Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20888 del 17/10/2016

Cassazione civile sez. III, 17/10/2016, (ud. 06/04/2016, dep. 17/10/2016), n.20888

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6384-2012 proposto da:

S.L., (OMISSIS), S.L. & C. di S.L.

SAS in persona dell’omonimo socio accomandatario, M.M.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 35,

presso lo studio dell’avvocato ANNAROSA AMMIRATI, rappresentati e

difesi dall’avvocato VIVIANA PETACCHIOLA giusta procura a margine

del ricorso;

– ricorrenti –

contro

ASSITALIA LE ASSICURAZIONI D’ITALIA SPA, EREDI P.P.,

P.E. (OMISSIS), P.L. COSTITUITO

(OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

P.L. (OMISSIS), P.E. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIROLAMO DA CARPI 6, presso

lo studio dell’avvocato FURTO TARTAGLIA, che li rappresenta e

difende unitamente all’avvocato AGNESE VERGARI giusta procura in

calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrenti incidentali –

contro

S.L. (OMISSIS), S.L. & C DI L.S.

SAS in persona dell’omonimo socio accomandatario, M.M.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DELLA GIULIANA 35,

presso lo studio dell’avvocato ANNAROSA AMMIRATI, rappresentati e

difesi dall’avvocato VIVIANA PETACCHIOLA giusta procura a margine

del controricorso;

– controricorrenti all’incidentale –

contro

ASSITALIA LE ASSICURAZIONI D’ITALIA SPA, EREDI P.P.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 631/2011 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 19/12/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/04/2016 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito l’Avvocato AGNESE VERGARI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SOLDI Anna Maria, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La società in accomandita semplice S.L. & C., quale titolare di conto corrente con apertura di credito intrattenuto con la Banca Popolare di Novara nonchè i soci S.L. e M.M., quali garanti personali, risultavano soccombenti in primo grado nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo avente ad oggetto il credito azionato dalla banca per saldo negativo del conto corrente e per titoli scontati e rimasti insoluti. L’atto di appello proposto dai debitori, assistiti dall’avv. P.P., subentrato nel corso del primo grado ad altri difensori, era stato oggetto di rinuncia alla impugnazione, in quanto notificato a soggetto inesistente (essendo stata incorporata la BPN a seguito di procedimento di fusione societaria), mentre un secondo atto di appello, ritualmente notificato alla società incorporante, era stato dichiarato inammissibile in quanto tardivo.

La società ed i soci, che avevano subito il conseguente procedimento di espropriazione immobiliare, convenivano quindi in giudizio il predetto legale per accertarne la responsabilità professionale e sentirlo condannare al risarcimento dei danni. Il relativo giudizio vedeva gli attori soccombenti in primo grado e parzialmente soccombenti in grado di appello.

In particolare i Giudici di appello di Perugia, con sentenza 19.12.2011 n. 631 rigettavano parzialmente la impugnazione proposta dalla società e dai soci alla stregua delle seguenti ragioni di decisione:

1- il giudice della opposizione a decreto ingiuntivo aveva verificato in concreto che gli importi relativi ai titoli presentati allo sconto erano stati effettivamente accreditati sul conto corrente intestato alla società, circostanza che rendeva irrilevante la negligenza ascritta al difensore per omessa contestazione della corrispondente allegazione della banca;

2- nell’atto di opposizione a decreto ingiuntivo – redatto da precedente difensore – si contestava la pretesa della banca esclusivamente sul presupposto della falsità delle firme dello S. apposte su numerosi titoli presentati allo sconto, non venendo in questione, pertanto, nei fatti allegati dagli opponenti, altre ipotesi di condotte “illecite” (concorso della banca nella truffa perpetrata dalla Po.; scienza della banca in ordine alla falsità delle predette firme sui titoli accettati allo sconto; mancato addebito in conto corrente degli importi insoluti dei titoli scontati), sicchè alcun addebito poteva muoversi al legale in ordine alla omessa proposizione di domanda riconvenzionale risarcitoria per i “diversi” fatti illeciti prospettati dagli appellanti, atteso che tale iniziativa avrebbe incontrato il divieto di domande nuove ex art. 183 e 184 c.p.c.;

3- i motivi di gravame con i quali si impugnava la sentenza di primo grado (resa nel giudizio di responsabilità professionale) relativamente alla pronuncia di inammissibilità della prova per testi, dovevano ritenersi inammissibili, in parte (quanto alla reiterazione delle prove chieste in primo grado) per difetto di specificità ex art. 342 c.p.c., non avendo gli appellanti svolto alcuna critica alla statuizione del primo giudice della irrilevanza dei fatti oggetto di prova, ed in parte in quanto venivano formulate “nuove prove” per testi, come tali precluse dall’art. 345 c.p.c. e comunque “irrilevanti” in quanto inidonee a dimostrare la negligenza difensiva dell’avv. P.;

4- alcun addebito poteva, inoltre, essere mosso al difensore per non aver richiesto nel giudizio di opposizione ulteriori prove per dimostrare l’accordo trilatero, atteso che tale accordo era diretto a pregiudicare la banca e quindi non sarebbe stato ad essa opponibile, e che comunque era da ritenere illogica una linea difensiva affidata a testi, i funzionari della banca, chiamati sostanzialmente a confessare la propria infedeltà alla banca, tanto che neppure i precedenti difensori, che avevano assistito la società nel medesimo giudizio di opposizione, avevano ritenuto di impostare la difesa secondo tali prove.

