Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20907 del 21/07/2021

Cassazione civile sez. II, 21/07/2021, (ud. 17/12/2020, dep. 21/07/2021), n.20907

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19009/2018 R.G. proposto da:

G.G., in proprio e quale erede di G.L., rappresentato

e difeso dall’Avv. Maria Maldari, con procura speciale in calce al

ricorso e con domicilio in Roma, Piazza Cavour n. 1, presso

cancelleria Corte di Cassazione, unitamente all’Avv. P. Fadel, e L.

Alberin;

– ricorrente –

contro

G.B., rappresentato e difeso dall’Avv. Paolo E. Pavan,e

dall’Avv. Vittorio Nuzzaci, con procura speciale in calce al

controricorso e con domicilio in Roma, via della Giuliana n. 44,

presso lo studio del secondo;

– controricorrente –

contro

G.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Simone Cecchin, e

dall’Avv. Raffaello Gioioso, con procura speciale in calce al

controricorso e con domicilio in Roma, via della Giuliana n. 44,

presso lo studio del secondo;

– controricorrente –

contro

GA.FA.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 2949

depositata il 21 dicembre 2017.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 17 dicembre

2020 dal Consigliere Dott. Milena Falaschi.

 

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– il Tribunale di Treviso – Sezione distaccata di Montebelluna, con sentenza non definitiva n. 2112 del 2016, in accoglimento della domanda proposta da G.M., terzo chiamato nel giudizio introdotto da G.G. nei confronti di G.B., chiamati in causa da quest’ultimo anche G.L. e Ga.Fa., dichiarava l’intervenuta usucapione in favore del chiamato sui mappali n. (OMISSIS), cointestati a tutte le parti, rigettata la domanda attorea volta ad ottenere pronuncia di intervenuta usucapione relativamente alla porzione immobiliare ubicata in Comune di (OMISSIS), mappali (OMISSIS), sezione A foglio (OMISSIS);

– sul gravame interposto da G.G., la Corte d’appello di Venezia, costituita la Ga., che aderiva al gravame, oltre a G.B. e M. che resistevano, rigettava l’impugnazione ritenendo inammissibili taluni motivi ai sensi dell’art. 342 c.p.c., nonché la produzione di nuovi documenti avvenuta solo in appello e relativamente a due testamenti olografi, a copia notarile della donazione del 13.11.1980 e a copia della nota di trascrizione della vendita tra G.M. e D.Z.A.. Nel merito, accertava che la convenzione divisoria intervenuta tra i comproprietari nel 1986 costituiva pacifico esercizio di compossesso e le successive missive intercorse con l’attore tra il 1997 ed il 2006, seppure non idonee ai fini interruttivi dell’usucapione, erano però idonee ad inficiare l’elemento soggettivo della pretesa usucapione, non appaganti sul punto neanche le prove testimoniali richiamate dall’appellante;

– per la cassazione del provvedimento della Corte d’appello di Venezia ricorre G.G., in proprio e quale erede di G.L., sulla base di otto motivi;

– resistono con separati controricorsi G.B. e M., rimasta intimata la Ga.;

– in prossimità dell’adunanza camerale ha depositato memoria illustrativa il solo ricorrente.

Atteso che:

– con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2 n. 4, oltre a violazione e falsa applicazione degli artt. 112,99,100 c.p.c., art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1, artt. 189 e 190 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte territoriale rilevato d’ufficio l’inammissibilità di parte del ricorso, nonostante le parti appellate nulla avessero eccepito, per avere G.B. solo in comparsa conclusionale introdotto l’aggettivo “inammissibile”, contro qualsiasi forma di contraddittorio.

La censura non può trovare ingresso.

