Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 20878 del 10/10/2011

Cassazione civile sez. VI, 10/10/2011, (ud. 29/04/2011, dep. 10/10/2011), n.20878

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 13171/10) proposto da:

M.L., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale

in calce al ricorso, dall’Avv. CURCURUTO Monica del foro di Roma ed

elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Via XXV

Maggio n. 43;

– ricorrente –

contro

F.D., rappresentata e difesa dagli Avv.ti REMIDDI Lura

e Sabrina Fasulo, in forza di procura speciali a margine del

controricorso, elettivamente domiciliata presso il loro studio in

Roma, Via Barberini n. 3;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 788/2010

depositata il 23 febbraio 2010.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

29 aprile 2011 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del

ricorso, come da relazione scritta.

Fatto

CONSIDERATO IN FATTO

M.L. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Roma del 23 febbraio 2010 che nell’ambito dell’originario giudizio promosso da F.D. nei suoi confronti per ottenere declaratoria di risoluzione del contratto preliminare con il quale aveva promesso di vendere al coniuge separato la sua porzione di proprietà dell’immobile in comunione per inadempimento del promissario acquirente, nonchè la divisione del bene medesimo, nel confermare parzialmente la sentenza di primo grado che ha riconosciuto l’inadempimento del convenuto, dichiarando lo scioglimento della comunione in essere tra le parti, con attribuzione alla F. dell’intera proprietà del fabbricato, ha determinato in Euro 240.000,00 il valore complessivo del bene, oltre a rivedere le partite di dare ed avere fra le parti.

Il ricorso è affidato a tre motivi di impugnazione.

Si è costituita con controricorso la F..

Nominato, a norma dell’art. 377 c.p.c., il consigliere relatore ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c. ritenendo che il ricorso fosse da rigettare.

Parte ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

All’udienza camerale il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni conformi a quelle di cui alla relazione.

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta:

“Con la prima censura il ricorrente ha dedotto che la corte di merito ha disatteso la domanda del M. affermando che le spese sostenute dall’appellante in riferimento all’immobile in questione non potevano essere tenute in considerazione al fine di giustificare una sua maggiore quota nella divisione ai sensi dell’art. 1115 c.c., comma 3, e quindi la sua prevalenza nell’assegnazione dell’intero immobile, considerando che l’incremento edificatorio del bene di proprietà comune sarebbe da considerare, in adempimento dell’obbligo di contribuzione ex art. 143 c.c., inglobato nel valore dell’immobile. Aggiungeva, che di converso, la medesima corte aveva ritenuto che le spese pagate dalla controricorrente, seppure non rimborsabili ex art. 1115 c.c., davano alla F. la possibilità di prevalere nell’assegnazione dell’immobile. Detta motivazione oltre ad essere contraddittoria perchè trattava diversamente le posizioni dei comunisti, era stata, inoltre, adottata in violazione dei principi generali di cui agli artt. 1101, 1004 e 1010 c.c. e secondo la regola generale dell’art. 1294 c.c., si doveva affermare il principio che tutte le obbligazioni ed i debiti contratti per la cosa comune erano solidalmente a carico dei comproprietari, senza però che ne venisse disposto il rimborso a carico della controricorrente. Ne conseguiva che la quota di spettanza del M. andava incrementata di Euro 43.131,88 (pari al 50% dell’importo di Euro 72.060,62, comprensiva anche del coefficiente di rivalutazione utilizzato dalla stessa corte di merito). Inoltre lamentava che non era sostenuta da alcuna motivazione la riduzione forfetaria del 40% dei valore dell’immobile portato da una perizia in sede esecutiva in Euro 400.000,00.

La censura di violazione di legge e di vizio di motivazione, riportata alla prima delle doglianze è infondata.

