Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20893 del 30/09/2020

Cassazione civile sez. II, 30/09/2020, (ud. 14/07/2020, dep. 30/09/2020), n.20893

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20624-2019 proposto da:

A.I., rappresentato e difeso dall’Avvocato ANNA MORETTI, ed

elettivamente domiciliato presso il suo studio in MILANO, P.zza

SANT’AGOSTINO 24;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore,

rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 è

domiciliato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1140/2019 della CORTE d’APPELLO di MILANO

depositata il 15/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/07/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ordinanza emessa in data 10.11.2017 il Tribunale di Milano rigettava il ricorso presentato da A.I. avverso il provvedimento di rigetto della richiesta di riconoscimento della protezione internazionale emesso dalla competente Commissione Territoriale.

Secondo il Tribunale nessuna delle domande proposte dal ricorrente – riconoscimento dello status di rifugiato e, in via gradata, accertamento dei presupposti per la concessione della protezione sussidiaria, ovvero per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari – meritava accoglimento.

Il ricorrente narrava le sue concorrenti ragioni a motivo della fuga dalla (OMISSIS): ossia gli scontri scoppiati fra alcuni gruppi di (OMISSIS) (che avevano condotto a pascolare il bestiame nei campi vicini al suo villaggio, distruggendo i raccolti) e gli abitanti del suo stesso villaggio (che si erano opposti), durante i quali, a detta dell’istante, erano morti entrambi i genitori; nonchè le minacce ricevute nella città di (OMISSIS) (dove si era poi rifugiato) da parte di alcuni membri del partito del (OMISSIS), di cui era stato sostenitore, i quali lo avevano accusato di tradimento per avere accettato, durante le elezioni del 2015, denaro da alcuni appartenenti del partito opposto che in tal modo intendevano portarlo dalla loro parte.

Contro detta ordinanza proponeva appello A.I.. Con sentenza n. 1140/2019, depositata in data 15.3.2019, la Corte d’Appello di Milano rigettava l’appello.

Avverso tale sentenza il richiedente propone ricorso per cassazione sulla base di tre motivi; resiste il Ministero dell’Interno con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, “Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: (la) violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 in relazione al giudizio di non credibilità” del medesimo, poichè la Corte distrettuale si sarebbe limitata a dare rilievo a imprecisioni relative a fatti secondari e irrilevanti, che tra l’altro sarebbero state puntualmente confutate.

1.2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, “Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, (la) violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) e D.Lgs. n. 25 del 2018, art. 8, comma 3 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio relativamente alla situazione in (OMISSIS)”, là dove la Corte territoriale non avrebbe verificato la condizione di persecuzione sulla base di informazioni esterne e oggettive relative alla situazione reale del paese di provenienza.

2. – In considerazione della loro stretta connessione logico-giuridica e formulazione, i motivi primo, quinto e sesto vanno esaminati e decisi congiuntamente.

2.1. – Essi sono inammissibili.

2.2. – Questa Corte ha chiarito che “in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona”, cosicchè “qualora le dichiarazioni siano (come nella specie) giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori” (Cass. n. 16925 del 2018). I fatti allegati del cittadino straniero, qualora non suffragati da prova, possono essere ritenuti credibili se superano una valutazione di affidabilità, basata, tra l’altro, sulla plausibilità logica delle dichiarazioni, valutabile non solo dal punto di vista della coerenza intrinseca, ma anche sotto il profilo della corrispondenza della situazione descritta con le condizioni oggettive del paese (Cass. n. 8282 del 2013).

Come, inoltre precisato (Cass. n. 14006 del 2018) con riguardo alla protezione sussidiaria dello straniero, prevista dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), “l’ipotesi della minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale implica o una contestualizzazione della minaccia suddetta, in rapporto alla situazione soggettiva del richiedente, laddove il medesimo sia in grado di dimostrare di poter essere colpito in modo specifico, in ragione della sua situazione personale, ovvero la dimostrazione dell’esistenza di un conflitto armato interno nel Paese o nella regione, caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata, che raggiunga un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile, rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione, correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire detta minaccia”.