Il ricorrente nel trascrivere la parte di sentenza impugnata che contesta non riporta in maniera intelligibile i motivi di appello che sono stati ritenuti inammissibili, limitandosi ad una loro stringata enunciazione inserita nell’ambito di un ben più vasto commento delle ragioni sottese alla proposizione delle medesime censure. Aggiunge, però, il ricorrente che aveva sempre insistito sull’accoglimento dell’appello e sulla fondatezza dei motivi di gravame, dei quali, tuttavia, non si fornisce nel ricorso alcuna specificazione, ritenendosi erroneamente sufficiente, ai fini della ammissibilità dell’appello, la mera indicazione delle parti della sentenza di primo grado non condivise dalla parte appellante. L’infondatezza di tale assunto è evidente.

Ed, invero, non soddisfa le condizioni di ammissibilità l’atto di appello che si limiti ad indicare la parti censurate della sentenza impugnata e ad enunciare le doglianze, senza lo svolgimento, in contrapposizione con il ragionamento giustificativo svolto dal giudice censurato, delle diverse argomentazioni e/o delle tesi giuridiche dell’appellante, volte alla dimostrazione della infondatezza logico-giuridica del proposizioni che sorreggono la sentenza impugnata. Alla parte volitiva dell’appello che, indicando i punti e i capi della sentenza impugnata sottoposti a gravame, fissa i limiti della controversia devoluta al giudice della impugnazione, deve necessariamente accompagnarsi la parte argomentativa in cui vengono svolte, con sufficiente grado di specificità, le ragioni che sorreggono le tesi dell’appellante e che siano correlate alla motivazione della sentenza appellata. La mancanza della parte argomentativa dei motivi rende l’appello inammissibile e tale inammissibilità non può essere sanata dopo la consumazione del diritto di impugnazione né integrata utilizzando l’attività difensiva dell’appellato, dovendo, peraltro – diversamente da quanto asserito dal ricorrente – essere rilevata di ufficio, non attenendo i requisiti di forma della impugnazione e le relative decadenze a materia disponibile dalle parti (v. in termini, Cass. n. 22906 del 2005 e Cass. n. 21745 del 2006).

Per completezza argomentativa si osserva che la Corte distrettuale ha anche adeguatamente argomentato, dopo avere ritenuto l’inammissibilità di talune censure, le ragioni da collegarsi al mancato accoglimento della domanda attorea di usucapione, raggruppando i motivi per tematica: uno e due relativi alla ricostruzione della provenienza dei beni; terzo, quarto e quinto relativi a due testamenti olografi non prodotti in primo grado; sesto attinente alla convenzione divisoria; settimo e ottavo riguardanti le prove testimoniali; nono vertente sulle medesime circostanze di cui all’ottavo. Ne consegue la infondatezza del mezzo anche sotto detto profilo;

– con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. e degli artt. 99,100,112,101c.p.c., art. 132c.p.c., comma 2, n. 4, artt. 356, 274 c.p.c., oltre a violazione e falsa applicazione dell’art. 2964 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte distrettuale ritenuto inammissibile la produzione documentale in appello senza tenere conto che dei testamenti il G. era venuto a conoscenza solo nel novembre 2016, allorché gli erano stati consegnati dal notaio che li aveva rogati; quanto alla vendita intercorsa fra G.M. e D.Z.A. era stata rogata il 18.11.2009 e dunque ben dopo la scadenza dei termini concessi ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2.

Con il terzo motivo di ricorso è dedotto l’omesso esame di fatti storici decisivi per l’intero giudizio, tempestivamente acquisiti al giudizio e nel pieno contraddittorio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per non avere realmente il giudice del gravame esaminato il testamento olografo del 24.09.1976, pubblicato il 13.09.1982, nonché la convenzione del 14.12.1986 e allegata planimetria, depositati il 05.11.2007.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame di fatti storici decisivi per l’intero giudizio, tempestivamente acquisiti al giudizio e nel pieno contraddittorio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per non avere realmente il giudice del gravame esaminato i documenti prodotti.

