Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20905 del 12/09/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 20905 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: BALESTRIERI FEDERICO

SENTENZA

sul ricorso 22560-2011 proposto da:
LE CARRUBE IMMOBILIARE S.P.A., (già CUOTTO S.R.L.)
04561750631, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA A.
BAIAMONTI 4, presso lo studio dell’avvocato AMATO
RENATO, rappresentato e difeso dall’avvocato SARNO
2013

SABINO ANTONINO, giusta delega in atti;
– ricorrente –

4121

contro

BENNACER

MOKHTAR

BNNMHT62R12K301Z,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO PISANO 16, presso lo

Data pubblicazione: 12/09/2013

studio del dott. VINCENZO LEOPOLDO, rappresentato e
difeso dall’avvocato OTTATO GAETANO, giusta delega in
atti;

controri corrente

avverso la sentenza n. 4152/2009 della CORTE D’APPELLO

avverso la sentenza n.

4315/2011 della CORTE D’APPELLO

di NAPOLI, depositata il 24/09/2011, r.g.n.
10462/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 27/03/2013 dal Consigliere Dott. FEDERICO
BALESTRIERI;
udito l’Avvocato SARNO SABINO ANTONINO;
udito l’Avvocato GAETANO OTTATO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIULIO ROMANO, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

di NAPOLI, depositata il 1/08/2009, r.g.n. 10462/09;

Svolgimento del processo
La Carrube Immobiliare s.p.a. deduceva che la Corte di appello di
Napoli, in parziale accoglimento del gravame, aveva ritenuto
l’inefficacia del licenziamento orale irrogato a Bennacer Mokhtar il
15 novembre 1998 dalla società Carrube Immobiliare; dichiarato la

dal 1° ottobre 1988, a decorrere dal marzo 1991″; condannato
conseguentemente la società appellata al pagamento della
complessiva somma di euro 147.674,12, oltre rivalutazione
monetaria ed interessi legali; condannato la società appellata alla
reintegra dell’appellante nel posto di lavoro ed alla corresponsione
della retribuzione globale di fqtto dalla data del licenziamento fino a
quello della reintegra, con versamento dei relativi contributi
previdenziali ed assistenziali, oltre accessori.
La società Carrube Immobiliare sosteneva che la sentenza della
Corte partenopea risultava affetta da errore di fatto ai sensi dell’art.
395 n. 4 c.p.c., laddove, a causa di un errore percettivo, dopo aver
qualificato le due conciliazioni del 22 novembre 1997 e del 21
novembre 1998 “semplici transazioni privatistiche impugnabili ex
art. 2113 c.c.”, affermava che: “non risulta, tuttavia, eccepita dalla
società la decadenza dei sei mesi dalla cessazione del rapporto”.
Lamentava la società che invece, sin dalla memoria di costituzione
in giudizio ex art. 416 c.p.c., alla pagina 10, aveva dedotto:
“Orbene è notorio che i verbali di conciliazione, redatti ai sensi
dell’art. 411 c.p.c., siano sottratti ad ogni impugnativa; in ogni
caso, nella denegata ipotesi in cui dovesse essere ritenuto che i
citati atti abbiano valore di mere quietanze …., la loro impugnativa
sarebbe awenuta ben oltre il termine semestrale di legge”.
Riteneva dunque che la Corte di merito avesse, per un errore
percettivo, supposto l’inesistenza di un fatto (l’eccezione di
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sussistenza fra le parti di “un unico rapporto di lavoro subordinato

decadenza dall’impugnativa ex art. 2113 c.c.), invece esistente,
chiedendo all’adito Collegio, in via preliminare di sospendere il
termine per proporre ricorso per cassazione, e, riconosciuta
l’esistenza del denunciato errore di fatto revocatorio, revocare la
propria sentenza n. 4152\09, e considerare decaduto il lavoratore

con ogni conseguenza di legge.
Con ordinanza del gennaio 2010 la Corte di merito sospendeva il
termine per proporre ricorso per cassazione.
Si costituiva Bennacer Mokhtar, contestando la domanda,
evidenziando che una completa lettura della sentenza impugnata
per revocazione rendeva del tutto irrilevante il preteso errore
revocatorio, ove mai esistente, essendo censurabile solo con ricorso
per cassazione, in quanto la Corte d’appello di Napoli aveva
accertato che le due conciliazioni sindacali, per il loro concreto
contenuto erano da considerarsi mere quietanze liberatorie, e
quindi per le stesse non vi era alcun obbligo di impugnativa.
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza depositata il 24
settembre 2011, rigettava l’istanza di revocazione e condannava la
società al pagamento delle spese.
Riteneva la Corte partenopea che pur contenendo la sentenza
oggetto di revocazione l’affermazione che le due conciliazioni
costituivano “semplici transazioni privàttiche impugnabili ex art.
2113 c.c.”, aveva in realtà, secondo una lettura complessiva della
sentenza ed all’esito della prova testimoniale, fondato la decisione
sulla circostanza che in realtà trattavasi di mere dichiarazioni di
scienza, o quietanze a saldo, prive di valore negoziale, impugnabili
nei termini ordinari di prescrizione.
Per la cassazione di entrambe le sentenze propone ricorso la
società Carrube immobiliare, affidato a sei motivi.
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dalla possibilità di impugnare le due conciliazioni sindacali citate,

