Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20897 del 30/09/2020

Cassazione civile sez. VI, 30/09/2020, (ud. 03/07/2020, dep. 30/09/2020), n.20897

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COSENTINO Antonello – Presidente –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12141-2018 proposto da:

V.G., V.M.E., domiciliati in ROMA

presso la Cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentati e

difesi dall’avvocato ENNIO CERIO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

A.F., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato FABIO

BARANELLO, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 408/2017 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 08/11/2017;

Lette le memorie depositate dal contro ricorrente;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/07/2020 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

Con ricorso proposto a norma degli artt. 633 c.p.c. e ss., A.F. chiedeva nei confronti dei coniugi V.G. e R.M.G. ingiunzione di pagamento per la somma di Euro 8.837,81 (IVA inclusa), quale saldo dei lavori di ristrutturazione di un fabbricato degli ingiunti, oggetto di un contratto di appalto stipulato il 10 marzo 2007.

A seguito di chiarimenti richiesti dal giudice del procedimento monitorio, quest’ultimo emetteva decreto ingiuntivo per la minor somma di Euro 5.446,56 (IVA inclusa), avverso il quale i coniugi V. e R. proponevano opposizione, motivata per il fatto che il F. aveva improvvisamente abbandonato il cantiere e ciò aveva costretto gli opponenti a ricorrere ad altre imprese per concludere i lavori. Dunque, in virtù della clausola penale, pattuita nel contratto di appalto per il caso di ritardo nell’ultimazione dei lavori, gli stessi chiedevano con domanda riconvenzionale il pagamento di Euro 15.750,00.

Con sentenza n. 360/2014 il Tribunale di Campobasso accoglieva parzialmente l’opposizione revocando il decreto, confermando però l’ordinanza ex art. 186 bis c.p.c. emessa per la somma di Euro 1.734,06 a favore del F.; inoltre rigettava la domanda riconvenzionale e, stante la reciproca soccombenza, provvedeva alla compensazione delle spese di lite.

F.A. proponeva appello per la riforma della sentenza di primo grado, al fine di ottenere la conferma del decreto ingiuntivo per l’importo di Euro 5.446,56, oltre interessi legali, ovvero la condanna degli opponenti al pagamento della medesima somma.

Si costituivano in appello V.G. e R.M.G., chiedendo il rigetto dell’appello perchè inammissibile ai sensi dell’art. 342 c.p.c. ed infondato nel merito; con appello incidentale, inoltre, riproponevano le richieste rigettate in primo grado relative alla domanda riconvenzionale.

La Corte d’Appello di Campobasso, ritenuto l’appello principale conforme ai dettami previsti dall’art. 342 c.p.c., pronunciava la sentenza n. 408/2017, con la quale accoglieva il gravame principale, in parziale riforma della sentenza del Tribunale.

I giudici dell’appello fondavano la propria decisione condividendo le affermazioni del giudice di primo grado, e cioè che rappresentava circostanza pacifica e risultante dai documenti in atti che il F. avesse ricevuto dagli appellati, acconti per la somma complessiva di Euro 82.000,00, a fronte di Euro 90.837,00 (che rappresentava l’ammontare dei lavori comprensivo di IVA). Tenuto conto che dalla somma totale andava detratta la somma di Euro 3.391,25, in quanto oggetto di contestazione, poichè decurtata per lavori “non ultimati e rifatti”, la somma dovuta dai committenti all’appaltatore doveva quantificarsi in Euro 5.446,56, ossia quanto previsto con il decreto ingiuntivo opposto.

Dal momento che gli appellati avevano già corrisposto la somma di 1.907,46 all’appellante doveva riconoscersi l’ulteriore somma di Euro 3.539,10, oltre interessi legali dal 18/11/2008 e sino all’effettivo soddisfo.

Al contrario andava rigettato l’appello incidentale proposto dai coniugi V., relativo alla domanda riconvenzionale, con cui si chiedeva l’applicazione della clausola penale prevista nel contratto nel caso di ritardo di lavori.

Nel contratto in esame, il termine di ultimazione dei lavori era da reputarsi solo presunto, e nel corso dei lavori era stata presentata una variante dai committenti; peraltro alla committenza veniva lasciata la facoltà di far eseguire da altra ditta i lavori di pavimentazione, rivestimenti e pitturazione, ciò che in effetti era avvenuto, e con liberatoria della ditta appaltatrice.

Peraltro i lavori eseguiti da quest’ultima, una volta terminati, erano stati accettati dal F., come pacificamente risultava dalla sottoscrizione della perizia.

