389 c.c., nonchè alle ratifiche nella specie intervenute dall’organo assembleare (accertamento di fatto, pure questo incensurabile in questa sede di legittimità, rilevando in proposito, dunque, che il consiglio di amministrazione non aveva fatto altro che affidare al suo presidente p.t. uno specifico incarico a carattere continuativo, di modo che la cooperativa, agricola, era stata dotata di un direttore commerciale, assolutamente necessario, visto che in epoca anteriore e successiva al periodo oggetto di causa la stessa era stata rappresentata da un consulente esterno, con relativi costi sopportati in misura maggiore rispetto al compenso già riconosciuto al T., compenso peraltro giudicato distinto da quello stabilito in sede assembleare per l’amministratore, perciò diverso dalla remunerazione dovuta per uno speciale incarico continuativo). Ciò premesso, dopo ulteriori precisazioni in fatto (tra cui il potere spettante al consiglio di amministrazione, nella specie esercitato per giunta con il parere conforme del collegio sindacale, “in aderenza allo statuto… regolarmente approvato dall’assemblea, che ha quindi acconsentito a che fosse il consiglio di amministrazione a determinare il compenso per particolari incarichi”), la Corte di merito ha pure analizzato e quindi ricostruito il contenuto delle anzidette delibere (la prima, quella del 1996, con la quale si dava atto che la direzione commerciale veniva svolta, con soddisfacenti risultati, dal T. sin dal 1993, anno in cui il precedente direttore commerciale era stato licenziato, sicchè veniva conferito apposito mandato al T., escludendo l’assunzione di un direttore commerciale, e determinando quindi il compenso ex art. 2389 c.c., su conforme parere del collegio sindacale, dando altresì atto che detto compenso veniva iscritto in bilancio nella voce “provvigione/mediazioni”. In seguito, con la Delib. del 2006, veniva rideterminato il compenso per l’incarico di direttore commerciale, prevedendosi espressamente di lasciare fermo quello già stabilito per le funzioni di presidente del consiglio d’amministrazione deliberato dall’assemblea fin dall’ottobre 1991 in ragione di 30 milioni di Lire. Dunque, di trattava di compenso stabilito separatamente per un incarico specifico e continuativo ex artt. 2389 c.c., nonchè conforme allo stato, visto che ineriva ad attività già delegata a consulenti esterni, anche dopo la cessazione del T. dell’incarico di presidente del c.d.a.).

La Corte aquilana, inoltre, pur richiamando le sue precedenti considerazioni circa l’estraneità della censura al thema decidendum, come configurato in primo grado (ossia in relazione alla questione dedotta soltanto con le anzidette note conclusionali del 15-072011, aventi perciò evidentemente mero valore meramente illustrativo e quindi tali da non poter modificare i termini della controversia, siccome delineati con il ricorso introduttivo del giudizio e la conseguente memoria difensiva di costituzione), rilevava comunque il fatto che l’attività svolta (dall’appellante principale quale direttore commerciale), non necessariamente coincideva con il concetto di “amministrazione”, trattandosi in particolare di una cooperativa agricola ed evidenziando perciò le specifiche differenze tra la carica presidenziale e l’incarico di direzione commerciale. Peraltro (dunque non in senso dirimente o decisivo), veniva richiamata la giurisprudenza (Cass. n. 28243 del 20/12/2005), secondo cui la deliberazione dell’assemblea di una società di capitali di approvazione del bilancio che includa nel bilancio medesimo, come debito della società, il compenso che l’amministratore si era attributo, ha valore di ratifica dell’operato dell’amministratore posto in essere senza averne il potere, costituendo detta delibera, non mera presa d’atto dell’attività dell’amministratore, ma atto con il quale la società fa proprio il rapporto, idoneo a costituire fonte di obbligazione della società stessa nei confronti del proprio amministratore per ciò che attiene ai compensi in tal modo deliberati (ancorchè detto principio debba ritenersi invece contraddetto dalle Sezioni unite civili di questa Corte, come da sentenza n. 21933 del 29/08/2008, secondo cui con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art. 2389 c.c., comma 1 – nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al D.Lgs. n. 6 del 2003 – qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita Delib. assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea – art. 2630 c.c., comma 2, abrogato dal D.Lgs. n. 61 del 2002, art. 1; la distinta previsione delle Delib. di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi e la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio – art. 2434 c.c.; il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società ex art. 2393 c.c., comma 2. Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica Delib. richiesta dall’art. 2389 cit., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori). Per contro, nella fattispecie qui in esame, secondo la Corte di merito, “a maggior ragione” i compensi riconosciuti al T. dal Consiglio di Amministrazione (“in sua assenza”, come anche precisato a pag. 4, terzultimo rigo, della sentenza qui impugnata), “tanto più in attuazione di una precisa norma statutaria (art. 34) e di una norma civilistica (art. 2389, comma 3) – sono stati regolarmente iscritti in bilancio e, di volta in volta approvati con esso dall’assemblea dei soci”, trattandosi di un dato pacifico, che non doveva essere documentato in atti, poichè il T. aveva regolarmente ricevuto il suo compenso per tutto il lungo periodo nel quale aveva svolto l’incarico (di direttore commerciale) assegnatogli, ciò che non sarebbe potuto avvenire senza l’iscrizione delle relative somme in bilancio, regolarmente approvato dall’Assemblea. Quanto, poi, alla mancata iscrizione del T. all’albo dei mediatori, la Corte distrettuale osservava che, invece, si era in presenza del conferimento di un preciso incarico di gestione del settore commerciale (vendita di vini), che era stato sempre conferito a terzi dalla Cooperativa agricola, non essendo quindi ravvisabili altre fattispecie contrattuali, ben potendo la società committente prevedere a titolo di retribuzione (rectius corrispettivo, in relazione al mandato, ex art. 1703 c.c. e ss., visto che tra l’altro era stata espressamente esclusa l’ipotesi dell’assunzione, donde la pacifica esclusione della natura subordinata del rapporto, valendo tuttavia la presunzione di onerosità di cui all’art. 1709 cit. codice, donde il conseguente diritto a compenso) una percentuale sul fatturato, come nella specie verificatosi.