Resiste il Bennacer con controricorso. Entrambe le parti hanno
depositato memoria ex art. 378 c.p.c.
Motivi della decisione
1.-Deve preliminarmente escludersi che nella specie si sia verificata
una cessazione della materia del contendere, come dedotto dalla

all’azione da parte del Bennacer.
La recisa contestazione dell’atto da parte di quest’ultimo, che ha
peraltro dichiarato di voler proporre querela di falso in ordine al
documento ex adverso prodotto, impongono la decisione nel merito
del presente ricorso (Cass. 22 dicembre 2006 n. 27460; Cass. 9
agosto 2002 n. 12090; Cass. 24 giugno 2000 n. 8607; Cass. 22
gennaio 1997 n. 622), dovendo rimarcarsi che la cessazione della
materia del contendere costituisce una fattispecie di sopravvenuta
carenza di interesse delle parti alla naturale conclusione del
giudizio, la quale può essere dichiarata soltanto quando i
contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto
mutamento della situazione e sottopongano al giudice conclusioni
conformi; pertanto, deve escludersi che possa dichiararsi siffatta
cessazione della lite per avere una delle parti allegato e provato
l’insorgenza di fatti astrattamente idonei a privare essa stessa o la
controparte dell’interesse alla prosecuzione del giudizio e quando,
come nella specie, nelle rispettive conclusioni ciascuno abbia
insistito sulle originarie domande (Cass. 13 giugno 2008 n. 16017;
Cass. 8 novembre 2007 n. 23289).
2. -Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la sentenza
emessa in sede di revocazione per violazione dell’art. 395 n. 4
c.p.c.
La ricorrente lamenta che il giudice della revocazione non avrebbe
potuto, una volta accertato il preteso errore di fatto (la ritenuta
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società, per essere nelle more, in tesi, intervenuto atto di rinuncia

inesistenza

dell’eccezione

di

decadenza

dall’impugnativa),

procedere ad una ulteriore valutazione, ritenendo che esso non
aveva carattere dirimente essendo la sentenza oggetto di
revocazione sorretta da diversa ratto decidendi.
Il motivo è infondato (ed assorbe, per quanto si dirà, l’intero

Ed invero assume rilievo decisivo nella fattispecie la circostanza
che, come nella parte espositiva riportato, la stessa società
ricorrente ammette in sostanza di non aver affatto eccepito la
mancata impugnazione di transazioni ex art. 2113 c.c., affermando
(per quanto qui interessa) di aver tempestivamente esposto nella
memoria di costituzione ex art. 416 c.p.c. che “nella denegata
ipotesi in cui dovesse essere ritenuto che i citati atti abbiano valore
di mere quietanze, la loro impugnativa sarebbe avvenuta ben oltre
il termine semestrale di legge”, lamentando dunque la mancata
impugnativa di atti che non necessitano di alcuna impugnazione.
Ne consegue la manifesta infondatezza della revocazione proposta
ed il conseguente vizio del provvedimento di sospensione dei
termini per impugnare la prima sentenza ex art. 398, comma 4,
c.p.c., che ciò consente solo qualora la revocazione risulti non
manifestamente infondata.
3. Deve allora evidenziarsi che la società ricorrente, invece di
proporre tempestivo ricorso per cassazione awerso la (prima)
sentenza del 1°agosto 2009 (peraltro non precluso dalla eventuale
pendenza del ricorso per revocazione, Cass. 22 maggio 2010 n.
11413, Cass. 11 novembre 2005 n. 22902; come osservato in
dottrina, in tal senso milita lo stesso art. 398, comma 4, laddove
prevede solo la possibilità e non più l’automaticità della
sospensione dei termini, sancendo il principio della libera e parallela
concorrenza tra le due impugnazioni, così da rendere più spedito il
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ricorso).