La impugnazione è stata invece accolta quanto al motivo di gravame volto a contestare il pagamento del corrispettivo professionale preteso a saldo dall’avv. P. con domanda riconvenzionale accolta dal primo giudice, avendo la Corte d’appello accolto la eccezione di inadempimento del contratto d’opera professionale, rilevando che il professionista era incorso in colpa nella notificazione tardiva dell’appello, avendo omesso le dovute verifiche in ordine alla sopravvenuta inesistenza del soggetto (Banca Popolare di Novara) destinatario della notifica.

La società ed i soci hanno impugnato per cassazione la sentenza della Corte d’appello di Perugia deducendo con quattro motivi vizi errori di diritto e di fatto.

Hanno resistito con controricorso P.E. e P.L., n.q. di eredi dell’avv. P.P., proponendo ricorso incidentale affidato ad un unico motivo relativo a vizio di violazione di norma di diritto.

Non ha svolto difese ASSITALIA Le Assicurazioni d’Italia s.p.a.

I ricorrenti principali hanno notificato controricorso al ricorso incidentale.

Le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

A- ricorso principale proposto dalla società e dai soci.

A-1. Il primo motivo censura la sentenza di appello per vizio di violazione dell’art. 2729 c.c. e per vizio di omessa e contraddittoria motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, nella parte in cui è stata esclusa qualsiasi rilevanza causale alla asserita condotta negligente dell’avvocato (per avere omesso di contestare l’allegazione della banca creditrice secondo cui gli importi dei titoli insoluti erano stati accreditati in conto corrente) sul presupposto che il Giudice di prime cure, indipendentemente dalle allegazioni delle parti, aveva comunque proceduto a tale verifica in concreto, accertando che gli importi dei titoli posti allo sconto erano stati accreditati tutti sul conto corrente della S. s.a.s., risultando quindi del tutto pleonastica e non decisiva l’affermazione del primo Giudice secondo cui tale circostanza non era stata, peraltro, neppure oggetto di contestazione nell’anno di opposizione a decreto ingiuntivo.

A-1.2 Il motivo si palesa del tutto privo di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, quanto alla censura di vizio logico della motivazione, atteso che, da un lato, la critica svolta è interamente rivolta a censurare l’accertamento in fatto dell’effettivo accreditamento in conto corrente dell’importo dei titoli insoluti compiuto nel diverso giudizio di opposizione (sent. n. 96/2002 del Tribunale di Novara), ripreso come elemento di valutazione della insussistenza della responsabilità professionale dalla sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Terni n. 869/2007, e dall’altro lato omette del tutto di evidenziare il “fatto decisivo” dal quale emergerebbe l’errore di riscontro tra gli importi dei titoli scontati e gli importi accreditati sugli estratti conto (assumono i ricorrenti che: 1- nel c/c risultavano “normalmente” addebitati, con riferimento a periodi anteriori a quello oggetto di causa, gli importi dei titoli rimasti insoluti: ma è sufficiente osservare come tale circostanza non consenta di inferire dal mancato addebito in c/c degli importi dei titoli insoluti riferibili alla Po., anche il mancato accredito delle somme in c/c; 2-che la banca nel ricorso per decreto ingiuntivo aveva allegato che gli importi erano stati accreditati sul c/c, e che tale affermazione doveva essere interpretata nel senso che di importi “ergo non anticipati all’apparente giratario”: anche in questo caso trattasi di una mera illazione fondata su una interpretazione della domanda monitoria, peraltro neppure trascritta; 3-che vi era una mancanza di corrispondenza tra l’importo di alcuni titoli con sottoscrizione falsa e le somme riversate dallo S. con assegni bancari alla Po.: tale circostanza, tuttavia, non esclude che gli importi dei titoli insoluti, per i quali non sia riscontrabile una corrispondenza con gli assegni bancari emessi, non fossero stati accreditati in c/c), limitandosi i ricorrenti ad una mera affermazione anapodittica di non corrispondenza dei predetti importi (secondo i ricorrenti dal confronto tra la perizia grafologica e l’estratto del conto corrente “emerge in modo incontrovertibile che non esiste alcuna corrispondenza tra gli importi”: ricorso pag. 10) ovvero ad ipotetiche soggettive ricostruzioni dei fatti (1 -“è insensato che la Po. abbia fatto accreditare sul conto n. (OMISSIS) effetti con girata apocrifa del correntista e poi non li abbia incassati tramite assegni di quest’ultimo”; 2-l’avvocato avrebbe affermato di ritenere che gli effetti apocrifi erano stati azionati monitoriamente dopo che erano tornati insoluti e dunque “aveva compreso….che gli effetti apocrifi non erano stati accreditati sul conto”) sulle quali intenderebbero fondare l’assunto, disatteso dal Giudice di appello, secondo cui il Tribunale di Novara non avrebbe compiuto alcun accertamento in concreto, ma avrebbe piuttosto ritenuto provato l’accreditamento degli importi dei titoli sul c/c in base alla “non contestazione” di tale circostanza da parte degli opponenti.

Tale assunto, oltre che fondato sull’affermazione di un fatto indimostrato (discordanza tra gli importi dei titoli e quelli accreditati) il cui accertamento esula dal sindacato di legittimità, o comunque su valutazioni degli elementi probatori diverse da quelle compiute dal Giudice di appello, e che non integrano vizio di legittimità sindacabile da questa Corte, si scontra con l’ inequivoco tenore letterale della statuizione del Tribunale di Novara (riportato in virgolettato nella motivazione della sentenza della Corte di appello di Perugia: pag. 10) che, sul punto, ha espressamente statuito, con accertamento in fatto, che il riversamento sul conto corrente degli importi dei titoli scontati “può essere confermato da una analitica disamina dell’estratto conto prodotto da cui risulta il puntuale accredito in conto corrente di tutti gli importi anticipati dalla BNP alla S. s.a.s. sulle singole operazioni”.