Pertanto, la Corte territoriale riconosceva il diritto dell’appellante principale al compenso rivendicato con la sua domanda riconvenzionale, considerata con apposita motivazione ritualmente e tempestivamente spiegata, volta ad ottenere il corrispettivo delle sue prestazioni rese dal primo luglio 2008 all’undici gennaio 2009 in ragione di complessivi 34.269,32 Euro, quantum non ex adverso contestato, ma con il rigetto della domanda inizialmente avanzata dalla Cooperativa, attrice in primo grado (volta ad ottenere la ripetizione di quanto corrisposto al T. fin dal primo luglio 1998 in complessivi 809.720,34 Euro, accolta soltanto in parte dal primo giudicante per quanto corrisposto a decorrere dal sette agosto 2004 in avanti, che aveva dichiarato prescritta la restante pretesa creditoria azionata dalla società e rigettato per intero la riconvenzionale), sicchè la Cooperativa andava condannata al pagamento della somma di 34.269,62 Euro, “oltre interessi, non avendo questa contestato il merito della pretesa, e, quindi, la debenza della somma, così come va respinto l’appello incidentale da questa proposto”.

Appaiono, quindi, chiarissime nella loro estrinsecazione le rationes decidendi poste a sostegno delle statuizioni assunte dalla Corte d’Appello, mentre, pure alla stregua dei principi di diritto, sopra richiamati in tema di ricorso per cassazione, appaiono inconferenti ed inammissibili le contrarie censure mosse dalla Cooperativa, peraltro formulate in modo frammentario ed atomistico, senza tener conto dell’intero e lineare percorso argomentativo seguito con la sentenza qui impugnata, e per di più con carenti allegazioni, invero poco osservanti dei principi di autosufficienza e/o specificità prescritti a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4, e 6. Tanto vale anche in relazione al secondo motivo, laddove in effetti non si individua alcuna precisa e chiara violazione delle regole in tema di oneri probatori dettate dall’art. 2697 c.c., risultandovi piuttosto inammissibili censure circa il percorso motivazionale seguito dai giudici del gravame, come visto di per sè logico e non contraddittorio nel suo complessivo dispiegarsi, nonchè di certo adeguato all’anzidetto minimo costituzionale. Peraltro (cfr. Cass. III civ. n. 13395 del 29/05/2018), la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità,

entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. altresì Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 26769 del 23/10/2018, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c..).