Le censure – da trattare unitariamente per la evidente connessione che le avvince vertendo tutte sostanzialmente sulla questione della mancata valutazione di documenti prodotti per la prima volta in appello – sono infondate basandosi sull’applicabilità dell’art. 345 c.p.c., comma 3, secondo la previgente disposizione che contemplava anche l’ammissibilità della produzione di nuovi documenti reputati indispensabili ai fini della decisione della causa.

Parte ricorrente reputa, infatti, erroneamente applicabile alla fattispecie la previsione di cui all’art. 345 c.p.c., nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla novella di cui alla L. n. 134 del 2012, che appunto consente l’ingresso in appello di prove ritenute indispensabili (alla luce di quanto specificato da Cass. Sez. Un. 10790 del 2017), senza però considerare che nel procedimento di appello risultava già applicabile la nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c., che, a seguito della novella del 2012, consente l’ammissione di nuovi mezzi di prova o la produzione di nuovi documenti solo se la parte dimostri di non averli potuto proporre o produrre in primo grado per causa ad essa non imputabile.

Infatti, questa Corte, ha chiarito che (Cass. n. 26522 del 2017) nel giudizio di appello, la nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3, quale risulta dalla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, è applicabile nel caso in cui la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dopo l’11 settembre 2012, trovando quindi applicazione il divieto assoluto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appello, senza che assuma rilevanza l’indispensabilità” degli stessi, e ferma per la parte la possibilità di dimostrare di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile (conf. Cass. n. 6590 del 2017, secondo cui la modifica, in senso restrittivo rispetto alla produzione documentale in appello, dell’art. 345 c.p.c., comma 3, operata dal D.L. n. 83 del 2012, trova applicazione, mancando una disciplina transitoria e dovendosi ricorrere al principio “tempus regit actum”, solo se la sentenza conclusiva del giudizio di primo grado sia stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della L. n. 134 del 2012, di conv. del D.L. n. 83 cit. e, cioè, dal giorno 11 settembre 2012).

Poiché la sentenza impugnata dinanzi alla Corte d’Appello è stata pubblicata in data 25 agosto 2016, risulta incensurabile la decisione gravata, che ha appunto escluso che potesse procedersi alla produzione di documenti, sicuramente preesistenti alla stessa data di introduzione del giudizio, trattandosi di due testamenti del 14 maggio 1975 e 23 giugno 1976, di copia notarile della donazione del 13 novembre 1980 e di copia della nota di trascrizione della vendita intervenuta fra G.M. e D.Z.A., peraltro neanche addotta una giustificazione del tardivo deposito.

Ad abundantiam, va altresì ricordato che, anche nel caso in cui si fosse reputato applicabile il vecchio testo dell’art. 345 c.p.c., la giurisprudenza di questa Corte ha precisato che (Cass. n. 12574 del 2019), ove si invochi l’indispensabilità della documentazione, è necessario che la relativa produzione avvenga, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione nell’atto introduttivo del secondo grado di giudizio, salvo che la loro formazione sia successiva e la loro produzione si renda necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo (conf. Cass. n. 11510 del 2014; Cass. n. 12731 del 2011), sicché anche in relazione a tale profilo la produzione invocata dal ricorrente non poteva essere utilizzata dal giudice di appello;

– con il quinto motivo è dedotta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1140, 1141, 1142 e 1158, in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., oltre a violazione e falsa applicazione degli artt. 1165,2943,1167,1144 c.c., quanto alla interruzione del decorso della prescrizione acquisitiva e relativamente agli atti di tolleranza, stante la loro natura eccezionale ed occasionale. Ad avviso del ricorrente il secondo giudice del merito avrebbe tralasciato anche il processo normovalutativo del substrato probatorio.

Anche la quinta censura non può trovare ingresso.