Occorre premettere che costituisce orientamento costante di questa suprema corte (Cass. Sez. 1^, 24 maggio 2005 n. 10896; Cass. Sez. 1^, 4 febbraio 2005 n. 2354), che solo nell’ipotesi disciplinata dall’art. 192 c.c., comma 3, viene conferito a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate per spese ed investimenti a favore del patrimonio comune; non anche il diritto alla ripetizione del valore degli immobili provenienti dal patrimonio personale proprio e conferiti alla comunione. Tale principio è da ritenere applicabile, similmente, nel caso in esame per escludere il diritto al rimborso, totale o parziale, del denaro proprio, asseritamele speso per l’acquisto di un immobile caduto in comunione.

Questa conclusione deriva dalla circostanza che il bene acquisito in regime di comunione legale fra coniugi resta immediatamente soggetto alla relativa disciplina e, pertanto, anche alla norma inderogabile dell’art. 194 c.c., comma 1, per cui, in sede di divisione, l’attivo ed il passivo (cioè, da una parte, i beni costituenti il patrimonio comune e, dall’altra, i debiti) debbono essere ripartiti in parti eguali, senza riguardo alla misura della partecipazione (eventualmente totale ed esclusiva) di ciascuno dei coniugi nella spesa per l’acquisto del bene caduto in comunione. E ciò a prescindere dal valutare la tempestività o meno della domanda proposta sul punto dal ricorrente, che dalla medesima sentenza impugnata risulta essere stata precisata solo in sede di gravame.

Da ciò discende che correttamente i giudici del merito non hanno riconosciuto alcunchè al M. a titolo di rimborso in quanto costi sostenuti in costanza del vincolo matrimoniale. D’altro canto una volta intervenuto lo scioglimento della comunione legale per effetto della separazione dei coniugi (art. 191 c.c.) – ed essendo quindi cessata la funzione di mantenimento della famiglia attribuita ai beni della comunione dall’art. 186 c.c., lett. c), ciascuno di essi può domandare la divisione del patrimonio comune, da effettuarsi secondo i criteri stabiliti dagli artt. 192 e 194 c.c..

La norma dell’art. 192 c.c., comma 3, attribuisce, inoltre, a ciascuno dei coniugi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal proprio patrimonio personale ed impiegate per spese ed investimenti a favore del patrimonio comune (escluse quelle adoperate per l’acquisto di singoli beni caduti in comunione). Tale disposizione deve essere coordinata con quella del precedente art. 186, lett. b), per cui i beni della comunione rispondono di tutti i carichi dell’amministrazione: ciò significa che il debito per il rimborso delle spese cui si riferisce il citato art. 192, comma 3, resta a carico della comunione.

Pertanto, al momento della divisione dei beni comuni dette passività, se sussistenti, debbono essere divise in parti uguali fra i condividenti, ai sensi dell’art. 194 c.c., comma 1. Ed è ciò che ha accertato la corte di merito nel riconoscere alla controricorrente il rimborso al 50% dei costi sopportati per il bene comune, spese maturate successivamente alla separazione legale.

Allo scioglimento di una comunione, inoltre, debbono applicarsi – qualora si tratti di beni indivisibili, come nella specie – le specifiche norme dettate in materia di divisione ereditaria ed espressamente richiamate dall’art. 1116 c.c. (assegnazione dei beni ai partecipi aventi diritto alla quota maggiore, con addebito dell’eccedenza; vendita dei beni con ripartizione del prezzo tra i compartecipi). Per tale ragione il giudice del gravame ha tenuto presente, quale necessaria componente del suo giudizio, la concreta entità delle quote dei singoli condividenti, per adempiere il precetto di legge secondo cui gli immobili debbono essere “preferibilmente” compresi per intero nella porzione di uno dei condividenti aventi diritto alla quota maggiore. Pertanto, avendo riconosciuto il diritto della F., ai sensi dell’art. 1115 c.c., comma 3, ad un incremento della propria quota per avere pagato un debito, sorto dopo la separazione, in solido per la cosa comune senza ottenere alcun rimborso, ha proceduto all’assegnazione del bene in questione dopo avere accertato i rapporti di credito e di debito tra i condividenti (v. Cass. Sez. 2^, 16 aprile 1981 n. 2309).