Una volta, inoltre, debitamente accertati i fatti di causa dalla compente Corte di merito, nei sensi in precedenza indicati, parimenti analoghe considerazioni in termini di inammissibilità si impongono per quanto concerne l’asserita violazione dell’art. 2389 c.c. (quarto motivo di ricorso), la cui censura invero non individua precisi errori in diritto per ciò che attiene alla sua concreta applicazione (del resto non sono stati neanche denunciati specifici errori circa le consuete regole d’interpretazione, per quanto concerne le anzidette Delib., in data 13-12-1996 e 2-2-2006, eventualmente commesse dai giudici aditi con gli interposti gravami), ma irritualmente in questa sede di legittimità contrappone una ricostruzione fattuale della vicenda diversa da quella operata dai giudici di appello, i quali come si è visto hanno dettagliatamente esaminato le due delibere del Consiglio di Amministrazione, risalenti agli anni 1996 e 2006, riscontrandone la piena conformità alla disciplina di legge e statutaria, essendosi trattato nella specie di specifico ed ulteriore incarico con diritto a remunerazione distinta dal compenso dovuto invece per la sola partecipazione al consiglio di amministrazione, di cui il T. era stato presidente dal 25 novembre 1990 sino all’unici gennaio 2009 (cfr. sia l’originario testo dell’art. 2389 c.c., rimasto in vigore fino 31-12-2003 in tema di compensi degli amministratori: “I compensi e le partecipazioni agli utili spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti nell’atto costitutivo o dall’assemblea. La rimunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dell’atto costitutivo è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale”; sia quello così sostituito, insieme all’intero Capo V, dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 1, comma 1 operante dal primo gennaio 2004: “1. I compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti all’atto della nomina o dall’assemblea. 2. Essi possono essere costituiti in tutto o in parte da partecipazioni agli utili o dall’attribuzione del diritto di sottoscrivere a prezzo predeterminato azioni di futura emissione.

3. La rimunerazione degli amministratori investiti di particolari cariche in conformità dello statuto è stabilita dal consiglio di amministrazione, sentito il parere del collegio sindacale.

Se lo statuto lo prevede, l’assemblea può determinare un importo complessivo per la remunerazione di tutti gli amministratori, inclusi quelli investiti di particolari cariche”, evenienza quest’ultima peraltro non verificatasi, visto che come accertato dalla Corte di merito, e nemmeno specificamente confutato da parte ricorrente, i compensi rimasero distinti, ossia quello di 30 milioni annui delle vecchie lire per la funzione di presidente del c.d.a., già deliberato dall’assemblea fin dal 1991, e quello invece riconosciuto dal medesimo consiglio d’amministrazione per l’incarico di direzione commerciale, commisurato ad una determinata percentuale del fatturato vendite).

Ulteriormente inconferente si appalesa la doglianza, siccome inoltre alquanto genericamente formulata, di cui al quinto motivo, inerente la pretesa violazione della L. n. 39 del 1989, art. 6 in quanto anch’essa fondata sul presupposto di una diversa ricostruzione in fatto del rapporto contrattuale de quo (“per i motivi già illustrati in precedenza e più ampiamente argomentati nelle fasi di merito…”), apoditticamente e senza minimamente chiarire le circostanze in base alle quali si asserisce la sussistenza di una mediazione atipica o negoziale, laddove la Corte di merito tenuto conto del preciso incarico di gestione del settore commerciale conferito dalla committente espressamente non ha ravvisato altre fattispecie contrattuali (cfr. ad ogni modo da ultimo Cass. II civ. Sez. 2, Sentenza n. 482 del 2019 in data 18/07/2018 -10/01/2019, secondo cui in sintesi il conferimento di un incarico per la ricerca di una persona interessata alla conclusione di un affare a determinate condizioni prestabilite dà luogo a un mandato e non a una c.d. mediazione atipica unilaterale – riguardante una soltanto della parti interessate – o a una mediazione creditizia, allorchè il pagamento della provvigione sia svincolato dall’esito dell’operazione, l’attività demandata abbia natura giuridica e sia insussistente il connotato dell’imparzialità. In tal caso, l’incaricato ha l’obbligo e non la facoltà di attivarsi per la conclusione dell’affare e può pretendere il pagamento della provvigione dalla sola parte che gli ha attribuito l’incarico, senza necessità della sua iscrizione all’albo L. n. 39 del 1989, ex art. 2 restando indifferente l’effettiva conclusione dell’affare. Nella specie, si è ritenuto che rientrasse nello schema del contratto di mandato l’incarico unilaterale conferito dalla ricorrente, nel suo esclusivo interesse, per la vendita di alcune azioni societarie, comprensivo dell’assistenza in sede di redazione dei relativi contratti e per la ricerca di banche e intermediari disponibili all’erogazione dei necessari finanziamenti, valorizzando l’inscindibilità del rapporto in quanto proteso alla realizzazione di un risultato unitario, pur non tralasciando di considerare quanto affermato in materia da Cass. sez. un. civ. 19161/17. Invero, Cass. n. 482/2019ha così in percolare osservato: “… Altresì, precipuamente ai fini della differenziazione della fattispecie contrattuale di cui agli artt. 1703 c.c. e ss. e la figura di cui agli artt. 1754 c.c. e ss. – e dunque con diretta valenza in relazione alla seconda fase del procedimento di qualificazione -, l’insegnamento per cui il conferimento dell’incarico di reperire un acquirente od un venditore dà vita ad un contratto di mandato e non già a mediazione, giacchè tal ultima figura è incompatibile con qualsiasi vincolo tra il mediatore e le parti; cosicchè, in ipotesi di conferimento di incarico, l’incaricato ha l’obbligo, non la facoltà, di attivarsi per la conclusione dell’affare e può pretendere la provvigione dalla sola parte che gli ha attribuito l’incarico (cfr. Cass. 14.7.2009, n. 16382). Ed ulteriormente l’insegnamento per cui il mandatario è obbligato a compiere uno o più atti giuridici ed ha comunque – in linea di principio – diritto al compenso, nella mediazione di contro, giusta il disposto dell’art. 1755 c.c., il diritto alla provvigione spetta solo “se l’affare è concluso” (cfr. Cass. 17.11.1997, n. 11389).