Ne segue che se una condotta negligente andava contestata al professionista, non era quella – oggetto del motivo di ricorso in esame – di non essersi opposto alla allegazione della banca di aver accreditato gli importi dei titoli sul conto corrente, ma, caso mai, qualora il legale fosse stato informato dai debitori della discordanza di importi in questione (circostanza non provata), quella di non aver proposto rituale impugnazione richiedendo una verifica contabile sull’ammontare del credito azionato in sede monitoria dalla banca (dovendo peraltro osservarsi, al riguardo, come eventuali contestazioni sul “quantum” avrebbero allora dovuto essere dedotte già con l’atto di opposizione al decreto ingiuntivo, che era stato redatto dai precedenti legali).

Corretta deve ritenersi, pertanto, la statuizione della sentenza di appello che, chiamata a verificare la condotta negligente tenuta dal professionista nella difesa svolta in giudizio di opposizione ed individuata dagli appellanti nella mancata contestazione della corrispondenza degli importi dei titoli scontati con gli importi accreditati in conto corrente, ha ritenuto irrilevante la omessa contestazione, avendo il Tribunale di Novara proceduto, comunque, in concreto a tale verifica ed ha escluso, pertanto, una incidenza causale della proposizione tardiva dell’appello, in difetto di prove acquisite al giudizio idonee ad inficiare l’accertamento in fatto compiuto dal Tribunale nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

A-2. Con il secondo motivo si censura la sentenza di appello per vizio di omessa motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non avendo la Corte territoriale valutato la circostanza che il professionista avrebbe dovuto contestare l’affermazione della banca secondo cui i titoli insoluti non erano stati “addebitati” in conto corrente, e comunque avrebbe dovuto denunciare la condotta illecita della banca volta ad occultare alla società correntista ed ai soci fidejussori lo stato di insolvenza della Po. e comunque la violazione dei limiti dell’apertura di credito.

A-2.1 Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, non essendo stato chiarito dai ricorrenti quale fosse il contenuto del rapporto o dei rapporti negoziali che intercorrevano tra la società e la banca, in particolare quali clausole contrattuali regolassero la negoziazione e l’incasso dei titoli presentati allo sconto (se lo sconto bancario era stato pattuito con un limite di ammontare predeterminato; quale relazione vi era tra il “castelletto di sconto” ed il limite massimo concesso al cliente nel distinto rapporto di apertura di credito) ed in particolare quale fosse la violazione del rapporto di apertura di credito che il difensore avrebbe potuto e dovuto constatare e quindi diligentemente contestare in giudizio, e soprattutto in quale atto del processo il professionista avrebbe potuto e dovuto tempestivamente e ritualmente dedurre “nuove” eccezioni di inadempimento contrattuale, che non risultavano essere state dedotte con l’atto di opposizione a decreto ingiuntivo e dunque sarebbero andate incontro alle preclusioni formatesi nelle fasi processuali o al divieto dei “nova” in grado di appello.

In particolare, per quanto concerne, la negligenza del legale circa la contestazione dell’inadempimento contrattuale della banca, osserva il Collegio che i ricorrenti non hanno fornito alcune elemento fattuale “decisivo” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), tenuto conto che l’obbligo informativo del rischio di insolvenza del soggetto garantito che grava sulla banca verso i fidejussori, deve nel caso specifico essere valutato in relazione alle peculiari circostanze concrete, da cui emerge che la composizione sociale della società correntista era ridotta a due soci, entrambi fidejussori, dei quali lo S. era anche l’amministratore come tale legittimato ad operare sul conto della società. Ne segue che – secondo la stessa ipotesi ricostruttiva formulata dai ricorrenti – la evidente incuria dimostrata dall’amministratore – fidejussore nella gestione del conto societario, con l’omettere finanche le ordinarie verifiche degli importi transitati sul conto corrente bancario attraverso i periodici estratti conto trasmessi dalla banca o che l’interessato avrebbe comunque potuto richiedere, protrattasi per oltre un anno, non consentiva evidentemente di sostenere la tesi difensiva fondata sulla violazione di obblighi informativi che la banca è tenuta ad osservare, alla stregua del principio di buona fede, ma nei confronti di quei soggetti garanti che rimangono del tutto estranei al rapporto tra la banca ed il debitore garantito, e che a tali informazioni -concernenti la progressiva esposizione debitoria del titolare del conto verso la banca – non potrebbero altrimenti avere accesso. Nella specie, invece, tale ostacolo non sussisteva, essendo uno dei fidejussori anche amministratore unico della società correntista, e dunque dovendo imputarsi a negligenza di quest’ultimo il mancato tempestivo accertamento dell’andamento anomalo dei titoli posti allo sconto, tanto più se scontati a sua insaputa dalla Po. ovvero tanto più in considerazione dell’ irrituale “accordo trilaterale” ove effettivamente stipulato, risultando quindi del tutto infondata la stessa fattispecie d’inadempimento che il legale avrebbe dovuto contestare alla banca.

A-3. Il terzo motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile per carenza di autosufficienza.

Viene censurata la sentenza di appello per violazione dell’art. 1460 c.c., degli artt. 183, 184, 345, 489, 491 e 493 c.p.c., nonchè per vizio di omessa insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui il Giudice di appello ha ritenuto insussistente una condotta negligente del professionista per omessa proposizione della domanda (riconvenzionale) di condanna della banca al risarcimento dei danni, non formulata nell’atto di opposizione, in quanto tale domanda sarebbe stata tardiva e avrebbe incontrato, comunque, la preclusione posta dal divieto di “mutatio libelli” di cui all’art. 183 c.p.c..

