Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20910 del 15/10/2015


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 20910 Anno 2015
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: PETITTI STEFANO

sentenza con motivazione
semplificata

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

MASTROLEO Leonarda (MST LRD 46E67 B822Q), rappresentata e
difesa, per procura speciale a margine del ricorso,
dall’Avvocato Cosimo Luperto, elettivamente domiciliata in
Roma, via dei Gracchi n. 39, presso l’Avvocato Annamaria
Federico;
ricorrente contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro
tempore,

pro

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei
Portoghesi n. 12, è domiciliato per legge;
– controri corrente –

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Data pubblicazione: 15/10/2015

avverso il decreto della Corte d’Appello di Potenza n.
692/13, depositato in data 15 luglio 2013.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 15 settembre 2015 dal Presidente relatore

Ritenuto che, con ricorso depositato presso la Corte
d’appello di Potenza il 29 marzo 2012, Mastroleo Leonarda
chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al
pagamento del danno non patrimoniale derivante dalla
irragionevole durata di un giudizio civile iniziato nel
1995 e deciso in primo grado dal Tribunale di Lecce Sezione distaccata di Maglie con sentenza del gennaio 2008
e in appello con sentenza depositata il 2 novembre 2011;
che l’adita Corte d’appello, ritenuto che la durata
irragionevole del processo dovesse essere stimata in nove
anni, detratti dalla durata complessiva di sedici anni e
due mesi un periodo di sette anni e due mesi, tenuto conto
dello svolgimento del processo presupposto in due gradi e
dell’allungamento di un anno conseguente a tre richieste
congiunte di rinvio formulate dalle parti, liquidava in
favore della ricorrente un indennizzo pari al valore della
posta in gioco nel giudizio presupposto, ritenendo che
l’art.

2-bis della legge n. 89 del 2001, introdotto dal

decreto legge n. 83 del 2012, convertito dalla legge n.
134 del 2012, contenesse un criterio interpretativo di

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Dott. Stefano Petitti.

carattere generale, sicché l’importo dell’indennizzo non
poteva superare il valore della causa presupposta;
che per la cassazione del decreto della Corte
d’appello la Mastroleo ha proposto ricorso sulla base di

che

l’intimato

Ministero

ha

resistito

con

controricorso.
Considerato

che il Collegio ha deliberato l’adozione

di una motivazione in forma semplificata;
che con il primo motivo (violazione dell’art. 2 della
legge n. 89 del 2001 e dell’art. 2056 cod. civ., ai sensi
dell’art. 360, n. 3 e n. 5, cod. proc. civ.) la ricorrente
si duole che la Corte d’appello abbia ritenuto ragionevole
la durata di sette anni e due mesi per un giudizio di
normale complessità svoltosi in due gradi, senza dare
alcuna concreta indicazione in ordine alle ragioni dello
scostamento dalla durata che normalmente si ritiene
ragionevole di tre anni per il primo grado e di due anni
per il giudizio di appello;
che, ad avviso della ricorrente, tenuto conto del
fatto che l’udienza della causa relativa alla domanda di
equa riparazione era stata fissata ad un anno dal deposito
del ricorso, la durata complessiva del giudizio
presupposto avrebbe dovuto essere determinata in
diciassette anni e due mesi, sicché, detratti i cinque

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tre motivi;

anni di durata ragionevole, il periodo indennizzabile
avrebbe dovuto essere di dodici anni e due mesi;
che il motivo è in parte infondato e in parte
inammissibile;

cui si deduce lo scostamento dalla durata ragionevole di
tre anni e due anni per i due gradi di giudizio sotto il
profilo della violazione di legge;
che secondo la giurisprudenza di questa Corte, «in
tema di diritto all’equa riparazione di cui alla legge 24
marzo 2001, n. 89, per la valutazione della ragionevole
durata del processo deve tenersi conto dei criteri
cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte
europea dei diritti dell’uomo, alle cui sentenze,
riguardanti l’interpretazione dell’art. 6, par. 1, della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, richiamato
dalla norma interna, deve riconoscersi soltanto il valore
di precedente, non sussistendo nel quadro delle fonti
meccanismi normativi che ne prevedano la diretta
vincolatività per il giudice italiano. Anche in tale
prospettiva, l’accertamento della sussistenza dei
presupposti della domanda di equa riparazione – ovvero, la
complessità del caso, il comportamento delle parti e la
condotta dell’autorità – così come la misura del segmento,
all’interno del complessivo arco temporale del processo,