2.3. – La nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), dev’essere interpretata in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi a cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di essa di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; v. Cass. n. 13858 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018).

Nel caso, il giudice di merito ha puntualmente valutato la situazione del paese di origine del richiedente, giungendo ad escludere la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c) all’esito di un’articolata valutazione recentemente desunta (come detto) da siti internazionali accreditati (rapporti annuali di Amnesty Intrenational 2017/2018 e di EASO COI (OMISSIS) novembre 2018), senza peraltro che il ricorrente abbia, in senso contrario, addotto altre diverse idonee fonti, più recenti). Laddove, lo stesso ricorrente richiama (non meglio specificati) “recenti rapporti” sullo stato socio politico della (OMISSIS), che indicano persistenti gravi conflitti in stati dove è significativa la presenza del gruppo terroristico islamico (OMISSIS), viceversa non ritenendo incluso il (OMISSIS), dove il ricorrente aveva sempre vissuto.

2.4. – Peraltro, così come riguardo alla affermazione circa la non credibilità del racconto del richiedente, tale accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato (come sopra detto) può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (applicabile alla fattispecie ratione temporis).

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente censura, “Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6: in merito al giudizio comparativo della situazione di vulnerabilità e omesso esame del periodo libico”, poichè nell’iter logico della sentenza impugnata è mancato il confronto tra la vicenda personale, che ha indotto lo stesso ad abbandonare il paese d’origine, e la vita attuale del medesimo in Italia.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – Come ripetutamente affermato da questa Corte (da ultimo, Cass. n. 1516 del 2020; conf. Cass. n. 6265 del 2020), la condizione di vulnerabilità può avere ad oggetto anche le condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa.

Al fine di verificare la sussistenza di tale condizione, non è sufficiente l’allegazione di una esistenza migliore nel Paese di accoglienza, sotto il profilo dell’integrazione sociale, personale o lavorativa, ma è necessaria una valutazione comparativa tra la vita privata e familiare del richiedente in Italia e quella che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.

Nè il livello di integrazione dello straniero in Italia nè il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del medesimo integrano, se assunti isolatamente, i seri motivi umanitari alla ricorrenza dei quali lo straniero risulta titolare di un diritto soggettivo al rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Da un lato, infatti, il diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 CEDU, può subire ingerenze da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e il rispetto delle leggi in materia di immigrazione, in modo particolare nel caso in cui lo straniero non goda di un titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale. Dall’altro, il contesto di generale compromissione dei diritti umani nel Paese di provenienza del richiedente deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente stesso, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la sua situazione particolare, ma quella del suo Paese di origine in termini generali e astratti, in contrasto con il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.

3.3. – Il riconoscimento della protezione umanitaria al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato d’integrazione sociale in Italia, non può pertanto escludere l’esame specifico ed attuale della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine. Tale riconoscimento deve infatti essere fondato su una valutazione comparativa effettiva tra i due piani, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza (Cass. n. 4455 del 2018).

3.4. – Quanto alla mancata considerazione come fattore di vulnerabilità della dedotta permanenza in Libia ed il clima di violenza diffusa verso i migrantiche ha dovuto subire, va rilevato che non risultano specificati i periodi di detenzione o di assoggettamento a trattamenti inumani e degradanti, produttiva di una condizione di vulnerabilità.

3.5. – A tal riguardo il motivo appare ulteriormente inammissibile anche alla luce della valutazione comparativa espressa dal giudice di merito con esaustiva indagine circa le condizioni descritte dello straniero con riguardo al suo paese di origine ed all’integrazione in Italia acquisita, valutazione in sè evidentemente non rivalutabile in questa sede.

4. – Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 360 bis, n. 1, come reinterpretato da Cass., sez. un., n. 7155 del 2017. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va emessa la dichiarazione D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alla controparte le spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 14 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2020

 

 

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