A-3.1 Sostengono i ricorrenti la erroneità della statuizione impugnata, in quanto la causa di opposizione a decreto ingiuntivo, introdotta nel 1989, era disciplinata dal regime normativo processuale precedente alla riforma introdotta dalla L. n. 353 del 1990.

Indipendentemente dalla indeterminabilità del parametro normativo alla stregua del quale viene richiesto il sindacato di legittimità, non essendo evincibile dalla esposizione del motivo se e quali degli argomenti svolti debbano riferirsi all’uno (errore di diritto) piuttosto che all’altro (errore di fatto) vizio di legittimità, contestualmente censurati in rubrica, indeterminabilità che si traduce nella inammissibilità del motivo di ricorso (per difetto del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), osserva il Collegio che, anche a riuscire a distinguere le parti argomentative dei distinti vizi di legittimità (cfr. ricorso pag. 16-17 e pag. 18-22), l’asserito “errore in diritto” in cui sarebbe incorsa la sentenza di appello nell’argomentare la propria decisione, ritenendo applicabili, al giudizio di opposizione iscritto a ruolo nell’anno 1989, le preclusioni stabilite dall’art. 183 c.p.c., come riformato dalla L. n. 353 del 1990, anzichè il regime processuale anteriore, espressamente applicabile “ai giudizi pendenti alla data del 30.4.1995” (L. n. 353 del 1990, art. 90, comma 1 come modificato dal D.L. n. 432 del 1995 conv. in L. 20 dicembre 1995, n. 534), non è “ex se” idoneo a travolgere la conformità a diritto della decisione, dovendo soltanto essere corretta la motivazione: ed infatti, con riguardo al procedimento in questione, pendente alla data del 30 aprile 1995 (e per il quale trovano applicazione le disposizioni di cui agli artt. 183, 184 e 345 cod. proc. civ., nel testo vigente anteriormente alla “novella” di cui alla L. 26 novembre 1990, n. 353 – D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, art. 9 convertito, con modificazioni, nella L. 20 dicembre 1995, n. 534 il divieto di introdurre una domanda nuova nel corso del giudizio di primo grado risulta posto a tutela della parte destinataria della domanda e quindi della effettività del contraddittorio; pertanto la violazione di tale divieto – che è rilevabile anche d’ufficio, non essendo riservata alle parti l’eccezione di novità della domanda – non è sanzionabile in presenza di un atteggiamento non oppositorio della parte medesima, consistente nell’accettazione esplicita del contraddittorio o in un comportamento concludente che ne implichi l’accettazione (cfr. giurisprudenza consolidata: Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 4712 del 22/05/1996; da ultimo, id. Sez. 3, Sentenza n. 20949 del 16/10/2015). Da ciò consegue che l’argomento svolto nel motivo di ricorso in esame, fondato esclusivamente sulla “astratta” proponibilità – nel sistema processuale antevigente la L. n. 353 del 1990 – della domanda, se pure tardiva, di risarcimento danni per inadempimento della banca creditrice, non assume carattere dirimente e non vale ad inficiare la statuizione che nega rilevanza causale determinante alla condotta negligente del professionista, in quanto la ammissibilità della domanda tardiva risultava, anche in tale previgente sistema processuale, condizionata da altre cause esterne determinanti (quali la accettazione del contraddittorio da parte della banca, e/o la mancata rilevazione ex officio da parte del Giudice di merito della tardività) suscettibili “ex se” di paralizzare a monte lo stesso accesso della domanda all’esame del merito, con la conseguenza che non è dato ravvisare nella condotta omissiva del professionista (per mancata proposizione della domanda tardiva) quel requisito di certezza probabilistica che nell’accertamento del nesso eziologico -da compiere secondo un giudizio prognostico controfattuale – consentirebbe di pervenire ad un esito certamente favorevole del giudizio di merito (concernente la opposizione a decreto ingiuntivo) se la domanda risarcitoria fosse stata tardivamente proposta (condotta omissiva, peraltro, che non risulta neppure accertata, atteso che gli stessi ricorrenti affermano – pag. 21 ricorso – che “il professionista….ha formulato una domanda di danni….su cui non una parola nella sentenza di Novara, totalmente generica ed immotivata e quindi anche nulla….e anche tardiva….”, per trarne poi la conclusione della rilevanza causale sull’esito infausto del giudizio: ma risulta del tutto evidente che in tal modo i ricorrenti vengono inammissibilmente ad immutare la originaria contestazione della responsabilità professionale, da “omessa proposizione della domanda” a “proposizione della domanda – ritenuta però – affetta da vizio di nullità”, trascurando peraltro di trascrivere il contenuto dell’atto in cui tale domanda era stata formulata, in palese violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

