Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20884 del 07/09/2017
Cassazione civile, sez. I, 07/09/2017, (ud. 19/04/2017, dep.07/09/2017), n. 20884
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DIDONE Antonio – Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
Dott. FERRO Massimo – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 11176/2014 proposto da:
R.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Prati
Fiscali n. 321, presso l’avvocato Masini Dario, rappresentata e
difesa dall’avvocato Fraticelli Claudio, giusta procura in calce al
ricorso;
– ricorrente –
contro
Fallimento (OMISSIS) S.r.l., in persona del curatore del fallimento
Dott. B.A., elettivamente domiciliato in Roma,
Lungotevere Flaminio n. 44, presso l’avvocato Lettieri Marta,
rappresentato e difeso dall’avvocato Pambianchi Graziano, giusta
procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto del TRIBUNALE di MACERATA, depositato il
04/04/2014;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del
19/04/2017 dal Cons. Dott. FRANCESCO TERRUSI.
Fatto
RILEVATO IN FATTO
che:
il giudice delegato al fallimento della (OMISSIS) s.r.l. respinse la domanda di R.M.P. tesa a ottenere (per quanto qui rileva) l’ammissione allo stato passivo di un credito di circa Euro 63.000,00, al chirografo, a titolo di danni da inadempimento di un appalto avente a oggetto la ristrutturazione e l’adeguamento sismico di un fabbricato;
il danno era stato quantificato in applicazione di una clausola penale, posto che l’opera appaltata avrebbe dovuto essere ultimata e consegnata entro la data del 30-8-2011;
il giudice delegato aveva eccepito che non risultava la prova del protrarsi dei lavori oltre il termine stabilito visto che le raccomandate a mano, allegate dalla parte, non erano munite di data certa e visto che non risultava la costituzione in mora della società;
la creditrice propose opposizione ai sensi della L. Fall., art. 98, evidenziando che il contegno inadempiente della società aveva autorizzato la risoluzione anticipata del contratto ai sensi dell’art. 14 del medesimo e quindi consentito di determinare il danno in base, appunto, alla clausola penale (art. 13);
il Tribunale di Macerata, con decreto in data 4-4-2014, ha rigettato l’opposizione sulla scorta di due rilievi: da un lato osservando che il presupposto del pagamento della penale era nella specie costituito dall’adempimento tardivo, a fronte della deduzione della creditrice di essersi avvalsa della clausola implicante la risoluzione del contratto (art. 14); dall’altro ponendo in dubbio che la volontà delle parti fosse stata nel senso di prevedere un termine essenziale per l’adempimento, atteso che la parte attrice si era sì doluta del rallentamento nell’esecuzione dei lavori, ma aveva continuato ad avvalersi dell’operato della ditta esecutrice pur dopo il “cambio di denominazione e intestazione”;
la R. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da quattro motivi, illustrati da memoria, coi quali deduce nell’ordine: (1) l’omesso esame del fatto decisivo rappresentato dall’obiettivo inutile decorso del tempo che aveva imposto la risoluzione del contratto, rispetto alla messa in discussione della certezza della data di ricevimento della comunicazione allegata al ricorso per insinuazione; (2) la violazione e falsa applicazione degli artt. 1382 e 1383 c.c., anche in esito all’errata e distorta interpretazione degli artt. 11, 13 e 14 del contratto di appalto; (3) la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453 e 1454 c.c., stante la mancata valutazione dell’inadempimento contrattuale come base della domanda risarcitoria; (4) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1457 c.c., in ordine alla funzione del termine essenziale ai fini della risoluzione di diritto del contratto;
la curatela ha replicato con controricorso.
Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
che:
il primo motivo è inammissibile essendo calibrato sulla decisione del giudice delegato: non risulta in verità specificato, in base all’illustrazione del mezzo, quale sarebbe il “fatto storico decisivo” (v. Cass. Sez. U n. 8053-14) oggetto di omesso esame a opera del tribunale;
il secondo motivo è in parte inammissibile e in parte comunque infondato;
la clausola penale mira a determinare preventivamente il risarcimento dei danni soltanto in relazione all’ ipotesi pattuita, che può consistere nel ritardo o nell’inadempimento;
ove sia stata stipulata per il semplice ritardo e si sia verificato l’inadempimento, essa non è operante nei confronti di questo secondo evento (v. Cass. n. 5828-84, Cass. n. 23706-09; Cass. n. 23291-14); il tribunale ha stabilito che la clausola in questione era stata appunto convenuta per il mero ritardo nell’adempimento;
tale ricostruzione, avente base nell’interpretazione del contratto, non è incisa dalla doglianza di parte ricorrente, poichè l’interpretazione delle clausole contrattuali è sindacabile, in sede di legittimità, solo per illogicità o difetto di motivazione o per violazione dei canoni ermeneutici previsti dal codice civile; mentre la doglianza non denunzia alcuna violazione di tal genere, ma si limita a prospettare una diversa interpretazione delle clausole nel loro complesso, a fronte dell’astratto principio – inconferente rispetto all’accertamento di merito – per cui gli artt. 1382 e 1383 c.c., non escludono che la penale, stipulata per il ritardo, possa cumularsi col risarcimento del danno da inadempimento in ipotesi di risoluzione del contratto;
in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.; cosicchè la ricorrente avrebbe dovuto far valere una violazione sotto i due richiamati profili, non solo facendo esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate, ovvero ai principi in esse contenuti, cosa che non è stata fatta, ma anche precisando in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito si fosse discostato dai canoni legali assunti come violati, o se lo stesso li avesse applicati sulla base di argomentazioni illogiche, certamente non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (cfr. Cass. n. 13242-10; Cass. n. 17717-11; Cass. n. 17168-12);
il terzo e il quarto motivo sono inammissibili per difetto di interesse: invero la decisione del tribunale, assunta sul versante dell’interpretazione della clausola penale siccome in concreto stipulata per il semplice ritardo, è in tal senso basata su un’autonoma ratio; e codesta si palesa comunque destinata a rimanere integra all’esito del rigetto dei secondo motivo, essendo dedotto dalla stessa ricorrente che l’insinuazione era stata fatta parametrando il danno all’entità economica derivante dall’applicazione della clausola (“di Euro 300,00 su una base di calcolo di 210 giorni”: v. ricorso pag. 8);
deve esser fatta applicazione del principio per cui, non introducendo il ricorso un terzo grado di giudizio, tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, ma caratterizzandosi come un rimedio impugnatorio a critica vincolata e a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (v. Cass. Sez. U., n. 7931-13), deriva che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è necessario – per giungere alla cassazione della pronunzia – non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, altrimenti non potendosi realizzare lo scopo stesso dell’impugnazione (per tutte Cass. Sez. U n. 36-07);
il ricorso è rigettato;
le spese seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, su relazione del Cons. Dott. Terrusi (est.), il 19 aprile 2017.
Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2017