L’argomentazione che precede esclude anche la sussistenza di un preteso vizio di motivazione, in quanto conduce alla stessa conclusione cui sono motivatamente pervenuti i giudici di merito attraverso il rilievo che le spese sostenute dal M. per l’acquisto del terreno e per la successiva progettazione ed edificazione dell’immobile essendo “già inglobate nel valore dell’immobile oggetto della comunione, non possono riemergere come partite di un rendiconto o di un rimborso per indebito”.

L’impugnata decisione non merita, quindi, le critiche mosse sul punto dal ricorrente, avendo la corte d’appello sufficientemente motivato.

Con il secondo motivo censura la sentenza impugnata che ha disatteso la domanda subordinata proposta dal ricorrente di divisione dell’immobile in due porzioni da assegnare alle parti e ciò in base a riferimento alla L. n. 47 del 1985, art. 17, abrogato e sostituito dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, che invece non era applicabile alla fattispecie in esame in quanto la costruzione era stata iniziata prima del 17.3.1985. Diversamente nella specie doveva trovare applicazione la L. n. 47 del 1985, art. 40, non includente fra gli atti peri quali è prevista la nullità lo scioglimento della comunione (v. Cass. 13.7.2005 n. 14764).

Anche detta censura non è da accogliere.

Il concetto della comoda divisibilità, fissato dall’art. 720 c.c., deve intendersi nel senso della possibilità della ripartizione del bene comune senza spese rilevanti, senza pregiudizio per il suo originario valore economico e senza dovere imporre al cespite frazionato, per il suo godimento, eccessivi pesi, servitù o limitazioni (v. Cass. Sez. 2^, 29 luglio 1966 n. 2117; Cass. Sez. 2^ 22 luglio 1963 n. 2034). Tutto ciò è stato verificato dal giudice del merito che facendo richiamo ai motivi ostativi alla divisione in natura del fabbricato esposti dal c.t.u. con note integrative del 28.5.2009, ha ampiamente e logicamente motivato la sua decisione. In questo ambito, la accertata irregolarità urbanistica dell’immobile costituisce una ulteriore dimostrazione della non comoda divisibilità del bene.

Nè il ricorrente ha denunciato con specifiche censure le deduzioni del consulente tecnico di ufficio sì da inficiarne le conclusioni.

Con il terzo motivo lamenta che la corte di merito ha asserito che solo in secondo grado il ricorrente ha formulato domanda per ottenere il rimborso da parte della F. del 50% delle spese da lui effettuate, mentre già nella comparsa di costituzione e risposta depositata in primo grado egli aveva concluso “affinchè la F. fosse dichiarata tenuta al pagamento in suo favore del corrispettivo equivalente all’aumento di valore arrecato alla sua quota del terreno dall’incremento edificatorio costituito da tali oneri da lui sostenuti”, tanto che il giudice di prime cure aveva accolto, sia pure soltanto per un modesto importo, tale domanda di rimborso.

La doglianza risulta superata da quanto esposto con riferimento al primo motivo di censura.

I motivi sono dunque tutti privi di pregio e vanno rigettati.

In definitiva, ritiene il relatore che appaiono sussistenti le condizioni per pervenire a rigetto del ricorso avanzato nell’interesse del M. per sua manifesta infondatezza con riguardo a tutti e tre (per mero errore riprodotto solo il numero di “due”) i motivi precedentemente riportati”.

Nè possono essere condivise le osservazioni di parte ricorrente che nulla aggiungono alle questioni sopra esaminate, in particolare circa la novità delle argomentazioni basate sull’interpretazione dell’art. 194 c.c., comma 1, e art. 192 c.c., comma 3, in quanto, costituendo l’accertamento circa le reciproche posizioni di dare ed avere fra i comunisti un presupposto per la pronunzia di divisione della comunione, deve ritenersi osservato l’obbligo del giudice di merito allorquando dal complesso della motivazione, anche implicitamente, emerga che il giudice abbia comunque considerato gli elementi che incidevano sulle rispettive spettanze, in specie delle regole relative ad acquisto di bene in regime di comunione legale fra coniugi. In definitiva, il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione che vengono liquidate in complessivi Euro 3.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2, il 29 aprile 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2011

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