Quanto al vizio di “errore di fatto”, contestato con il medesimo motivo, la censura si palesa priva di autosufficienza laddove intende fondare la responsabilità del professionista, per omessa o invalida proposizione della domanda risarcitoria nei confronti della banca, su elementi di fatto del tutto indimostrati quali il concorso della banca nel reato di frode commessa dalla Po. (ai danni di S. s.a.s. e dei soci), o la commissione del reato di uso di scritture private false (che richiede la prova dell’elemento soggettivo del dolo), o ancora sull’inadempimento della banca agli obblighi di buona fede nella esecuzione del contratto (sembra di apertura di credito) per avere scientemente aggravato il rischio del correntista e dei fidejussori consentendo alla Po. di fruire di anticipazioni oltre il limite di fido, occultando alla società ed ai soci lo stato di insolvenza della Po.. Osserva al riguardo il Collegio: 1 – che i ricorrenti hanno omesso del tutto di indicare o trascrivere le condizioni contrattuali che regolavano il rapporto tra S. s.a.s e la banca, limitandosi ad un generico riferimento ad una pluralità indistinta di rapporti con la banca -conto corrente; apertura di credito; sconto bancario; garanzia fidejussoria -; 2- che la condotta negligente del professionista -individuata nella omessa proposizione della domanda tardiva di risarcimento danni per illecito penale o civile della banca, e nella mancata proposizione delle eccezione di compensazione impropria tra le somme pretese dalla banca e quelle vantate a titolo risarcitorio- difetta del necessario supporto circostanziale, venendo a risolversi nella mera contestazione al professionista di non aver considerato la possibilità di una diversa linea difensiva nel giudizio di opposizione e decreto ingiuntivo, possibilità che, tuttavia, non implica – proprio per la piena discrezionalità delle scelte rimesse in via esclusiva alla parte che agisce in giudizio – una automatica responsabilità per negligenza od imperizia del professionista, che si profila, invece, nella diversa ipotesi in cui il cliente abbia espressamente prospettato al legale una specifica modalità di difesa che sia stata “immotivatamente” disattesa dal professionista, ovvero abbia fornito al professionista specifiche indicazioni od elementi circostanziali documentati – che avrebbero potuto sostenere efficacemente la prova della domanda o della eccezione – da quello negligentemente trascurati o erroneamente valutati quanto alla esistenza od inesistenza dei fatti rappresentati od alla verifica probatoria degli stessi da richiedere in giudizio.

A-4. Con il quarto motivo si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 2203 c.c. e ss, artt. 2049 e 2721 c.c., dell’art. 115 c.p.c., art. 183 c.p.c., comma 7, artt. 245 – 256 c.p.c. e contestualmente il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto il Giudice di appello avrebbe disatteso la istanza istruttoria formulata dagli appellanti (attuali ricorrenti) volta a provare la esistenza di un “accordo trilatero” tra la banca (recte il direttore della filiale), la Po. ed lo S. (in qualità di prestanome) volto ad aggirare, tramite fittizi sconti bancari, i limiti massimi di importo stabiliti dalla banca per le aperture di credito.

A-4.1 I ricorrenti individuano la colpa del professionista nel non aver richiesto nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo la prova per testi, nonchè la esibizione dei titoli scontati e degli assegni emessi dallo S. a favore della Po., al fine di dimostrare la esistenza dell’accordo trilatero con il quale, da un lato, S. s.a.s. consentiva lo sconto dei titoli presentati dalla Po., da regolare sul c/c, e quindi garantiva il riversamento delle somme accreditate sul conto mediante assegni emessi a favore della Po., e dall’altro la banca si impegnava a scontare i titoli ed in caso di insoluto ad agire per il recupero nei confronti della sola Po., senza avanzare pretese nei confronti della società correntista e dei soci garanti.

A-4.2 I ricorrenti affermano (ricorso pag. 23) di aver inteso affidare la prova dell’accordo trilatero, nel primo grado del giudizio di responsabilità professionale, “agli elementi documentali già in atti” (estratto di c/c), e non essendo questi stati ritenuti dal primo giudice sufficienti a fornire tale prova, avevano reiterato nell’atto di appello le richieste istruttorie formulate con la istanza 10.9.2010 e non ammesse dal primo giudice, nonchè formulato un nuovo capitolato per testi.

A-4.3 La Corte d’appello di Perugia ha ritenuto inammissibile per difetto di specificità ex art. 342 c.p.c. il motivo di gravame con il quale venivano reiterate le istanze istruttorie formulate in primo grado, in quanto gli appellanti non avevano svolto alcuna critica in ordine alla valutazione di irrilevanza della prova compiuta dal primo giudice, mentre ha valutato nel merito il nuovo capitolato per testi, per verificare se ricorressero i presupposti della “indispensabilità” ex art. 345 c.p.c., comma 3, concludendo negativamente tale verifica in quanto: 1-la eventuale prova dell’accordo, in quanto integrante il reato di truffa ai danni della banca, non sarebbe comunque stata a questa opponibile; 2-la banca non avrebbe potuto essere chiamata a rispondere dell’illecito dei propri dipendenti, i quali realizzando l’accordo truffaldino, avrebbero fatto venir meno il nesso di occasionalità necessaria indispensabile a mantenere il rapporto organico; 3-incongruo era affidare la prova dell’accordo agli stessi funzionari di banca che avrebbero dovuto in tal modo ammettere la propria infedeltà nei confronti dell’istituto di credito; 4-il giuramento decisorio, costituiva una scelta di definizione della lite che spettava in via esclusiva alla parte e non al legale, mentre la prova per interrogatorio formale, deferito al rappresentante legale della banca, avrebbe avuto ad oggetto un fatto a questi ignoto.

A-4.4 Le censure dedotte avverso le indicate statuizioni, con il motivo di ricorso, sono tutte infondate.

1. “Non opponibilità alla banca dell’accordo trilatero”:

deve ritenersi corretto il rilievo dei ricorrenti per cui il teste Agostinelli, rivestendo al tempo la qualifica di direttore della filiale, era investito – in qualità di institore – dei poteri di rappresentanza negoziale della banca e quindi – salvo limiti a tali poteri conosciuti o resi noti ai terzi – avrebbe potuto concludere un contratto di apertura di credito senza limiti o con limiti maggiori di quelli già concordati: tuttavia è altresì indubitabile che, proprio la conclusione di un accordo volto ad aggirare i vincoli imposti dalla banca alla concessione dei finanziamenti, implicava la palese conoscenza da parte dei terzi (lo S. e la Po. dei limiti stabiliti dall’istituto bancario ai poteri negoziali dell’institore in ordine alla conclusione di contratti di apertura di credito superiori al tetto massimo già raggiunto dalla Po., con gli effetti previsti dall’art. 2206 c.c., comma 2 in caso di attribuzione al direttore della filiale di poteri di rappresentanza generale e senza considerare che, ove la procura rilasciata all’institore fosse stata, invece, depositata per l’iscrizione nel registro delle imprese, i limiti ai poteri rappresentativi del direttore della filiale erano da ritenersi legalmente conosciuti dai terzi ed a questi opponibili dalla banca rappresentata.