Dunque, stante la totale soccombenza degli appellati, la Corte condannava gli stessi anche al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

Per la cassazione della sentenza di appello ricorrono per cassazione V.G. e V.M.E., in qualità di erede della signora R.M.G., affidandosi a due motivi di ricorso, cui resiste con controricorso A.F..

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la “violazione e falsa applicazione delle seguenti norme di diritto: artt. 1382,1363 e 1367 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

La Corte d’Appello avrebbe errato, mediante un mero richiamo alla motivazione del giudice di primo grado, ad escludere l’applicabilità della clausola penale, prevista all’art. 9 del contratto di appalto.

Escludere la possibilità di attivare la clausola penale per la sola circostanza che il termine dedotto nel contratto era un termine non essenziale contrasterebbe non solo con la ratio dell’art. 1382 c.c., ma anche con la giurisprudenza di legittimità.

Peraltro i giudici dell’appello avrebbero fatto cattiva applicazione anche dei criteri ermeneutici di cui agli artt. 1363 e 1367 c.c., in quanto non avrebbero considerato le clausole relative alla penale e al ritardo nelle prestazioni, ma si sarebbero soffermati solo sui fatti che avrebbero determinato il superamento del termine di ultimazione dei lavori.

In sostanza, la pronunzia oggi impugnata porterebbe a uno svuotamento di significato della clausola penale, che in base ai canoni adottati dalla Corte di Appello di Campobasso, sarebbe sempre inidonea a spiegare i propri effetti.

Con il secondo motivo di ricorso si deduce “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Afferma parte ricorrente che il rigetto dell’appello incidentale compiuto dalla Corte sarebbe privo di adeguata motivazione in quanto fondato unicamente sulle erronee ed insufficienti motivazioni esplicitate dal giudice di primo grado.

A seguito della variante d’opera, le parti avrebbero accettato il progetto iniziale alle stesse condizioni previste dal contratto, e dunque con la previsione dello stesso termine presuntivo finale, circostanza che sarebbe stata del tutto esclusa dalla valutazione dei giudici del merito.

Inoltre, sarebbe del tutto irrilevante la circostanza relativa all’accettazione della perizia di assestamento, poichè in detto documento sarebbe stata riportata la circostanza del ritardo. Dunque, lo sforamento del termine prefissato, la variazione del progetto accettato alle stesse condizioni e la previsione della penale sarebbero fatti decisivi che la Corte avrebbe omesso di esaminare, viziando così la propria pronuncia.

I due motivi, che stante la loro stretta connessione logica possono essere trattati congiuntamente, sono entrambi privi di fondamento e devono dunque essere rigettati.

Ai fini del rigetto deve, innanzitutto, richiamarsi un principio consolidato in tema di ermeneutica contrattuale, secondo cui l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. (cfr. Cass. 27136/2017).

Orbene, la Corte d’Appello, sulla base di una congrua ed esaustiva motivazione, ha ritenuto che il termine indicato in contratto fosse solo presunto, e che tale indicazione presuntiva fosse stata “ampiamente superata” da una serie di circostanze: in primo luogo, dalla presentazione di una variante in corso d’opera, ancorchè accettata alle stesse condizioni contrattuali previste in origine, unitamente alla previsione secondo cui i committenti – odierni ricorrenti – avevano comunque facoltà di far eseguire ad altra ditta i lavori di pavimentazione rivestimenti e pitturazione; in secondo luogo dalla circostanza che, dopo aver effettivamente incaricato altre ditte di completare l’opus, i titolari delle stesse rilasciavano dichiarazioni liberatorie in favore della ditta di A.F. e, da ultimo, dalla accettazione della perizia di assestamento. Alla luce di quanto prospettato dunque, bisogna ribadire quanto già affermato in precedenza da questa Corte, secondo cui in materia di interpretazione del contratto, sebbene i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. siano governati da un principio di gerarchia interna in forza del quale i canoni strettamente interpretativi prevalgono su quelli interpretativi-integrativi, tanto da escluderne la concreta operatività quando l’applicazione dei primi risulti da sola sufficiente a rendere palese la “comune intenzione delle parti stipulanti”, la necessità di ricostruire quest’ultima senza “limitarsi al senso letterale delle parole”, ma avendo riguardo al “comportamento complessivo” dei contraenti, comporta che il dato testuale del contratto, pur rivestendo un rilievo centrale, non sia necessariamente decisivo ai fini della ricostruzione dell’accordo, giacchè il significato delle dichiarazioni negoziali non è un “prius”, ma l’esito di un processo interpretativo che non può arrestarsi al tenore letterale delle parole, ma deve considerare tutti gli ulteriori elementi, testuali ed extratestuali, indicati dal legislatore; ciò anche quando le espressioni appaiano di per sè chiare, atteso che un’espressione “prima facie” chiara può non risultare più tale se collegata ad altre espressioni contenute nella stessa dichiarazione o posta in relazione al comportamento complessivo delle parti (Cass. 9380/2016).