corso del giudizio di cassazione), ha invece proposto una
revocazione manifestamente infondata, chiedendo ed ottenendo, in
contrasto col citato quarto comma dell’art. 398 c.p.c., la
sospensione del termine per proporre ricorso per casssazione
avverso la prima sentenza.

impugnazione “eccezionale” limitata agli specifici e tassativi vizi di
cui all’art.395 c.p.c. (cfr. per tutte, Cass. sez.un. 25 luglio 2007 n.
16402), non suscettibili pertanto di interpretazione estensiva. I vizi
di cui ai numeri 4 e 5 del citato art. 395, configuranti la
revocazione cd. ordinaria (distinta da quella straordinaria,
ricorrente nelle ipotesi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6, proponibile anche
dopo il passaggio in giudicato della sentenza), sono pacificamente
definiti “palesi”, poiché intrinseci alla sentenza e riconoscibili alla
semplice lettura della motivazione da parte del soccombente. In
particolare il cd. “errore essenziale” di cui al n. 4 deve consistere in
un chiaro errore di percezione (e giammai di giudizio).
Proprio perché i motivi di revocazione ordinaria sono palesi e
riconoscibili, essa è soggetta ai normali termini di impugnazione, di
trenta giorni dalla notifica, anche per le sentenze delle Corti
d’appello (art. 325 c.p.c.), ovvero di sei mesi dalla pubblicazione
della sentenza (art. 327 c.p.c., nel testo novellato dall’art. 46,
comma 17, della legge 18 giugno 2009 n. 69).
Giova poi considerare che nell’istituto della revocazione confliggono
due diverse esigenze: quella di giustizia sostanziale, diretta al più
corretto soddisfacimento dei diritti azionati, e quella, speculare,
della celere definizione del processo e del conseguente
raggiungimento della cosa giudicata, beni entrambi
costituzionalmente tutelati.

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4. Conviene al riguardo rimarcare che la revocazione è

Ed è proprio alla luce del principio del giusto processo, previsto
dall’art. 111, comma 2, Cost., e dagli artt. 6 e 13 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, oltre che del principio di lealtà processuale, di cui
all’art. 88, comma 1, c.p.c., che le due esigenze debbono trovare

vizio revocatorio di cui all’art. 395, nn. 4 e 5, già imporrebbe di
considerare ammissibile il rimedio solo laddove il vizio denunciato si
mostri sin da subito rilevante ai fini decisori, non potendosi di
contro ammettere che la revocazione costituisca un non previsto
ulteriore grado di giudizio e comunque uno strumento
essenzialmente diretto al prolungamento del processo, tale effetto
potendo scaturire solo da una chiara, effettiva e non
manifestamente infondata (arg. ex. art. 398 c.p.c.) esigenza di
giustizia sostanziale.
Come osservato in dottrina, il giudice della revocazione deve
valutare, nonostante l’art. 398, ultimo comma, a differenza di
quanto stabilito nell’art. 367 c.p.c., non preveda tale valutazione,
anche se la revocazione sia o meno ammissibile.
La soluzione risulta imposta dalla ratio sottesa alla modifica del
testo dell’art. 398 c.p.c., introdotta dall’art. 68 della legge 26
novembre 1990, n. 353, con cui venne escluso il precedente effetto
sospensivo ipso iure del termine per ricorrere per cassazione (o del
relativo procedimento), conseguente la mera proposizione della
revocazione, tale effetto sospensivo potendo, dopo la riforma,
realizzarsi solo per effetto di un apposito prowedimento adottato
dal giudice della revocazione sulla base di una valutazione di non
manifesta infondatezza della questione (ex plurirnis, Cass.3 agosto
2005 n. 16202).

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contemperamento e sintesi. A tal fine la palese riconoscibilità del

Tale ratio, come evidenziato nella Relazione introduttiva della
novella (Relazione della II commissione permanente giustizia del
Senato, par.10), aveva esattamente lo scopo di scoraggiare il
ricorso a strategie dilatorie, dirette a differire sensibilmente la
formazione del giudicato.

processuale, codificato nell’art. 88, comma 1, c.p.c., e da questa
Suprema Corte più volte valorizzato nei suoi risvolti costituzionali e
sovranazionali (cfr. Cass. sez. un. 20 agosto 2010 n. 18810),
evidenziando ad esempio che la condotta processuale della parte,
caratterizzata dalla ripetuta contestazione della giurisdizione del
giudice amministrativo in favore di quella ordinaria e di quest’ultima
in favore della prima, non solo non risulta conforme al principio in
esame, ma configura un comportamento processuale che
pregiudica il diritto fondamentale del cittadino ad una ragionevole
durata del processo (derivante dall’art. 111 Cost., comma 2 e dagli
artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali), il quale impone peraltro al giudice (ai sensi
degli artt. .175 e 127 c.p.c.) di evitare e impedire comportamenti
che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso,
vietando alle parti comportamenti di carattere puramente
defatigatoria
Analoghi principi sono stati affermati da Cass. sez.un 3 novembre
2008 n. 26373 e da Cass. sez. un. ord. 18 dicembre 2009 n. 26773,
secondo cui il principio del giusto processo, nel suo risvolto
ordinamentale (nazionale ed europeo) della ragionevole durata,
«impone», e non solo suggerisce, al giudice (ai sensi degli artt.
175 e 127 c.p.c.)