2. “Inconfigurabilità dei una responsabilità della banca ex art. 2049 c.c.” indipendentemente dalla definizione dei limiti di applicazione della responsabilità per fatto del dipendente ex art. 2049 c.c. e dalla costruzione – in termini di “nesso di occasionalità necessaria” – della relazione minima che deve sussistere tra autore dell’illecito ed il soggetto giuridico alle dipendenze o nell’organizzazione del quale il primo opera, occorre osservare che l’art. 2049 c.c. potrebbe venire in questione soltanto ove si fosse ravvisata una ipotesi di reato commesso dal Direttore filiale in danno di S. s.a.s. e dei soci: tale ipotesi – del tutto distinta dall’accordo criminoso trilatero cui avrebbero partecipato anche lo S. e la P. – se pure adombrata nei precedenti motivi di ricorso, non risulta che sia stata mai formulata nel corso del giudizio di merito, difettando peraltro qualsiasi elemento probatorio fornito dai ricorrenti in ordine alla condotta dolosa dei funzionari di banca rivolta ad accettare allo sconto titoli formati con scritture apocrife (uso di scritture false).

3. “Improbabilità di un risultato positivo delle prove per testi” (la censura formulata con il motivo di ricorso concerne esclusivamente la statuizione della sentenza rivolta a disconoscere la “indispensabilità” ex art. 345 c.p.c., comma 3 della “prova del tutto nuova dedotta solo in appello” con i motivi di gravame, che per tale motivo non era stata ammessa dalla Corte d’appello con ordinanza 24.8.2010: ne consegue che deve ritenersi passata in giudicato l’altra statuizione della sentenza della Corte d’appello che ha dichiarato inammissibili per difetto di specificità ex art. 342 c.p.c. i motivi di gravame con i quali si reiteravano le istanze istruttori; formulate in primo grado, e ritenute “irrilevanti” dal primo giudice, senza tuttavia esplicitare alcuna critica al giudizio di “irrilevanza” delle prove contenuto nella sentenza di primo grado).

4. “Non credibilità della ricostruzione della vicenda ipotizzata da S. s.a.s. e soci (accordo trilatero)”.

5. “condotta dei precedenti difensori”.

– in astratta ipotesi è corretto il rilievo dei ricorrenti secondo cui la valutazione della rilevanza ed ammissibilità della prova orale, non deve essere compiuta in riferimento alla prognosi dell’esito positivo del suo espletamento, ma in relazione alla concludenza del fatto da rappresentare in giudizio rispetto alla fattispecie controversa: tuttavia il rilievo non coglie la “ratio decidendi”. Premesso che la nuova prova orale dedotta dagli appellanti aveva ad oggetto la stipula e le condizioni dell’accordo trilaterale concluso tra il direttore della filiale, lo S. – n.q. di amministratore della S. s.a.s. titolare del c/c bancario – e la Po., osserva il Collegio che occorre tenere nettamente distinto, ai fini della verifica di legittimità richiesta a questa Corte della valutazione probatoria preliminare compiuta dal Giudice di appello, la diversa rilevanza che la prova richiesta assume in relazione al giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ed al giudizio avente ad oggetto la responsabilità professionale del legale dei debitori ingiunti. Nel secondo caso, infatti, la valutazione di ammissibilità e rilevanza della prova deve essere compiuta “ex post” con giudizio controfattuale, atteso che il Giudice della causa di responsabilità professionale deve valutare non solo l’astratta dimostrabilità del fatto tramite la prova che è stata omessa (cioè che la prova orale se ritualmente richiesta nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, avrebbe superato il vaglio di ammissibilità e rilevanza da parte del Giudice di quella causa), ma anche le concrete probabilità che l’assunzione della prova (avuto riguardo al complessivo contesto probatorio della causa, alle qualità soggettive dei soggetti chiamati a testimoniare, ecc.) avrebbe avuto di risolversi positivamente a favore della parte istante, così da determinare in via prognostica un esito del giudizio a quella favorevole, valutazione questa indispensabile per l’accertamento della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta omissiva del legale (che tale prova non ha negligentemente richiesto) ed il danno patrimoniale subito dai debitori ingiunti, in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza di condanna non tempestivamente appellata dal legale da tale premessa discende: a) quanto al primo aspetto sopra evidenziato, che rimane superata la questione se la richiesta di “nuove” prove (dedotte solo in grado di appello) dovesse ritenersi preclusa, stante i limiti dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo applicabile “ratione temporis” (anteriore alla modifica della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 2 – che trova applicazione ai giudizi pendenti in primo grado al momento della entrata in vigore della legge: nel caso di specie il giudizio definito in primo grado con sentenza 17.10.2007 del Tribunale di Terni, pendeva in grado di appello -): la Corte d’appello – cfr. sentenza a pag. 13 ed a pag. 15 – ha inteso egualmente esaminare le “nuove” prove per testi in finzione della verifica della “indispensabilità” delle stesse (in deroga al divieto generale di cui al medesimo art. 345 c.p.c., comma 3): devesi peraltro specificare che tale valutazione deve essere riferita alla deducibilità di tali nuove prove nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, e non evidentemente – nel giudizio di responsabilità professionale, trattandosi di prove aventi ad oggetto l’accordo trilaterale e che, quindi, avrebbero potuto e dovuto secondo la tesi dei ricorrenti – essere richieste dal legale in quel giudizio, e non invece prove dirette ad essere ammesse ed assunte nel giudizio di responsabilità professionale (errore nel quale, invece, sembrano essere incorsi i ricorrenti e, come emerge dalla lettura della motivazione della sentenza – pag. 11 -, anche il Giudice di appello:

l’equivoco non ha tuttavia avuto conseguenze sulla decisione assunta dalla Corte d’appello che ha correttamente esteso la propria valutazione prognostica “ex post” al probabile esito della prova); b) quanto al secondo aspetto sopra evidenziato, deve rilevarsi la inconsistenza della censura volta a dedurre la violazione dell’art. 246 c.p.c., tenuto conto che la Corte d’appello non ha affatto affermato che la prova orale era inammissibile per “incapacità a testimoniare” dei soggetti indicati (in particolare dei funzionari della banca), ma ha diversamente valutato la elevata probabilità di un esito negativo dell’assunzione della prova in considerazione sia delle responsabilità cui tali funzionari si sarebbero esposti ammettendo un proprio coinvolgimento nell’attuazione di un accordo violativo delle disposizioni bancarie e dei limiti imposti al potere rappresentativo negoziale conferito al direttore della filiale, sia della scarsa credibilità delle dichiarazioni che avrebbero reso tali testi (nonchè il fratello dell’amministratore unico della società) in ordine alla asserita ignoranza dello S. in ordine allo stato di insolvenza in cui versava la Po., sia infine in relazione alla irrilevanza della prova di detto accordo trilatero in quanto stipulato dal direttore della filiale “ultra vires” e dunque non opponibile alla banca ex art. 2206 c.c. (come già illustrato nell’esame della censura relativa al precedente punto 1.).

Corretto deve ritenersi, pertanto, il giudizio espresso dalla Corte d’appello sulla “non indispensabilità” delle “nuove” prove dedotte dagli appellanti, in funzione della valutazione prognostica di un probabile diverso esito favorevole che il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo avrebbe potuto avere se tale prova fosse stata dedotta dall’avv. P. in quel giudizio: tale esito è stato escluso dalla Corte d’appello anche in base al distinto ed assorbente argomento secondo cui difettava la prova certa che l’avv. P. fosse stato reso edotto dai propri clienti degli elementi di fatto necessari a supportare la linea difensiva fondata sull’accordo trilaterale, che non risultava invece essere stata neppure prospettata dai precedenti difensori i quali, a quanto è dato desumere dalla lettura dello stesso ricorso per cassazione, avevano incentrato la difesa esclusivamente sulla tesi della “interposizione fittizia” della società nel contratto verbale di apertura di credito stipulato dalla banca con la Po. (cfr. ricorso pag. 34 ed ivi capitolato di prova per testi formulato alla udienza 2.6.1993 del giudizio di opposizione. Ma in tal caso occorre rilevare che la prova orale della simulazione relativa sarebbe andata incontro ai limiti previsti dall’art. 1417 c.c., posto che nel caso di specie l’accordo dissimulato – contratto di apertura di credito – non integrava un accordo “illecito” ex art. 1343 c.c., e la banca non avrebbe potuto considerarsi “terzo” ma parte del negozio simulato, venendo ulteriormente in questione la ammissibilità di una “mutano libelli”, in grado di appello, volta a sostenere la esistenza di un negozio trilatero). La questione controversa sottoposta alla Corte d’appello concerneva, infatti, la condotta negligente contestata al legale ed il nesso di causalità tra detta condotta e l’esito infausto del giudizio di opposizione decreto ingiuntivo, a tal fine essendo necessario accertare: a) se S. s.a.s. ed i soci avessero fornito al difensore indicazioni ed elementi indiziari utili per sostenere una diversa linea difensiva (con indicazione specifica di fatti, soggetti e contenuti dell’accordo); b) se e quali prove potevano essere richieste e se tali prove avrebbero potuto – secondo un giudizio prognostico – dare esito ad una soluzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo favorevole ai debitori ingiunti. Orbene su quali indicazioni ed elementi in fatto siano stati portati a conoscenza dell’avv. P. a supporto della linea difensiva da svolgere in grado di appello, i ricorrenti nulla deducono, limitandosi a sostenere che i precedenti difensori sarebbero incorsi, raffigurando la ipotesi di interposizione, in un “errore terminologico, non chiarito e rettificato dal professionista subentrato” (ricorso pag. 35) che avrebbe indotto in errore il Giudice della causa di opposizione a decreto ingiuntivo. Incontestato che la originaria linea difensiva si basava sull’accertamento della posizione rivestita da S. s.a.s. quale “prestanome” della Po. (“l’assunzione delle obbligazioni cambiarie da parte dello S. era fittizia, fungendo egli da mero prestanome…”: cfr. ricorso pag. 34), difetta una puntuale critica alla statuizione impugnata, non essendo stati allegati fatti “decisivi” volti a dimostrare la negligenza professionale dell’avv. P. per non essersi attivato – avendo il Giudice istruttore del Tribunale di Novara ritenuto inammissibile la prova per testi in quanto vertente su simulazione relativa – a modificare, alla udienza di precisazione delle conclusioni (essendo il legale subentrato in tale fase processuale), o nell’atto di impugnazione in grado di appello, i fatti allegati ed a riformulare la prova, sotto il diverso profilo della stipula di un “accordo trilatero”, sebbene fossero stati portati a conoscenza del legale tutti gli elementi fattuali necessari a sostenere la nuova tesi difensiva e, sempre che risultasse dimostrato che tale modifica non fosse invece definitivamente preclusa dalla fase o dal grado del processo.