In questi termini, dunque, la pronuncia appare pienamente rispettosa dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1363 e 1367 c.c., nonchè dei consolidati principi sanciti in materia da questa Corte.

Peraltro, alla luce di un ulteriore principio, anch’esso costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione di un regolamento contrattuale può costituire oggetto di un sindacato di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (v. da ultimo, Cass. n. 11254/2018).

Al contrario, condividendo quanto recentemente ribadito da questa Corte, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., ma ha l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. n. 28319/2017).

Così parte ricorrente avrebbe dovuto dimostrare perchè la sentenza risultava in concreto in contrasto con i principi dettati dagli artt. 1363 e 1367 c.c., e tale dimostrazione non può certamente reputarsi offerta dalla semplice prospettazione di una interpretazione diversa da quella data dalla Corte di merito che nel caso di specie ha argomentato il proprio approdo interpretativo in modo ampio ed esaustivo, ponendosi quindi al riparo dalle censure proposte.

Va da ultimo precisato che in tema di interpretazione del contratto, il criterio ermeneutico contenuto nell’art. 1367 c.c. – secondo il quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno – va inteso non già nel senso che è sufficiente il conseguimento di qualsiasi effetto utile per una clausola, per legittimarne una qualsivoglia interpretazione pur contraria alle locuzioni impiegate dai contraenti, ma che, nei casi dubbi, tra possibili interpretazioni, deve tenersi conto degli inconvenienti cui può portare una (o più) di esse e perciò evitando di adottare una soluzione che la renda improduttiva di effetti. Ne consegue che detto criterio – sussidiario rispetto al principale criterio di cui all’art. 1362 c.c., comma 1 condivide il limite comune agli altri criteri sussidiari, secondo cui la conservazione del contratto, cui esso è rivolto, non può essere autorizzata attraverso una interpretazione sostitutiva della volontà delle parti, dovendo in tal caso il giudice evitarla e dichiarare, ove ne ricorrano gli estremi, la nullità del contratto (Cass. n. 28357/2011).

Poste tali premesse, la sentenza gravata non si è arrestata all’affermazione che il termine indicato in contratto era meramente presuntivo, e quindi meramente indicativo, ma ha anche in concreto verificato che non ricorreva un ritardo da parte della ditta appaltatrice, dovendosi in tal senso reputare che non abbia escluso che la clausola penale avrebbe in ogni caso potuto trovare applicazione laddove fosse stata riscontrata una colpevole inerzia della ditta appaltatrice nel portare a termine l’opus appaltato.

A sostegno del rigetto del secondo motivo, peraltro, vi è l’insormontabile contrasto con quanto dedotto all’interno del primo motivo, giacchè parte ricorrente lamenta l’omesso esame di una serie di fatti che, tuttavia, alla luce di quanto esposto nella disamina del primo motivo di ricorso, sono stati in realtà oggetto di un’interpretazione e valutazione, che i ricorrenti reputano però errate, da parte della Corte territoriale.

In questo senso, dunque, è doveroso richiamare quanto più volte affermato da questa Corte, secondo cui il vizio specifico denunciabile per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv. in L. n. 134 del 2012) inerisce all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo; vale a dire che, se tale fatto fosse stato effettivamente esaminato, esso avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 27415/2018).

E’ stato poi recentemente ribadito che l’omesso esame di una questione riguardante l’interpretazione del contratto, non costituendo “fatto decisivo” del giudizio, non è riconducibile al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che rientrano in tale nozione gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi (Cass. n. 20718/2018).

In presenza di una completa ed argomentata valutazione delle risultanze istruttorie, il ricorso si prospetta come volto essenzialmente a sollecitare una rivalutazione delle stesse, attività questa preclusa in sede di legittimità.

Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Non ricorrono i presupposti per la condanna ex art. 96 c.p.c., u.c., come richiesta nella memoria del contro ricorrente.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori come per legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato per il ricorso (principali a norma degli stessi artt. 1 bis e 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2020

 

 

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