Ovviamente – del pari con diretta valenza in relazione alla seconda fase del procedimento di qualificazione – non si ignora che si configura, accanto alla mediazione ordinaria, una mediazione negoziale cosiddetta “atipica”, fondata su contratto a prestazioni corrispettive, con riguardo anche ad una soltanto delle parti interessate (cosiddetta mediazione unilaterale), qualora una parte, volendo concludere un singolo affare, incarichi altri di svolgere un’attività volta alla ricerca di una persona interessata alla sua conclusione a determinate e prestabilite condizioni (cfr. Cass. sez. un. 2.8.2017, n. 19161); in siffatta evenienza l’esercizio dell’attività di mediazione “atipica”, quando l’affare abbia ad oggetto beni immobili o aziende ovvero, se riguardante altre tipologie di beni, sia svolta in modo professionale e continuativo, resta soggetta all’obbligo di iscrizione all’albo previsto dalla L. n. 39 del 1989, art. 2 ragion per cui il suo svolgimento in difetto di tale condizione esclude, ai sensi dell’art. 6 medesima legge, il diritto alla provvigione (cfr. Cass. sez. un. 2.8.2017, n. 19161)….”).

Infine, deve disattendersi anche l’ultimo motivo di ricorso, laddove è stata lamentata la violazione di legge in relazione alla prescrizione dei crediti maturati dalla società ricorrente con riferimento all’art. 2946 c.c., visto che in forza delle considerazioni che precedono il ricorso della società cooperativa non merita accoglimento, di modo che viene a mancare, in effetti, proprio il presupposto (“All’accoglimento del ricorso segue…”) in base al quale con tale censura, peraltro anch’essa vagamente formulata, è stato invocato l’accoglimento anche dell’appello incidentale relativo alla decorrenza della prescrizione, e per cui si sostiene che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere il termine quinquennale, poichè nel caso in esame non sarebbe stato applicabile l’art. 2949 c.c., ma il diverso termine di prescrizione ordinaria per la restituzione dell’indebito oggettivo. Di conseguenza, resta invero così pure assorbita tale doglianza, una volta confermata la sentenza d’appello, la quale aveva riconosciuto la fondatezza del pretese creditorie azionate dal T. relativamente al periodo primo luglio 2008 / 11 gennaio 2009, come da riconvenzionale spiegata il 29 aprile 2010, e rigettato, invece, l’appello incidentale concernente la domanda di cui al ricorso introduttivo del giudizio, ma per ragioni completamente diverse da quelle ritenute dal primo giudicante, il quale, come già detto, riconosciuta in parte ha fondatezza della pretesa della società attrice, l’aveva per il resto disattesa per effetto della ritenuta prescrizione quinquennale. Per contro, la ratio decidendi della pronuncia de qua prescinde, del tutto, assorbendola a monte con ragioni di stretto merito, dalla prescrizione (quinquennale o decennale, quindi poco importa), in parte applicata dal giudice di primo grado.

Dunque, il ricorso va respinto, di modo che la parte rimasta soccombente deve essere condannata al rimborso delle relative spese, risultando peraltro anche in presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

la Corte dichiara RIGETTA il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore del controricorrente in complessivi Euro =7800,00= (settemila-ottocento/00) per compensi professionali ed in Euro =200,00= per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, in relazione a questo giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuti per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 agosto 2019

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