di contrastare quei comportamenti che si

traducono in un inutile dispendio di attività processuall e formalità
superflue perché non giustificate dalla struttura dialettica del
9

5. Le considerazioni svolte sono confortate dal principio di lealtà

processo. Secondo Cass. sez.un. ord. 25 marzo 1988 n. 251, “gli
eventuali abusi -consistenti nel proporre la domanda di revocazione
a scopi meramente dilatori- potranno trovare sanzione, secondo i
principi, in base alle disposizioni di cui agli artt. 88 e 96 c.p.c.”
Le considerazioni che precedono risultano peraltro in armonia con

dirette alla riduzione dei termini di impugnazione o di sospensione
del giudizio al fine di agevolare il perseguimento dei principi di
cui all’art. 111, primo e secondo comma, della Costituzione e delle
omolghe norme della CEDU, nonché dell’art. 4, comma 6, del d.m.
20 luglio 2012 n. 140 (in materia dei compensi professionali),
secondo cui “costituisce elemento di valutazione negativa, in sede
di liquidazione giudiziale del compenso, l’adozione di condotte
abusive tali da ostacolare la definizione dei procedimenti in tempi
ragionevoli”.
6. Da ciò consegue l’inammissibilità dell’impugnazione awerso la
sentenza oggetto di revocazione, proposta allorquando erano
trascorsi oltre due anni dalla sua pubblicazione, non risultando
affatto palese e riconoscibile l’errore denunciato e dunque
inammissibile la revocazione stessa e conseguentemente erronea la
sospensione del termine per il ricorso in cassazione ex art. 398
c.p.c.
Le considerazioni che precedono sono confortate da un recente
arresto di questa Corte (Cass. 9 febbraio 2012 n. 1881), cui deve
qui darsi continuità nei termini esposti.
7. Per concludere, il ricorso awerso la prima sentenza

va

dichiarato inammissibile, con identica conseguenza sul ricorso
avverso la sentenza che ha deciso sulla revocazione di sentenza
ormai passata in giudicato, sulla base del seguente principio di
diritto: “La revocazione è impugnazione ‘eccezionale’ limitata agli
10

le recenti riforme processuali (L.18 giugno 2099 n. 69, art.46)

specifici e tassativi vizi di cui all’art.395 c.p.c., non suscettibili di
interpretazione estensiva. I vizi di cui ai numeri 4 e 5 del citato art.
395, configuranti la revocazione cd. ordinaria, debbono essere
‘palesi’, e cioè riconoscibili alla semplice lettura della motivazione
da parte del soccombente. La loro evidente riconoscibilità impone

mostrino immediatamente rilevanti ai fini decisori, non potendo
ammettersi che la revocazione costituisca uno strumento
meramente dilatorio, diretto essenzialmente al prolungamento del
processo. L’art. 398, comma 4, c.p.c., così come modificato
dall’art. 68 della legge 26 novembre 1990, n. 353, interpretato alla
luce della Legge Costituzionale n. 2 del 1999; degli artt. 6 e 13
della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, e cioè dei principi del ‘giusto processo’ e della ‘sua
ragionevole durata’, nonché del principio di lealtà processuale, di
cui all’art. 88, comma 1, c.p.c., osta a che il ricorrente – ove il
ricorso per revocazione risulti manifestamente infondato alla
stregua dell’art. 395 c.p.c. – possa poi giovarsi della sospensione
dei termini per il ricorso per cassazione in quanto la citata
disposizione dell’art. 398 c.p.c., consente detta sospensione solo
allorquando il ricorso per revocazione non risulti manifestamente
infondato”.
7. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la
soccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in
favore del difensore del controricorrente, dichiaratosi antecipante.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, pari ad

11

di considerare ammissibile l’impugnazione solo laddove essi si

E.50,00 per esborsi, E.3.500,00 per compensi, oltre accessori di
legge, da distrarsi in favore dell’aw. Gaetano Ottato.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 27 marzo 2013
Il Presidente

L’estensore

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