A-5. In conseguenza, stante la infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso principale deve essere rigettato.

B- ricorso incidentale proposto dagli eredi.

B-1. Con l’unico motivo viene dedotto il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 1176, 2236 e 1460 c.c..

Sostengono i ricorrenti incidentali che accertato il difetto di nesso causalità tra la condotta del professionista (proposizione appello tardivo) e l’esito negativo del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la Corte d’appello aveva erroneamente attribuito rilevanza alla condotta predetta ai fini di escludere il diritto al saldo del compenso professionale per l’attività prestata. Inoltre non poteva configurarsi alcun difetto di diligenza del professionista nella errata individuazione del soggetto destinatario della notifica non operando nei confronti della attività processuale dell’avvocato la efficacia legale della pubblicità del registro delle imprese.

B-1.2 Manifestamente infondata è la eccezione di giudicato interno dedotta nel controricorso al ricorso incidentale, laddove intende rinvenire un autonomo capo di sentenza nella affermazione della “negligente introduzione del giudizio di appello” contenuta nella motivazione della sentenza del Giudice di primo grado che ha tuttavia deciso la causa accertando il diritto alla percezione del compenso professionale, anche per lo svolgimento dell’attività di appello, in considerazione della irrilevanza causale della inammissibilità dell’appello nella determinazione dell’infausto esito della lite.

Ne segue che, indipendentemente dalla correttezza della soluzione giuridica adottata dal primo giudice, essendo risultato il professionista totalmente vittorioso sulla domanda riconvenzionale di pagamento del corrispettivo, svolta in primo grado, e difettando quindi lo stesso presupposto della soccombenza che avrebbe imposto al legale la impugnazione della sentenza – sfavorevole – per evitarne il passaggio in giudicato, alcun giudicato può ritenersi formato in punto di accertamento della responsabilità dell’avvocato per inadempimento della prestazione d’opera.

B-1.3 Tanto premesso la censura dedotta dai ricorrenti incidentali è infondata.

B-1.4 La responsabilità contrattuale del professionista non richiede quale elemento costitutivo la verifica dell’esito finale del giudizio nel quale la condotta colposa è stata realizzata, in quanto la responsabilità “ex contractu” va accertata in relazione alle obbligazioni assunte con il contratto di patrocinio (tra cui, nel caso di specie, l’attività necessaria ad interporre gravame avverso la decisione di primo grado: attività che il legale si era impegnato a compiere e con la diligenza richiesta dall’art. 1176 c.c., comma 2) e prescinde dall’esito utile od inutile del giudizio per la parte patrocinata.

Nella specie la pretesa al saldo del corrispettivo fatta valere dal professionista, con domanda riconvenzionale, è stata contestata da Spezzi s.a.s. e dai soci con eccezione di inadempimento, non avendo eseguito il legale con la dovuta diligenza l’incarico ricevuto per la proposizione dell’atto di appello avverso la sentenza del Tribunale di Novara.

Incontestato è, infatti, il fatto oggettivo dell’inesatto inadempimento della prestazione professionale, essendo stato dichiarato inammissibile l’appello proposto oltre il termine di decadenza previsto per la impugnazione della sentenza che rigettava la opposizione a decreto ingiuntivo.

I ricorrenti incidentali, con la censura in esame, contestano tuttavia che l’inadempimento sia imputabile a difetto di diligenza del professionista, argomentando che, secondo il precedente di questa Corte Sez. 1, Sentenza n. 18615 del 07/07/2008 la iscrizione dell’atto di fusione societaria nel registro delle imprese non costituisce ex se pubblicità legale anche ai fini dell’attività processuale e dunque al professionista non poteva ascriversi alcun errore nella individuazione del soggetto destinatario della notifica.

L’assunto è manifestamente errato poichè lo stesso precedente giurisprudenziale richiamato dai ricorrenti incidentali precisa come ” l’esigenza di tutelare la controparte incolpevolmente ignara della fusione comporta che il dovere di indirizzare l’impugnazione nei confronti del nuovo soggetto effettivamente legittimato resta subordinato alla conoscibilità dell’evento, secondo criteri di normale diligenza”, e dunque viene a richiedere una verifica caso per caso, dovendo ad esempio distinguersi la ipotesi in cui l’evento si verifichi immediatamente a ridosso del giudizio di merito da quella in cui il procuratore si determini a proporre l’impugnazione nella imminenza della scadenza del termine lungo di decadenza, atteso che in questo secondo caso a differenza del primo, il lungo tempo trascorso dalla definizione del grado di giudizio può rendere opportuna una verifica preliminare della “esistenza in vita” del destinatario della impugnazione, tanto più quando tale attività sia di agevole esecuzione, come deve ritenersi l’effettuazione di una visura al registro delle imprese.

B-1.5 Esente da errori di diritto va ritenuta, pertanto, la decisione della Corte d’appello che ha negato il diritto al pagamento del corrispettivo per inadempimento colpevole del professionista che non ha svolto i dovuti accertamenti in ordine al soggetto destinatario della notifica – rinunciando a tale impugnazione – e proponendo solo tardivamente l’atto di appello nei confronti del soggetto correttamente individuato.

La censura dedotta è dunque infondata ed il ricorso incidentale deve pertanto essere rigettato.

C. In conclusione entrambi i ricorsi principale ed incidentale debbono essere rigettati con conseguente compensazione integrale tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte:

– rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale, dichiarando interamente compensate le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2016

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