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che il motivo è innanzitutto infondato nella parte in

riferibile all’apparato giudiziario, in relazione al quale
deve essere emesso il giudizio di ragionevolezza della
relativa durata, risolvendosi in un apprezzamento di
fatto, appartiene alla sovranità del giudice di merito e

attinenti alla motivazione» (Cass. n. 24399 del 2009);
che, quanto al denunciato vizio di motivazione, il
motivo è inammissibile, atteso che il provvedimento
impugnato è stato depositato dopo 1’11 settembre 2012 e
che, quindi, il ricorso è soggetto alla nuova formulazione
dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.;
che in relazione a tale modificazione, questa Corte, a
Sezioni Unite, ha avuto modo di affermare che «la
riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.
proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012,
n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere
interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati
dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo
costituzionale” del sindacato di legittimità sulla
motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di
legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente
all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio
risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere
dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia

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può essere sindacato in sede di legittimità solo per vizi

si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto
l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione
apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed

rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della
motivazione» (Cass., S.U., n. 8053 del 2014);
che, nella specie, le argomentazioni svolte nel
ricorso non evidenziano la deduzione della assoluta
carenza di motivazione nei termini ora indicati; carenza
che, peraltro, non ricorre, dovendosi ritenere che la
Corte d’appello abbia motivato le ragioni dello
scostamento dalla durata ragionevole del processo facendo
riferimento alla riunione dello stesso ad altra causa e
alle necessità istruttorie, nonché detraendo dalla durata
complessiva un anno circa, perché imputabile a richieste
di rinvio concordemente formulate dalle parti;
che nel mentre tale ultimo profilo del decreto
impugnato non è stato specificamente censurato, le
deduzioni svolte dalla ricorrente non evidenziano la
fattispecie della assoluta carenza di motivazione o della
motivazione apparente, e comunque non introducono una
doglianza che potrebbe essere scrutinata da questa Corte
nei sensi prima indicati;

obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque

che quanto alla pretesa di considerare nel computo
della durata complessiva del giudizio presupposto anche il
lasso di tempo intercorso tra il deposito della domanda di
equa riparazione e la fissazione dell’udienza di

inammissibile, atteso che non è possibile unificare la
durata del giudizio presupposto e quella del giudizio di
equa riparazione (Cass. n. 12566 del 2015);
che con il secondo motivo la ricorrente denuncia altra
violazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, degli
artt. 2056, 1223 e 1226 cod. civ., dell’art. 1 della legge
costituzionale n. 2 del 1999, dell’art. 6, par. l, della
CEDU, dell’art. 11 delle preleggi, dell’art. 55 del
decreto legge n. 83 del 2012 e dell’art.
n. 134 del 2012

2-bis della legge

(recte: dell’art. 2-bis della legge n. 89

del 2001, introdotto dal decreto-legge n. 83 del 2012,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del
2001), nonché vizio di motivazione contraddittoria e
omesso esame su fatti decisivi, censurando il decreto
impugnato per avere la Corte d’appello fatto applicazione
della disposizione da ultimo citata la quale
effettivamente prevede che l’indennizzo non possa superare
il valore della causa in relazione alla quale viene
chiesto sebbene la stessa sia applicabile ai soli

trattazione del ricorso, la stessa è del pari

ricorsi depositati dopo l’entrata in vigore della legge di
conversione;
che con il terzo motivo – rubricato violazione degli
artt. 1223, 1226 e 2056 cod. civ., nonché dell’art. 2

3 e n. 5, cod. proc. civ., nonché contraddittoria
motivazione e omesso esame su fatti decisivi – la
ricorrente rileva che il danno da irragionevole durata va
ragguagliato al criterio di 750,00 euro per i primi tre
anni di ritardo e di 1.000,00 euro per ciascuno degli anni
successivi, e non al valore della causa presupposta;
che all’esame dei motivi
ragioni di
congiuntamente

i quali, per evidenti

connessione possono essere esaminati
occorre premettere che la presente

controversia non è soggetta,

ratione temporis,

all’applicazione delle disposizioni introdotte dal d.l. n.
83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla legge n.
134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a
decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di
entrata in vigore della legge di conversione;
che alle disposizioni introdotte nel 2012 non può
neanche riconoscersi natura di norme di interpretazione
autentica, atteso che, se è vero che per alcuni aspetti
vengono recepiti orientamenti della giurisprudenza di
questa Corte mutuati dalla giurisprudenza della Corte