La Corte territoriale sulla base degli elementi probatori acquisiti ed in particolare della prova testimoniale ammessa ed espletata in primo grado ha ritenuto che non era risultato in modo univoco e sufficientemente preciso che G.G. avesse avuto l’autonomo ed esclusivo godimento dei beni comuni di cui pretendeva di essere divenuto proprietario per l’intero; più in particolare ha affermato che le dichiarazioni testimoniali richiamate dall’appellante in proprio favore non erano appaganti rispetto all’elemento soggettivo essendo tra loro contraddittorie e generiche sul punto relativo all’animus possidendi. Di converso delle testimonianze rese da N., D., G., D.Z., C. e Ca. emergeva univocamente che solo G.M. da oltre venti anni utilizzava il capannone quale ricovero degli attrezzi, utensili ed automezzi uti dominus, oltre a rilevare che a siffatto capannone si poteva accedere esclusivamente dalla proprietà di G.M.. Il fatto che G.G. avesse, poi, formulato delle critiche all’elaborato peritale non aveva alcuna rilevanza trattandosi di relazione puramente descrittiva quanto allo stato dei luoghi, che aveva curato la raccolta dei dati presso gli uffici dei pubblici registri, per cui non potevano costituire elementi sufficienti ai fini della prova dell’usucapione, non rivelando un possesso esclusivo incompatibile con il permanere del compossesso altrui.

Tale convincimento è condivisibile in quanto conforme all’orientamento consolidato di questa Corte secondo cui in tema di compossesso il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non e’, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso “ad usucapione”, e non anche, invece, conseguenza di un atteggiamento di mera tolleranza da parte dell’altro compossessore, risultando per converso necessario, ai fini dell’usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla “res” da parte dell’interessato attraverso una attività apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui, gravando l’onere della relativa prova su colui che invochi l’avvenuta usucapione del bene (vedi “ex multis” Cass. 18 febbraio 1999 n. 1367; Cass. 15 giugno 2001 n. 8152; Cass. 20 settembre 2007 n. 19478), non essendo al riguardo sufficienti atti soltanto di gestione consentiti al singolo partecipante o anche atti familiarmente tollerati dagli altri, o ancora atti che, comportando solo il soddisfacimento di obblighi o l’erogazione di spese per il miglior godimento della cosa comune, non possono dare luogo ad una estensione del potere di fatto sulla cosa nella sfera di altro compossessore (Cass. 11 agosto 2005 n. 16841). Alla luce di tale orientamento è evidente l’irrilevanza delle circostanze addotte a sostegno della propria tesi da parte del ricorrente, posto che il godimento esclusivo dei beni in questione da parte di G.G. non comporta di per sé una situazione oggettivamente incompatibile con il possesso altrui; diversamente l’accertamento ha dato esito favorevole alla posizione di G.M. proprio perché lo stesso ha dato prova di un possesso, ultraventennale e non clandestino, che escludeva tutti gli altri comproprietari;

– con il sesto, il settimo e l’ottavo motivo il ricorrente lamenta l’omesso esame di fatti storici essenziali documentati negli atti prodotti. In particolare viene fatto riferimento al testamento olografo del 24.09.1976, alla convenzione del 14.12.1986, alla relazione ipotecaria, alla donazione del 13.11.1980 e alla loro implicazione con la domanda attorea (sesto mezzo); all’avvenuta divisione dell’intero patrimonio che sarebbe confermata in via contrattuale (settimo mezzo) e alla errata valutazione in maniera “asettica” della c.t.u. (ottavo mezzo).

Premesso che le censure sono sia singolarmente sia nel loro insieme di difficile comprensione, sono inammissibili per quanto riguarda la richiesta di valutazione della documentazione prodotta tardivamente, per quanto esposto ai motivi due, tre e quattro; del pari sono inammissibili le deduzioni quanto alla mancata integrazione del contraddittorio ovvero alla chiamata dei terzi di cui non risulta che abbiano formato oggetto di uno specifico motivo di appello.

Conclusivamente, il ricorso va respinto.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in cassazione, liquidate per ciascuno dei controricorrenti in complessivi Euro 4.300,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma 1-bis dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 17 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021

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