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della legge n. 89 del 2001, in relazione all’art. 360, n.

europea dei diritti dell’uomo, non vi è nulla nel decretolegge n. 83 del 2012 che possa indurre a ritenere che il
legislatore

abbia

inteso

attribuire

alle

nuove

disposizioni efficacia retroattiva, avendo, anzi,

entrata in vigore della nuova disciplina;
che tanto premesso, il secondo motivo di ricorso è
fondato, atteso che la Corte d’appello ha determinato
l’indennizzo erroneamente facendo applicazione di una
disposizione non ancora in vigore;
che il terzo motivo, con il quale la ricorrente
sostiene che l’indennizzo dovrebbe essere determinato in
750,00 euro per ciascuno dei primi tre anni di ritardo e
in 1.000,00 euro per ciascuno degli anni successivi, è
assorbito;
che l’accoglimento del secondo motivo, comporta la
cassazione del decreto impugnato;
che, tuttavia, non essendo necessari ulteriori
accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel
merito ai sensi dell’art. 384, secondo comma, cod. proc.
civ.;
che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, se
è vero che il giudice nazionale deve, in linea di
principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione
elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo

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espressamente dettato una specifica previsione per l’

(secondo cui, data l’esigenza di garantire che la
liquidazione sia satisfattiva di un danno e non
indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non
patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a euro

anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a
euro 1.000,00 per ciascuno di quelli successivi), permane,
tuttavia, in capo allo stesso giudice, il potere di
discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto
riguardo alle peculiarità della singola fattispecie,
ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti
criteri, dei quali deve dar conto in motivazione (Cass. n.
18617 del 2001; Cass. n. 17922 del 2010);
che, in applicazione di tali principi, questa Corte ha
affermato che «in tema di equa riparazione, ai sensi della
legge 24 marzo 2001, n.89, per violazione del diritto alla
ragionevole durata del processo, il giudice, nel
determinare la quantificazione del danno non patrimoniale
subito per ogni anno di ritardo, può scendere al di sotto
del livello di “soglia minima” là dove, in considerazione
del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa
patrimoniale azionata nel processo presupposto,
parametrata anche sulla condizione sociale e personale del
richiedente, l’accoglimento della pretesa azionata
renderebbe il risarcimento del danno non patrimoniale del

750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre

tutto sproporzionato rispetto alla reale entità del
pregiudizio sofferto» (Cass. n. 12937 del 2012);
che nella giurisprudenza di questa Corte si è quindi
pervenuti a ritenere che l’indennizzo di 500,00 euro per

simbolico indennizzo del pregiudizio sofferto dalla parte
per irragionevole durata del processo;
che, nella specie, tenuto conto del valore della
controversia, che se non può costituire il parametro di
liquidazione del danno concorre indubbiamente ad
apprezzarne la rilevanza, l’indennizzo può essere
determinato in euro 4.500,00, applicando per i nove anni
di durata irragionevole accertati, il criterio di 500,00
euro per anno (ritenuto dalla giurisprudenza di questa
Corte idoneo ad assicurare una idonea riparazione nel caso
di irragionevole durata delle procedure fallimentari:
Cass. n. 16311 del 2014);
che, dunque, il Ministero della giustizia deve essere
condannato al pagamento, in favore della ricorrente, della
somma di euro 4.500,00 oltre agli interessi legali dalla
data della domanda al soddisfo;
che, quanto alle spese, ferme quelle del giudizio di
primo grado, quelle del giudizio di cassazione, liquidate
coma da dispositivo, seguono la soccombenza;

anno di ritardo costituisca un idoneo e non meramente

4

che le spese vanno poi distratte in favore del
difensore della ricorrente, dichiaratosi antistatario.
PER QUESTI MOTIVI
dichiara inammissibile

ricorso; accoglie il secondo,

il primo motivo di

assorbito il terzo; cassa il

decreto impugnato in relazione alle censure accolte e,
decidendo la causa nel merito,

condanna il Ministero della

giustizia al pagamento, in favore della ricorrente, della
somma di euro 4.500,00, oltre agli interessi legali dalla
data della domanda al soddisfo, ferme le statuizioni
relative alle spese; condanna il Ministero della giustizia
al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che
liquida in euro 700,00 per compensi, oltre agli accessori
di legge e alle spese forfetarie;

dispone la distrazione

delle spese in favore del difensore antistatario.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della
VI – 2 Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione,

La Corte

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